Gent.mo Francesco
La ringrazio di cuore per quell'intervento e per i suoi dubbi che nascono leggendo i miei articoli e forse il
mio libro Desula.
Nella premessa di quest’ultimo avvisavo
il lettore che
.... in
questo libro, vengono raccontate, attraverso le vicende di donne comuni e dei
loro colori, la storia di un paese ma anche le similitudini con altri popoli
vicini e lontanissimi, nello spazio e nel tempo. E’ tuttavia un racconto e come tale non vuole avere carattere
scientifico o storico di un saggio ed è per questo che non ci sono riferimenti
bibliografici, documenti di prova o citazioni che attestino quanto descritto.
Anche la storia e’ stata percepita e tramandata dai protagonisti in modo
differente da come si legge nei libri.....
Mi rendo conto dei suoi dubbi ed anzi
questi le rendono merito perché effettivamente tutto quello che io descrivo è
controcorrente ed inoltre non sono purtroppo portatore di “verità riconosciute”
Da un punto di vista antropologico
infatti ribalto l’immagine di una comunità barbaricina da sempre associata alla
figura dell’uomo pastore con la
descrizione di una società che è invece
dominata dalle donne. Con attenzione entro nel loro mondo studiando nei
dettagli ogni circostanza perché mi rendo conto che sono proprio queste donne
le depositarie di antiche tradizioni. E così rimetto tutto in discussione anche
il costume e le “verità riconosciute”
anche se arrivano da insigni studiosi. Tutto questo non lo faccio né per
provocazione e neppure con la paura di poter finire annoverato tra “i
sostenitori di una infondata credenza del passato”. La mia posizione è quella
di semplice onestà intellettuale e quindi di voler scrivere semplicemente
quello che penso e quello che è il frutto delle mie ricerche e delle mie analisi.
Da questo punto di vista, pur trovandomi da solo a sostenere le mie teorie, ho
da subito cercato il confronto con un pubblico competente. L’Università di
Cagliari ha dedicato una giornata di studio e la presentazione del libro ma
anche organizzato convegni con ricercatori provenienti da altre università. Ho
presentato il libro in tanti paesi e città e nelle sedi di associazioni
culturali. Ho anche ricevuto l’invito in altre sedi universitarie come Sassari
ma anche in “continente” come Firenze, Verona, Vicenza dove spero
compatibilmente col mio lavoro di potermi confrontare.
In sintesi io approfondisco lo studio dei costumi visto da
sempre come elemento prettamente sartoriale faccendone una trattazione
semiotica. Faccio cioè del costume uno studio dei segni e dei loro significati.
Il mio impegno pertanto non e’ stato quello di mirare a descrivere le bellezze
estetiche del costume oppure a datare il momento in cui sono arrivati in
Sardegna nuovi materiali come damaschi o broccati. Non mi accontento della
datazione di nuove mode, nuovi stili e
nuovi capi di abbigliamento che arrivano a partire dal 1600 ( tra l’altro nessuno con certezza
descrive l’abbigliamento in Sardegna soprattutto quelli dei paesi dell’interno
prima di questo periodo) ma sono partito cercando di decodificare i segni
presenti nei vestiti. Da questo punto
di vista a chi ha seguito tutta la mia trattazione appare evidente sia il
linguaggio e sia i collegamenti con le civiltà del passato come Creta, con la
cultura di Cucuteni, con Shardana
ecc. ecc
Lo studio dei costumi
sardi a mio parere va rivisto con un altro criterio che cercherò di spiegare
con l’esempio della lingua sarda.
Per me dichiarare che
i costumi sardi sono nati intorno al 1600 da quelli spagnoli è come dire che la lingua sarda deriva
solamente dall’incontro con Roma. E’ vero che il sardo viene unanimemente
catalogata come una lingua neolatina ma è anche vero che, a partire dallo Spano
o dallo stesso Wagner, tutti gli studiosi ritrovano dei substrati che portano
ad antiche civiltà. E non è certo una
suggestione che per il Sardella ci sono legami con l’accadico ed il sumerico,
per Bruno Vacca ed Eduardo Blasco Ferrer con il paleobasco, i rapporti con la
lingua greca antica sono stati descritti da M. Ligia, quelli con la lingua
etrusca e con l’area anatolica o microasiatica della Lidia da Massimo Pittau,
oppure il Dedola che trova le tracce dei due macro settori linguistici
(indoeuropeo e semitico) e soprattutto con la koinè linguistica semitica.
Potrei continuare con legami con studiosi che vedono substrati provenienti dai
balcani o dal medioriente giusto per citare quelli più conosciuti.
Con grande attenzioni questi studiosi hanno indagato
capillarmente su ogni termine, sulla toponomastica ricercandone l’origine ed i significati.
Sono andati sui dettagli linguistici con studi meticolosi e scientifici dando
un quadro più profondo di questo argomento tanto che il loro lavoro costituisce
oggi un patrimonio straordinario della linguistica, della glottologia e della
cultura sarda. Stessa cosa si fa in questo sito dove si indaga sui segni
epigrafici che si tramandano anche in epoche e civiltà diverse. Scientificamente si studiano i segni per i loro significati fino a
dimostrare che la sequenza degli stessi porta alla scrittura. Nel mio piccolo
ho fatto la stessa cosa con il costume. Abbino ai segni i loro relativi
significati. La sequenza di colori e ricami costituiscono un messaggio che è
letto da tutta la comunità delle donne proprio perché definito da un codice
univoco. Questo permette di decifrare anche il messaggio più complesso. Il
linguaggio con tutti questi messaggi nel corso dei secoli si sono tramandati
anche attraverso i nuovi supporti che sono arrivati col tempo che si tratti di
damaschi, di broccati, di velluti o di altri tessuti.
Leggendo quotidianamente il vostro sito gli articoli del
prof. Sanna, di Angei ecc. si descrivono i segni epigrafici che
sono impressi nei supporti di pietra e che si tramandano anche in epoche
diverse che vanno dal neolitico fino al periodo romano e forse anche in epoche
successive. Dai menir neolitici, con una straordinaria evoluzione li troviamo
impressi nelle ceramiche, nei bronzetti e nelle pietre nuragiche fino a
trovarli anche nel periodo punico e romano.
Anche nei vestiti delle donne si segue questo criterio e
col passar del tempo i segni vengono trasferiti a nuovi “supporti” mantenendo
la tradizione e costituendo così la parte identitaria di ciascuna comunità.
Dagli antichi costumi dal Sulcis a quelli del sassarese, dalla Gallura al
Sarrabus io leggo nei vestiti tradizionali una miriade di segni
interessantissimi che hanno solo bisogno di essere studiati e decifrati. Per
questo motivo ho scritto Desula e questi articolo e spero che i lettori da
Narcao ad Orgosolo, da Sennori a Samugheo, da Sinnai a Tempio ecc. guardino
anche con quest’ottica il patrimonio straordinario del proprio paese.
Così come sarebbe
interessante studiare il significato di ogni ricamo e se la loro sequenza possa
costituire un segno epigrafico. Le premesse ci sono. Infatti alcuni di essi si
trovano anche nelle cassapanche o nelle porte d’ingresso di vecchie abitazioni
altri hanno un palesemente un significato apotropaico, di felicità, di dolore
ecc.
Ogheddos e ogheddos prenos, maneddas,
mennuleddas, mannuncheddas, maneddas cul’a pare, pretta, pretta torrada a
manu, prettale, pubias, nesigas mannas
e pitticas pianellas pintuladas e isteddas, pioleddas, tirineddas e naìddas,
punt’e ruge, punt’e filau, puntu e trese, pe de pudda, rannas e pubusas,
piccios de arranna,carronadeddas, tricigeddas, traigeddos, schinette lisu e
schinette prenu, arrecramos, galones e
celones, orronulinas, oros e origeddos......
Insomma sul costume sardo, così come sulla
scrittura, sulla stessa civiltà nuragica ed in generale sulla cultura sarda
bisogna liberarsi da questi dogmi che da troppo tempo ne limitano sia lo studio
che il valore. Vorrei concludere ricordando quello che scrissi nella
presentazione del primo articolo su questo sito
L’argomento è sempre stato considerato
“folcloristico” ma ricordiamo che fu lo stesso Gramsci che nelle pagine sulle
Osservazioni sul folclore in aperta polemica con gli studiosi dell’epoca che
guardavano questo argomento con supponenza chiariva che ”non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un
elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul
serio”
No, niente di folkloristico. Hai citato Gramsci ma forse non c'era bisogno. La parola 'folkloristico' ha una connotazione negativa per quanto non sia stata coniata con questo intento. Ho speso molti anni della mia vita per respingerla tanto più che la si usava per la poesia sarda giudicata argomento di 'folklore'. E' così che cercavano di liquidare (e ci provano ancora) la prosa sarda e così anche la poesia. Persino quella grandissima di Antioco Casula. Ciao Giancarlo. E vai avanti.
RispondiEliminaPer caso quella prima fotografia l'hai scattata in Siria?
RispondiEliminaL'ho scattata a Nuoro alla sagra del Redentore. Questa donna trasmette tutto il fascino del Sulcis.
RispondiEliminaE della Siria no?
RispondiEliminaCaro Giancarlo,
RispondiEliminasolo ieri sera mi accinsi a leggere il tuo Contributo, rilevando alcune cose piacevoli.
Ne riporterò due, ritenute più significative in relazione al compito primo che si è assunto un Salotto come quello che ci ospita: «riscrivere la Storia della Sardegna in ordine ai suoi accadimenti primi e letterari»! La qual cosa hai tu posto in essere, attentamente, nei vari contributi!
Dici che racconti, non soltanto la storia di un paese, ma anche le sue similitudini socio-culturali con altri popoli vicini e lontanissimi NELLO SPAZIO E NEL TEMPO! Accidentii!
Ma, sai qual passo hai compiuto, caro Giancarlo, con l’avvicinare i Sardi, anzi non i Sardi, ma un qualsiasi piccolo, dei tantissimi piccoli villaggi dell’interno più profondo della Sardegna, con altri villaggi così ampiamente lontanissimi, ch’eran sparsi in tutto l’orbe terracqueo? Hai gettato in discarica (pur senza esprimerlo a chiare lettere), quelle risibili presunzioni dei vari color che ancora credono ad antichissimo isolamento della Nostra Isola dal resto del mondo! Ben gli sta!
Ne sono felice davvero. Sia come studioso in senso lato sia come studioso della Sardegna! Per aver visto esprimere, tal concetto, in modo originale e da un punto d’osservazione che si fonda su sì tangibile tradizione (certo tutta da rivelarsi nei suoi vari percorsi di propagazione)! E, Sardolettore, permettimi di aggiungere che:
«questa cosa del portentoso variopinto insieme segnico del Sardo Costumene, mi vien spontaneo avvicinare a quella cosa meravigliosamente complessa che i Sardi appellano Nurake! Entrambe, ancora sconosciute per lo più, ci appaiono arrivare dal più vicino Paleolitico lontano»! Gai este!
Riguardo poi la formulazione del concetto, da te sempre rimarcata, che sia stato merito e compito della Donna Sarda, il trasferimento e rinnovo dei simboli e dei valori incentrati sul “Costumene”, mi porta ancora a tempi davvero vetusti, nel lungo trascorrere dei quali, certo la “Donna” era il nucleo propulsore della famiglia e della comunità intera! L’uomo nulla contava, essendo solo pedina (e qualcosa mi duole molto nel dirlo) necessaria alla procreazione, ed interfaccia (pur importante) col il selvaggio, esterno alla comunità.
Ne sono dimostrazione, le tantissime rappresentazioni a figura umana pervenuteci dal più lontano superiore Paleolitico, che attengono al soggetto donna-dea, donna-madre o donna-venere (e Macomer non è solo una fermata)! Essendoci pervenute solo insignificanti testimonianze d’uomo. Ed, ancor qui, siamo costretti ad accostare il villaggio dell’interno più profondo della Sardegna, con un lontanissimo villaggio del lontano Paleolitico, di qualsiasi altra parte del globo!
E questo sarebbe isolamento?
Come vedi, caro Giancarlo, c’è più d’uno che ha disperato bisogno di studiare!
mikkelj
I.A.- Non mi riesce di non porre la seguente notazione telegrafica!
Giancarlo, tu dici: «per me dichiarare che i costumi sardi sono nati intorno al 1600 da quelli spagnoli, è come dire che la lingua sarda deriva solamente dall’incontro con Roma»!
Sono perfettamente d’accordo! Entrambi sono grandi esiti, di grande ignoranza!