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martedì 27 giugno 2017

Storia breve della più grande impresa crittologica dell’umanità che permise di svelare tutti i segreti di migliaia di anni di storia dell’antico Egitto.

tratto da un bell’articolo  di Emmanuele Somma

Di quando François andò controcorrente per decrittare i geroglifici, 2 maggio 2017

La storia che stiamo per ascoltare è un ammonimento perfetto per i giovani moderni. È la storia di un ragazzo svogliato e scontroso che per puro caso scopre il proprio talento. È la storia di una famiglia che lo sostiene. Di un impegno senza limiti. È una storia di passione, in cui l’aria rarefatta della scoperta scientifica si intreccia con le forti tinte dell’impegno politico e civile. È storia di onori, e di pericoli, di controversie e tradimenti.

È la storia, tra le più affascinanti che io abbia mai sentito, della decrittazione dei geroglifici egiziani.

E se alla fine Indiana Jones non aveva convinto vostro figlio a diventare archeologo e invece questa storia sì, sappiate che quanto si dice sulla luna e sul dito si applica anche alla vostra immediata discendenza.

Perché di crittologia stiamo parlando non di archeologia.

Ma si sa, Hollywood può far diventare anche un noioso archeologo un divo del grande schermo, ma non potrà mai rappresentare adeguatamente le centinaia di ore passate a ripetere senza successo i tentativi di una crittologa solitaria e appassionata, prima che riesca a rompere un codice impenetrabile. Ci vuole fortuna pure ad essere un personaggio.

Tutto inizia nel 1797, dopo la pace di Campoformio. Stendhal, che era uno che ne capiva, disse allora: «I giorni di Napoleone sono passati». L’anno dopo Bonaparte, alla testa di una flotta di 328 navi con 38.000 uomini, si lancia sull’Egitto.

I giorni di Napoleone sono iniziati.


«Soldati! Di lassù —li sprona il Generale— quaranta secoli di storia vi guardano!». Pochi giorni dopo, travolgendo la flebile resistenza dei Mamelucchi, i Francesi entrano al Cairo. La spedizione si trasforma in una disfatta quando ad Abukir il diabolico ammiraglio inglese Nelson incrocia la flotta francese e la inabissa. Napoleone torna a casa da sconfitto.
Lascia gli «asini», però.

Centosettantacinque civili, tra scienziati ed artisti, che i marinai chiamano appunto «asini», con le loro duecento casse di apparecchi scientifici e strumenti di misurazione, nonché una biblioteca fornita di qualsiasi libro reperibile sul Nilo e le sue meraviglie, restano in Egitto e fondano al Cairo l’Istituto Egizio.

E mentre gli scienziati misurano, calcolano, registrano, investigano e raccolgono reperti, un artista Dominique Vivant Denon, disegna i monumentali panorami e i resti dell’antica civiltà. Minuziosamente.

Ciò che più di tutto colpisce l’interesse degli studiosi e degli artisti è un oggetto alquanto singolare: una stele di basalto nero con un’iscrizione in tre lingue e in tre diversi caratteri. Diviene celebre col nome di «stele trilingue di Rosetta» e dovrà costituire la chiave di tutti i segreti dell’Egitto!

Nel 1801 i Francesi capitolano ad Alessandria e gli inglesi si portano via tutto. Oggi la Stele di Rosetta è al British Museum. Ma i disegni di Denon no, quelli tornano in patria e hanno un effetto enorme sulla cultura del tempo. Denon, nel 1802 pubblica il suo «Voyage dans la Haute et la Basse Egypte» e nel 1809 François Jomard inizia la pubblicazione dei ventiquattro volumi de «La Description de l’Egypte».

L’egittologia diventa di gran moda e tutti i circoli scientifici, letterari e artistici non parlano d’altro. L’Egitto sorpassa per fama i pur recenti scavi pompeiani voluti da Carolina Bonaparte e persino tutto il minuzioso lavoro di Winckelmann.

Un piccolo neo sciupa l’entusiasmo gli egittologi. Tutti i monumenti sono ricoperti di pittogrammi bellissimi, ma totalmente incomprensibili. Qualsiasi interpretazione si cercasse di dare era frutto d’intuito, e non di reale conoscenza. I geroglifici sono illeggibili, i segni ignoti, e la lingua egiziana sconosciuta. Il più grande orientalista parigino, De Sacy, dichiara sconfortato: «Il problema è troppo confuso ed è scientificamente insolubile!»

Per risolvere un codice, quale che esso sia, ci vuole una chiave e per costruirsi una chiave ci vuole almeno un po’ di conoscenza aperta che riconduca il linguaggio del codice a quello di tutti i giorni. Come per una bomba, ci vuole un innesco, da cui poi tutto il resto può deflagrare.

François era un cattivo scolaro, svogliato e distratto. A scuola non faceva progressi, ma quando il fratello Jacques-Joseph, filologo dotato e archeologo, lo prese con sé a Grenoble per occuparsi personalmente della sua educazione capì immediatamente l’incredibile talento del ragazzo: le lingue. A undici anni, undici!, conosceva perfettamente il latino e il greco e iniziò ad inoltrarsi nello studio dell’ebraico.

Il grande matematico Fourier, noto per l’invenzione della sua operazione matematica di “Trasformata”, negli anni della spedizione in Egitto era stato segretario dell’Istituto Egizio del Cairo, commissario francese presso il governo egiziano, capo della commissione scientifica, si era portato dietro molti disegni, libri e materiali dall’Egitto. Rientrato in patria, era diventato prefetto dell’Isère, e dimorava a Grenoble dove aveva raccolto intorno a sé un circolo di artisti e scienziati illustri. In una ispezione scolastica, Fourier fu colpito dal giovanissimo François e lo invitò a casa dove gli fece vedere carte e disegni tra cui i geroglifici egiziani. «No —rispose Fourier— non riusciamo a leggerli». «Io lo farò!» rispose il ragazzetto.

«Io lo faro! Fra qualche anno le leggerò! Quando sarò grande!» disse François.

Anche Schliemann, fanciullo, aveva detto: «Io troverò Troia!» C’era una differenza: Schliemann era un completo autodidatta, François invece seguì tutto il percorso scientifico ed accademico che poté superando tutti i suoi pari e i suoi maestri. A soli dodici anni François scrisse il suo primo libro: «Storia di cani celebri». Poi decise di chiarirsi per bene le idee sulla storia e scrisse una «Cronologia da Adamo fino a me». A tredici anni venne il momento di studiare l’arabo, il siriaco, il caldeo e il copto, poi leggere i testi zendi, pahlavi e parsi, infine interessarsi alle lingue ideografiche come il cinese antico. Fourier gli manda tutto il materiale in tutte le lingue che può trovare. A diciassette anni realizza la prima carta storica del regno dei Faraoni Egiziani ed è pronto per diventare grande. Ma ci vorrà ancora un po’ di tempo.

Oggi può sembrare cosa da poco compilare un mero elenco di date e periodi di un pezzo di storia, per quanto remota. Sono informazioni disponibili in qualsiasi enciclopedia. Al tempo, a parte che l’enciclopedia stessa era stata creata solo da qualche anno per mano di quel pericoloso rivoluzionario radicale che era Diderot e poi proseguita da D’Alambert, le poche frammentarie notizie che si avevano sulle dinastie egiziane si dovevano ad alcuni passi della Bibbia, a pochi testi latini, arabi e ebraici. Poco altro si poteva desumere per confronto con il copto, una lingua che, incredibilmente, era stata parlata nell’alto Egitto ininterrottamente dai tempi dei faraoni fino a circa il 1600.

«Se l’Accademia, malgrado la vostra giovane età, vi accoglie fra i suoi membri, ciò significa che essa considera quel che voi avete fatto. Ma essa conta ancora di più su ciò che voi potrete fare in avvenire! L’Accademia è convinta che queste speranze saranno confermate, e che un giorno, quando i vostri lavori vi avranno dato un nome, vi ricorderete di aver avuto qui i primi incoraggiamenti»
Con queste parole il diciassettenne François viene nominato membro dell’Accademia di Francia, il più giovane mai ammesso.

Il basalto è magma vulcanico solidificato velocemente a contatto con l’aria o con l’acqua. Ha un colore nero, una grana sottile ed è durissimo. Anche levigarlo non è uno scherzo, inciderlo per scriverci sopra, una pazzia.

La stele di Rosetta, che è fatta in basalto, sarebbe una piccola meraviglia dal punto di vista costruttivo, anche se non sapessimo quello che ha significato per tutta la storia della cultura umana.
Per due millenni è stata esposta alla corrosione dei granelli di sabbia eppure è arrivata a noi in buono stato di conservazione.

È divisa in tre strisce di iscrizioni: 14 righe di geroglifici, poi 22 righe in lingua demotica e infine 54 righe in… greco, in un normale, usuale, tranquillo, traducibilissimo, greco.

È fatta! Tradurre si può, c’è l’innesco!

Per la prima traduzione della Stele di Rosetta non si attese neppure che finisse nelle mani degli studiosi, fu direttamente un generale, grecista del tempo libero che risolse l’enigma: era una dedica del collegio sacerdotale di Menfi che esaltava Tolomeo V, nell’anno 196 a. C.

Fu la prima di una lunga serie di traduzioni illusorie e sbagliate.

La Stele, come detto, finisce al British Museum dopo la capitolazione di Alessandria, ma le numerose copie in gesso, nonché i disegni accurati arrivano a Parigi e da lì si spargono nei possedimenti francesi, poi scavalcano le frontiere. La Stele di Rosetta è la chiave per la conoscenza dei misteri d’Egitto perché è fin troppo chiaro che le tre iscrizioni non sono altro che lo stesso testo in tre differenti lingue, di cui una fin troppo nota. Tradurre la Stele diviene lo sport concettuale del tempo e non ci sono intellettuali francesi, ma anche inglesi, italiani o tedeschi, che se ne sottraggono.
Sbagliarono tutti.

Il problema è che tutti danno per buone le poche informazioni disponibili sulla scrittura egiziana, ovvero false tracce lasciate nel mondo culturale. Nessuno mette in dubbio «le spalle dei giganti» su cui siede l’erudizione del tempo e tutti vanno incontro al fallimento.
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Nel frattempo François, accademico di Francia, lascia Grenoble alla volta di Parigi, dove, invece di frequentare i lussuosi circoli culturali, si immerge nello studio delle fonti, si rinchiude nelle biblioteche polverose e nei musei umidi. Quando De Sacy, l’orientalista, lo vede, gli sembra tutt’altro che un intellettuale di successo eppure, ad una rapida scorsa alla sua introduzione sul Libro dell’Egitto sotto i Faraoni, capisce di aver di fronte un genio, un vero genio.

François studia il sanscrito e il persiano, che De Sacy chiama l’«Italiano d’Oriente», e tutte le altre lingue orientali. Maneggia senza sforzo la grammatica cinese. È l’arabo però che ha su di lui un influsso magico, in pratica François «diventa arabo», tanto da fargli cambiare voce, abbigliamento e persino modo di apparire e muoversi. Alla fine di questa trasformazione viene riconosciuto come arabo dagli arabi. Ad un solo anno di distanza parlerà così bene il copto che ammette di parlare tra sé e sé in quella lingua. Non gli mancano i divertimenti, alla sua maniera, come quando inizia a scrivere lettere e teorie in caratteri demotici, che per un assoluto scherzo del destino verranno rinvenuti quaran’anni dopo da uno scienziato che li pubblicò come veri reperti egiziani originali con tanto di appassionato commento critico.

La sua salute risente di queste sforzi, ma soprattutto delle sue precarie condizioni economiche che non gli permettono un alloggio decente. Il fratello lo mantiene generosamente, ma per i suoi studi François s’indebita e anche il fratello alla fine deve chiedergli di fare economia. Veste male, è sdrucito, non può presentarsi in società. L’inverno è rigido, s’ammala. Viene chiamato alla leva militare imposta da Napoleone, la sola idea di dover servire su un campo di battaglia agli ordini di uomini rudi ed ignoranti lo getta nello sconforto poi grazie all’intercessione del fratello riesce a scampare.

Alla fine prende coscienza che tutti i fili dipanati imparando tutte le lingue, idiomi e ideogrammi convergono in quella che è la sua vera e non segreta aspirazione: risolvere il mistero dell’egiziano. Per farlo bisogna decrittare la Stele di Rosetta.

È il 30 agosto 1808 e, dopo averci girato attorno lunghissimi anni, ha finalmente messo mano all’opera e finalmente orgoglioso scrive al fratello: «Ti sottopongo il mio primo passo!»
«La Nouvelle Explication» di Alexandre Lenoir scocca come un fulmine nel magma vivo dei circoli culturali parigini. È una nuova, definitiva, totale spiegazione del significato dei geroglifici egiziani, tutti completamente decrittati e conosciuti.

Un colpo ferale per François, che ha tra le mani solo sbiadite ipotesi per la propria decrittazione di quello stesso codice che, peraltro, lo porta da tutt’altra parte. François capisce che tutta la sua vita era stata costruita pezzo per pezzo solo per quell’obiettivo, tutto il suo talento orientato a quello scopo dal primo momento in cui Fourier gli aveva mostrato il primo pittogramma egiziano. E dolorosamente si accorge che tutto è sprecato.

Ormai tutti parlano di Lenoir e della sua spiegazione.

François è l’unico a possedere l’assoluta certezza che quello che Lenoir ha presentato è sbagliato. François sa che è tutta immaginazione. Quello che Lenoir sostiene è un’invenzione, ardita ma senza significato. È un miscuglio di fantasia e di conoscenze raffazzonate. Un bel tentativo, ma non meno fasullo di tutti gli altri.

Tutto questo giubilo inadeguato rischia solo di oscurare il successo che spera di avere di lì a presto, quando presenterà la sua opera sulla traduzione dei geroglifici.

Eppure quanto gli bruciano tutti gli onori immeritati che vede tributare dai suoi compatrioti all’impostore Lenoir. Ancora una volta cade in una profonda depressione. Ma questo non è il peggio che gli succede.

Parigi, con tutto il suo clamore per Lenoir, non ha più nulla da offrirgli. È venuto il momento di tornare a Grenoble.

Politicamente François è un vero rivoluzionario. A Grenoble come professore universitario, di solo qualche anno più grande dei suoi studenti, non fa mistero delle sue idee politiche. Napoleone non è più un generale della rivoluzione ma il despota e quando viene sconfitto François festeggia ma è ben consapevole che la disfatta non avvicina, ma allontana, la Francia dagli ideali popolari, democratici e rivoluzionari. Eppure non prende precauzioni. Compone canzoni inneggianti alla libertà che diventano popolari nelle piazze e sulle barricate. È un periodo di rivolgimenti.

Napoleone sconfitto, ritorna, marcia verso Parigi e il trono di Francia.

Marcia verso Parigi, passando proprio da Grenoble, il più importante e strategico centro del Delfinato. E a Grenoble si ferma. François rivoluzionario se la passa male. I suoi avversari scientifici, di quelli meno arditi politicamente, buoni per tutte le stagioni del potere, hanno gioco facile ad additarlo come facinoroso e chiederne l’estromissione dall’insegnamento.

Il fratello di François è sempre stato affascinato da Bonaparte e gli si offre come segretario. Jacques-Joseph agevola l’incontro tra il fratello in disgrazia e Napoleone che riconosce subito il genio di François, mentre questi, riottoso, non è tanto incline a riconoscere quello dell’Imperatore. Ne ha conosciuti, lui, nei suoi studi, di Imperatori di ben altro livello.

Ma Napoleone «…con vece assidua, cadde, risorse e giacque».

E i Borboni sono a Parigi. I deboli, sordidi, Borboni. Deboli, sordidi, ma pur abbastanza forti da prendersela coi bonapartisti nelle fila dei quali, a ragione, includono Jacques-Joseph, e a torto, François.

Congedato dall’Università, bollato come traditore della patria e abbandonato a se stesso, François non si perde d’animo e porta a termine la decifrazione dei geroglifici. Proscritto per più di un anno fa la spola tra Grenoble e Parigi mentre pende sulla sua testa un terribile processo per alto tradimento. È quindi clandestino e fuggiasco quando pubblica il suo libro «Lettre à M. Dacier relative à l’alphabet des hiéroglyphes phonétiques». È quello il momento in cui il mondo si accorge finalmente di lui.
François Champollion è diventato grande e ha decrittato i geroglifici.

Il problema della decrittazione della scrittura geroglifica era dovuto essenzialmente ad una sorta di blocco culturale. Storicamente non si avevano molte informazioni sui geroglifici. Ne avevano parlato molto superficialmente Erodoto, Strabone e Diodoro, più o meno dicendo di comune accordo che fosse un’incomprensibile scrittura pittorica.

L’unico a dirne qualcosa di più approfondito era stato Orapollo nel sec. IV d.C. ed era diventato il punto di partenza di tutti quelli che successivamente avevano analizzato i geroglifici. Orapollo aveva sostenuto che quella geroglifica fosse una scrittura figurata e quindi nei secoli a venire la decifrazione dei geroglifici era tutta orientata a scoprire quale fosse il valore simbolico di ciascuna figura. Dopo Champollion cambiò tutto.

Una scrittura ideografica, come il cinese, prevede che ad ogni insieme di tratti corrisponda una rappresentazione schematica di un concetto o un oggetto. A differenza delle scritture alfabetiche o fonetiche, che hanno poche decine di caratteri, o glifi, quelle ideografiche finiscono per averne molte centinaia, addirittura migliaia e spesso glifi molto simili, per un occhio poco allenato, possono acquisire significati anche drasticamente differenti. Una scrittura ideografica è quindi più difficile da decrittare perché l’unico modo per identificare il significato del segno deve avvenire dal contesto in cui viene utilizzato non potendo riconoscerlo attraverso la semplice giustapposizione di segni letterali o fonetici più elementari.

Partendo dall’idea che l’egiziano geroglifico fosse una scrittura ideografica si chiedeva ai suoi potenziali decrittatori di fornire un significato per ciascun glifo in un contesto ignoto a priori.
Tra quella di Orapollo e quella di Champollion si erano quindi susseguite le ipotesi più fantasiose. C’era chi, come Athanasius Kircher, gesuita, costruttore della lanterna magica e musicista combinatorio, pubblicò ben quattro volumi di geroglifici “tradotti” riuscendo nella non invidiabile impresa di non azzeccarne neppure uno. Quantomeno però comprese che il copto fosse una forma molto tarda dell’antica lingua egiziana.

Il turcologista e sinologista Joseph de Guignes sostenne che i cinesi fossero solo egiziani che si erano spinti un po’ troppo lontano. Sbagliò anche lui la traduzione dei geroglifici, ma almeno indovinò il nome del re egizio «Menes». A seguito di una controversia su questo nome, Voltaire, che è sempre stato particolarmente acido, sostenne che nell’etimologia «le vocali non contano e le consonanti hanno poca importanza». Al francese de Guignes poi si contrapposero alcuni inglesi che sostennero di converso che fossero gli egiziani a discendere dai cinesi. Controversie transnazionali.

Ma a quel punto la Stele di Rosetta non era ancora arrivata.

Quando arrivò la Stele, le ipotesi più fantasiose sulla traduzione dei geroglifici avrebbero dovuto terminare e invece si moltiplicarono. La soluzione sembrava più semplice quindi si esercitarono i più profani. Un anonimo di Dresda risolse il problema in fretta e furia: sbagliando tutto. Un arabo, Ahmed Bin Abubekr, «svelò» un testo e Hammer-Purgstall, che peraltro era un serio orientalista ma incline a farsi prendere in giro facilmente, lo tradusse con grande lena. Solo dopo si capì che era tutto fasullo. Un altro anonimo parigino prese l’iscrizione del tempio di Dendera e la tradusse, all’impronta, per estrarne il centesimo salmo della Bibbia e a Ginevra venne fuori la traduzione dell’«obelisco pamfilio» sulla via Nomentana. Tutto era sbagliato ma affascinante e fantasioso.
Chi si meritò un premio combinato per fantasia, arroganza e stupidità fu il conte Palin che tradusse all’impronta la Stele di Rosetta mettendo assieme le idee, che abbiamo detto sbagliate, di Orapollo, le dottrine pitagoriche e, perché no, anche una fantastica interpretazione cabalistica. E tutto in una sola notte! Poi dopo otto giorni pubblicò il mirabile risultato affermando, con sufficiente prosopopea, che la propria soluzione fosse priva «da errori sistematici che possono derivare unicamente da una riflessione troppo prolungata!»

Non mancò chi, come che l’abate Tandeau de St-Nicolas, sostenne che i geroglifici non fossero altro che un motivo decorativo!

Almeno nessuno tirò in ballo rettiliani e scie chimiche.

François Champollion aveva un’idea chiara sull’opera di Orapollo: «Quest’opera viene chiamata Hiéroglyphica, ma essa non fornisce per nulla l’interpretazione di quelli che noi chiamiamo geroglifici, bensì delle sculture simboliche sacre, cioè dei simboli egizi che sono qualcosa di ben diverso dai geroglifici. Questo ch’io dico va contro l’opinione generale, ma la prova si può trovare sui monumenti egizi. Nelle scene emblematiche si vedono le sculture sacre di cui parla Orapollo, come il serpente che si morde la coda, l’avvoltoio nella posizione da lui descritta, la pioggia celeste, l’uomo senza testa, la colomba con la foglia di alloro, ecc.; immagini tutte che non si ritrovano nei veri geroglifici!»

Così mentre il mainstream egittologico scorgeva nei geoglifici a periodi alterni dottrine cabalistiche, mistiche, epicuree, astrologiche e gnostiche, contratti commerciali, editti agricoli, documenti tecnico-amministrativi per la vita pratica; ma anche pezzi della Bibbia, e scritti prediluviani, e persino dissertazioni in caldeo, ebraico e cinese, Champollion sosteneva che era come se «gli Egizi non avessero posseduto una lingua propria in cui esprimersi». Tutti seguivano Orapollo, solo Champollion gli andava contro.

Lo scontro era fondamentale: Orapollo sosteneva che le figure fossero pittogrammi aventi ciascuno un significato, un po’ come avviene in cinese, Champollion aveva messo da parte questa comune idea, ed aveva lavorato considerando che i singoli caratteri potessero essere vere e proprie «lettere», o meglio «segni fonetici», (diceva «…senza essere strettamente alfabetici, tuttavia fonetici»).
Altri orientalisti, tra cui lo stesso De Sacy, avevano già sostenuto che almeno la striscia della Stele scritta in egiziano demotico fosse composta da segni alfabetici. Questo permetteva loro di fare almeno qualche ipotesi razionale ma non gli permise di andare molto oltre.

Due erano i problemi fondamentali che questi studiosi si erano trovati di fronte. Anche avendo una lingua fonetica o letterale, proprio delle iscrizioni era il problema della difficoltà di separare i blocchi di lettere e quindi riconoscere le singole parole. Posto anche che la lingua permettesse una corrispondenza grammaticale tra l’originale greco e la trascrizione letterale demotica, il crittografo non poteva sapere dove la parola equivalente sarebbe terminata, sempre che la struttura linguistica fosse stata simile. La traduzione avrebbe quindi implicato la soluzione di un problema ancora più basilare, la segmentazione lessicografica.

Inoltre non avendo neppure un ipotetico dizionario delle parole della lingua di arrivo, di cui non si conosceva nessuna relazione con alcuna altra lingua conosciuta, non si poteva sapere cosa corrispondesse a cosa e lo spazio delle ipotesi era talmente esteso da rendere virtualmente impossibile la ricerca. Infine, come se non bastasse la complessità già espressa, la presenza della terza scrittura, quella geroglifica, con il suo ipotetico valore ideografico contribuiva a mandare ancora di più fuori strada i tentativi di traduzione.

Alla fine De Sacy, come tutti gli altri, capitolò dichiarando che, a dispetto dei modesti progessi con il demotico, i geroglifici rimanevano «intatti come l’arca santa».

Qualcuno però ebbe risultati migliori di questi grandi cattedratici. L’unico che ci andò vicino fu Thomas Young, un naturalista, geniale ma filologicamente per niente preparato, che aveva ottenuto notevolissimi risultati nella decifrazione dell’iscrizione demotica, ipotizzando la sua struttura fonetica. Alla fine però nel 1818 anche Young dovette dichiarare il suo fallimento. Aveva lavorato per tentativi ed errori interpolando le parole, senza effettivamente comprenderle, in modo estremamente ingegnoso sullo schema di decifrazione. Young abbandonò la ricerca. Quando Champollion presentò la sua ipotesi confermò l’interpretazione di ben 76 dei 221 gruppi simbolici identificati nel demotico dalle magie interpolative di Young. Sugli altri 145 gruppi però Young non aveva alcun suggerimento.
Champollion ci era arrivato per una strada del tutto diversa.

A differenza di Young, che si era limitato a cercare dei trucchi per identificare parole singole o lettere per analogia o interpolazioni, Champollion aprì totalmente il codice, lo rese completamente intellegibile e fu in grado di leggerlo e insegnarlo senza sostanziali problemi ed applicarlo ai casi più complessi.

Non fu una cosa semplice. L’intuizione di avere a che fare con una scrittura alfabetica era fondamentale, ma identificare, confrontare, inseguire, esaminare, ipotizzare o escludere soluzioni, era un lavoro combinatorio complessissimo da portare avanti per un solo uomo. Avesse avuto a disposizione un home computer degli anni ’80 come un Vic-20 il lavoro sarebbe stato infinitamente più semplice. Champollion invece doveva fare a mano le operazioni di confronto e selezione, doveva escludere le ipotesi che non portavano ad un avanzamento. Solo un metodo algoritmico poteva dare risultati. Ma soprattutto ci voleva un innesco senza cui sarebbe stato impossibile partire.

E l’innesco non poteva non essere nella Stele di Rosetta. Non nella parte discorsiva che conteneva la menzione dei particolari onori che i sacerdoti avevano concesso al re Tolomeo Epifane, di cui esisteva l’equivalenza con l’iscrizione, perfettamente leggibile, in lingua greca, ma nell’espressione dei nomi dei re. Infatti nell’iscrizione geroglifica dove si supponeva ci fosse il nome del re il gruppo di pittogrammi era addirittura raccolto all’interno di un anello ovale, una sorta di grassetto ante-litteram (sic!) in forma di cartiglio.

A vederlo adesso sembra banale: il nome di un re di sette lettere aveva una rappresentazione geroglifica con sette segni (in realtà 8 perché la I è realizzata da due glifi uguali). Dedurre da questo che la scrittura geroglifica fosse letterale e non pittografica può ora sembrare ovvio, semplice, immediato ma significava abbandonare un millennio e passa di pregiudizi in materia e applicare un metodo perfettamente combinatorio per tentativi ed errori.

Nel 1821 fu portato a Londra l’«obelisco di File», trovato dal 1815 dall’archeologo Bankes. Era una seconda Stele di Rosetta con due iscrizioni: una geroglifica e una greca. Al suo interno c’era il già noto nome di Tolomeo incorniciato nel cartiglio, e poi anche un secondo nome enfatizzato dal cartiglio. Champollion non ebbe dubbi, si trattava di Cleopatra.
Cleopatra fu la chiave che aprì tutto.






Il 2°, il 4° e il 5° simbolo del nome Cleopatra coincidevano perfettamente con il 4°, il 3° e il 1° simbolo del nome Ptolemis, ovvero Tolomeo.

La controprova di Champollion era stata trovata, la teoria confermata, la scrittura geroglifica non aveva più segreti e via via se ne comprese l’evoluzione nel tempo, che rese ragione del passaggio dalla più antica grafia «ieratica», corrispondente alla prima striscia della stele, alla più moderna e stilizzata scrittura «demotica» della seconda striscia rosettana.
Champollion lavorò alla sua «Grammaire égyptienne» senza purtroppo vederne la pubblicazione che uscì postuma.


Champollion, al momento in cui consegna al mondo la chiave della scrittura e quindi della storia egiziana, non è mai stato di persona in Egitto. Viene anche per lui il momento di partire. La sua spedizione, durata quasi un anno e mezzo, fu una lunga gloriosa marcia trionfale in Egitto.

Continuava a pendere sul suo capo un processo per alto tradimento, sospeso genericamente come forma di tolleranza della nuova monarchia. Comunque invidie e malignità sul suo conto si sprecavano. Gli indigeni di ogni parte d’Egitto accorrevano a frotte per conoscere lo straniero «che sa leggere le pietre antiche». Champollion leggeva le pietre antiche trovandoci conferme alle sue teorie che gli permettono scoperte inattese, come quando a Tell-el-Amarna propose la tesi per cui la gigantesca costruzione da sempre indicata come un banale magazzino per cereali fosse piuttosto un grande tempio. A Dendera, considerando le incisioni, annuncia che il tempio sempre creduto intitolato ad Iside è invece in realtà il tempio della dea Hathor, la dea dell’Amore, sbeffeggiando anni i dotte ipotesi dei professoroni della Commissione Egizia del Cairo.

Rientrato dall’Egitto, la salute di Champollion declina in fretta e tre anni dopo muore. Aveva goduto del successo nel suo tour nella terra del Nilo e si era levato qualche sassolino dalle scarpe nei confronti della Commissione Egizia, ma in mancanza della sua viva voce, non mancano di apparire scritti ingiuriosi degli studiosi eclissati dal suo lavoro, soprattutto gli inglesi e i tedeschi che dichiarano inefficace e fantasioso il suo sistema di decifrazione, trascurando il fatto che aveva già raggiunto risultati notoriamente esatti. Il riconoscimento scientifico assoluto è lento ma inesorabile. Richard Lepsius traduce il «Decreto di Canopo», ancora una volta una iscrizione bilingue, e dà una ulteriore conferma sperimentale al metodo di Champollion, ma fu l’inglese Le Page Renouf, traduttore del Libro Egiziano dei Morti, nel 1896 a celebrare definitivamente Champollion in un famoso discorso alla Società Reale di Londra.

Nessuno avrà più dubbi: Champollion ha decifrato i geroglifici ed è diventato un grande della storia.



10 commenti:

  1. E' una bellissima sintesi e ho pensato che fosse utile (per alcuni forse utilissimo) farla conoscere anche ai nostri amici e seguaci del Blog.

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  2. Molti sono i sentieri del bosco, ognuno sceglie il suo, ma solo uno porta alla meta.
    Tutti però sono convinti di essere su quello giusto: quanto è difficile, e anche inutile, fargli cambiare idea!

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  3. Alcuni passaggi mi hanno emozionato, altri divertito nell'immaginare uno stuolo di benpensanti idee preconcette, alle prese, in un vociare corale, con una scrittura la cui chiave di lettura è appesa sopra la loro testa; sulla verticale in alto; tanto in alto che sarebbe necessario alzare di tanto lo sguardo da far venire le vertigini. Chi è fuori dal coro, però, quella chiave la vede e molto bene anche, lontano com'è da quel vociare reboante, stridulo a volte, che offusca la capacità di intelligere correttamente.
    Nella sala fa bella mostra la stele trilingue, posta chissà perché, tra le zampe di una enorme sfinge la cui testa arriva fin sotto l'alto soffitto. Voci dicono che abbia posto uno dei suoi famosi quesiti.
    Tutto il coro è lì attorno, come ad una sorta di torta della quale cercano di indovinare gli ingredienti. Alcuni si appropinquano, ma solo per capire se è di loro gusto; altri, i più raffinati, vi trovano spezie esotiche che solo pochissimi eletti conoscono; altri meno raffinati e di bocca buona, per soddisfare il solo loro appetito, tagliano corto e sentenziano che essa è una delle tante torte: tutta estetica, tanta farina e poche spezie; l'importante per questi è soddisfare il proprio appetito. Altri ancora si rifiutano anche solo di guardarla quella torta, temendo che possa essere avvelenata, o ancor peggio: contagiosa.
    Champollion, è lì in disparte, li guarda discutere, armeggiare, sofismare; cercando ognuno il pezzetto di torta che possa soddisfare il proprio appetito.
    Champollion, non vuole mangiare quella torta, è lì per conoscerne gli ingredienti e le dosi.
    Alla fine lo stuolo di Benpensanti, depone le armi e si allontana, tutti senza premio ma ognuno sicuro di essere vicino alla verità.
    Fraçois rimane solo nella sala, volge lo sguardo alla Sfinge; quella sorride e fa l'occhiolino: “Fraçois, la torta è tutta tua!”
    Professore si prepari a mangiare una torta intera!

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  4. Di cose ne dice tante questa storia-anche se glissa su cose poco chiare-anche da parte di Champollion stesso- e minimizza in modo quasi inaccettabile il ruolo che ebbe Thomas Young

    Ma prima di questo:
    -dice che anche se hai la laurea e i titoli giusti se vai contro corrente ti danno del cialtrone lo stesso (come fece perfino Stacy verso Champollion , nelle lettere a Young); o te lo fanno capire con una coltre di silenzio-dissenso (come fanno oggi con Ugas e gli Shardana e con chi data con metodi ultrascientifici le ossa e i denti di Monte Prama),
    -dice che quando la politica si mette in mezzo alla scienza rallenta le cose in modo imprevedibile e insensato: Stacy dava, nel secondo periodo della loro conoscenza, del cialtrone a Champollion perchè era diventato un avversario politico; e peggio ancora lo chiamava così con l'unico che aveva i numeri intellettuali-anche se gli mancava la filologia- per aiutare Champollion ad accelerare i tempi: e cioè Thomas Young.

    Chissà, se avessero potuto lavorare insieme Champollion non avrebbe avuto episodi depressivi così importanti e magari sarebbe vissuto abbastanza per vedere le sue teorie completamente accettate.
    Non è vero che Young usava "che si era limitato a cercare dei trucchi per identificare parole singole o lettere per analogia o interpolazioni" , usava metodi matematici; e non era un naturalista: era dottore di ricerca in fisica e aveva una laurea in medicina. Lui non lo fece, ma altri dopo di lui, in possesso di corrispondenza con Young, anche tra Young e Champollion- accusarono quest'ultimo di plagio: e secondo me con qualche ragione.
    La storia l'ha raccontata, molto bene ed in modo molto documentato, lo storico A. Robinson, A clash of symbols, 2012, Nature 483, 27–28.
    l'abbiamo ripresa qui: http://monteprama.blogspot.de/2014/02/un-linguista-si-ma-per-i-geroglifici-ci.html

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  5. Ne traggo un brano:
    "Ovviamente gli autori francesi supportarono e supportano l' indipendenza intellettuale di Champollion, che è una sorta di eroe nazionale; fuori dalla Francia le opinioni si divisero ed ancora lo sono. Alcuni egittologi britannici hanno suggerito che Champollion prese da Young l' idea che i geroglifici fossero un sistema misto alfabetico-ideografico, mentre altri sostennero che il contributo di Young fu minimo. Ad esempio nel 2005 Richard Parkinson, attuale curatore della Stele di Rosetta al British, scrive: "mentre Young scoprì parti di un lafabeto-una chiave-Champollion decrittò un intero linguaggio scritto".

    Nell' opinione di Robinson, libero dal monopolio intellettuale così caro ad archeologi e linguisti, la verità sta nel mezzo; dopo un' attenta analisi dei contributi di entrambi gli studiosi, scrive: [..]Secondo me la verità sta nel mezzo. Champollion era totlamente sulla strada sbagliata nella prima metà del 1821. Fu l'articolo di Young del 1819 (che lesse più tardi, ndr), specialmente il suo alfabeto geroglifico tentativo, che riorientò Champollion e lo mise sulla strada giusta. Senza quell'articolo Champollion non avrebbe mai fatto il suo scoop del 1822"

    A sostegno della sua tesi Robinson può portare solo indizi, perchè manca l'evidenza documentaria dell'influenza diretta di Young su Champollion: ma studiare gli scritti di Champollion nel periodo 1810-1821 suggerisce che questa influenza vi fu, eccome. Nell' aprile del 1821, prima di leggere l' articolo di Young sull' Encyclopaedia Britannica, Champollion pubblicò un breve lavoro (De l'écriture hiératique des anciens Égyptiens), illustrando 700 segni egizi, tra geroglifici e caratteri ieratici (sistema corsivo da cui derivò il demotico, uno dei linguaggi sulla stele). Nonostante la sua brevità, questo lavoro di Champollion è rivelatore, secondo Robinson, perchè riporta tre conclusioni:
    1. il sistema ieratico è una semplice modificazione del sistema geroglifico, così che i geroglifici sono l' origine del sistema ieratico:
    2. lo ieratico e il demotico sono“in no way alphabetical”;
    3. i caratteri ieratici “are signs of things and not sounds”, quindi ideogrammi non fonetici

    La conclusione 1. era corretta, ma era già stata pubblicata da Young, nel 1815 in una lettera a de Stacy. Champollion lo scrisse solo nel 1821, e vi arrivò da solo (o per lo meno così disse)
    La conclusione 2. era errata e contraddiceva il lavoro di de Sacy, Åkerblad e Young, che erano d'accordo sul fatto che il demotico contenesse quasi certamente elementi alfabetici: nella lettera a de Stacy del 1815, Young scriveva che il demotico "was neither purely ideographic nor a pure alphabet, but a mixture"

    La conclusione 3 che i geroglifici e lo ieratico rappresentavano "cose" e non suoni, era incorretta: la sua conclusione, pubblicata, della negazione del carattere fonetico nello ieratico era un errore colossale, e rivela quanto indietro fosse Champollion rispetto a Young nella decifrazione del sistema.

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  6. Inglesi e francesi e 'primogeniture'? Deus nos iscampet del nazionalismo più radicale e vanaglorioso! E io non ho i mezzi per mettere becco in alcun modo su una contesa che francamente mi lascia indifferente! Ma la storia non è esemplificativa per i 'ricercatori' (che sono comunque sempre benemeriti per il sudore e le sofferenze), quanto per i cialtroni che nulla hanno a che fare con la scienza e 'piccini' e stupidi come sono ne ritardano il corso. Di fronte alla dimostrazione 'oggettiva' dei due cartigli con le lettere di Tolomeo e Cleopatra bisogna solo gioire e abbandonare tutte le meschinità.

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    1. Volevo solo dire che questa sintesi la trovo un pò di parte, sembra che Champollion abbia fatto tutto da solo contro il resto del mondo, che Young ci avesse "preso" un pò solo per "magie interpolative" e che nel campo della linguistica fosse un pivello. Ma non è certo così: quando incontrò sulla sua strada i geroglifici stava scrivendo un trattato per l' Encyclopaedia Britannica dove comparava la grammatica e il vocabolario di 400 lingue note. Ancora prima, nella sua tesi di laurea del 1796 aveva proposto un alfabeto fonetico universale fatto di 16 lettere. E fu lui a coniare l'espressione "lingue indo-europee" nel 1813 (Quello che aveva già fatto per la Fisica -agli inizi del XIX secolo- non vale neppure la pena di menzionarlo: fa parte di tutti i programmi).

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  7. Credo che lo sia, di parte (anche per quello che ora hai aggiunto) ma il Somma non è un 'esperto' e non so neppure quanto abbia scritto di 'suo' e perché abbia scritto il pezzo. Ho pensato di pubblicarlo proprio perché nascesse la discussione. Magari sulla 'piccineria', storicamente ricorrente.

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    1. Diciamo che Francois gli è molto simpatico :)! ma obiettivamente la storia è bella

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  8. Il Somma dice"Almeno nessuno tirò in ballo ....... e scie chimiche"Chissà se far qualche anno riusciremo a saperne di più....

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