dI
Francu Pilloni
Andò proprio così, come me l’hanno
raccontata.
Il maresciallo Nieddu entrò nella cella
del prigioniero:
- Signore, raccolga le sue cose. Domani
mattina alle cinque vengo a prenderla per portarla a Roma, perché
possa presenziare al processo.
Luigi Nieddu era alto 175 centimetri su
cui ripartiva i 68 chili di ossa, muscoli e nervi. Era il comandante
della squadra traduzioni, incarico che, nel gergo dell’Arma, non è
riservato a chi conosce le lingue, soltanto
perché le traduzioni si concretizzano nel
trasferimento di prigionieri da una prigione all’altra. Il metodo e
l’esperienza del maresciallo
Nieddu gli consigliavano
di incontrare sempre
il detenuto prima di prenderlo in
carico, per
capirne l’indole e la eventuale pericolosità. Anche se Gramsci era
un detenuto speciale (politico, gli aveva raccomandato il
colonnello), non fece gran colpo sul maresciallo, almeno quanto a
possibilità di fuga ed eventuale evasione.
- Avrei bisogno di scrivere a casa –
disse Gramsci – per avvertire la
famiglia di non scrivermi più a Milano.
- Le faccio portare un foglio - assicurò
il maresciallo.
E così fece lui stesso di persona,
consegnandogli un foglio regolamentare di cm 20,5x 18, con
le righe tipo i vecchi quaderni della V elementare, ma
più fitte, fronte e retro,
piegato in due per ricavarne 4 facciate di circa 10 cm di larghezza e
18 di altezza. C’erano anche i numeri di repertorio
e il timbro tondo ministeriale in prima pagina e quello ovale a
cavallo tra la seconda e la terza facciata, recante anche la data di
consegna: 9 MAG
1928.
Come
era solito fare, Antonio Gramsci scrisse la lettera alla famiglia nel
suo quaderno-archivio
e poi la ricopiò in bella copia. Ma siccome aveva
scritto “sto
per partire
per Roma”, la datò 10 maggio 1928, sulla prima riga in alto.
La mattina dopo, alle cinque meno due
minuti, il carceriere aprì la porta della cella e il maresciallo
Nieddu chiese se avesse tutto pronto.
Gramsci fece cenno di sì e alzò la mano
che teneva la lettera, chiedendo se doveva consegnarla al carceriere.
- No, non importa. - disse Nieddu – La
dia a me e la spedirò come posta di servizio al comandante della
caserma di Ghilarza. Arriverà prima e il maresciallo la consegnerà
alla sua
famiglia.
Prese la lettera, la
piegò malamente in due e la
infilò nella tasca della giubba, abbottonandola convenientemente.
Entrarono altri due militari che presero
in consegna i pochi bagagli del
prigioniero.
- Le manette? - chiese il carceriere.
- Ci penso io – rispose Nieddu secco.
Uscirono nel piazzale dove li aspettava
una camionetta e altri due militi.
Poi dritti alla stazione.
Uno pensa: avranno preso il treno
diretto, quello più veloce, vista l’importanza del detenuto e
dell’avvenimento che sarebbe iniziato il mattino dopo alle nove.
Invece no. Nieddu aveva scelto una sequenza di treni locali, in
quanto ritenuti molto più sicuri, per il fatto che nessuno avrebbe
sospettato che in uno scompartimento riservato viaggiasse un
personaggio tanto odiato dal regime. E poi, aveva riflettuto Nieddu,
sarebbero arrivati a destinazione molto tardi, in orario che non
avrebbe permesso al prigioniero di incontrare i suoi difensori al
fine di concordare una linea di
difesa. Cambiarono treno cinque volte, scesero nelle stazioni più
piccole dove il trasbordo sarebbe passato inosservato e in pochi
avrebbero riconosciuto l’ex deputato.
- Anche lei è sardo, maresciallo, vero?
- Sì, è così! Quanto e più di lei.
Anche nel cognome: mi chiamo Luisu Nieddu.
- Luisu come Luigi, giusto?
- Sì, signore. In municipio Luigi
Antonio Gaetano, per tutti in paese Luisu, per mia nonna Luisicu.
- Di quale paese? Di Oristano? Da come
parla, si direbbe di quelle parti.
- Sono di un paesino di Parti de Useddus.
O della Marmilla, come a volte ci trattano.
- Di Ales, per caso? Io sono nato ad
Ales.
- Là vicino e non per caso.
- E già, sono io che sono nato ad Ales
per caso. Di Masullas, la villa di
Predi
Antiogu?
- No, quelli sono del Monte Arci, noi
siamo Giarini.
- Ma la scomunica la conosce?
- Quella “Populu de Masuddas … is
cabonis cun is puddas ...”? Ne ho sentito parlare.
- Anch’io. Mi piacerebbe leggerla, ma è
difficile da trovare.
- Specialmente da queste parti – rise
Nieddu – Vuol dare una vista al giornale?
Al prigioniero non era permesso di
leggere i giornali, Nieddu però non lo trovava giusto: che
scontassero la pena, ma non che fossero tagliati dal mondo.
Altrimenti, quando sarebbero usciti, come avrebbero fatto a sentirsi
a loro agio e camminare sulla retta via? Questo poi non è stato
ancora condannato, anche se sono convinto che non ne uscirà pulito.
Gliela fanno pagare di brutto ai comunisti!
Durante il viaggio non vi fu nulla di
strano, a parte che il prigioniero avesse mani e piedi liberi,
conversasse col maresciallo come due paesani che s’incontrano dopo
tanto tempo, ma mai di politica o di governo: se era ladro, con o
senza pioggia, affari loro! Così la pensava Nieddu; molto
diversamente Gramsci, ma ciascuno teneva per sé le proprie
considerazioni. La scorta era in sovrannumero, vista la mansuetudine
del tradotto. Oltre al maresciallo caposcorta, due agenti dentro lo
scompartimento e due fuori, armati di pistola e fucile, ad annoiarsi
e a discretamente simulare. Questi si davano il cambio a intervalli
più o meno regolari, senza rigidità. Avevano preparato i pasti al
sacco, anche per il prigioniero, consistenti in pane, insaccati,
formaggio e qualche fiasco
di buon vino. Erano tutti del meridione della Penisola e non avevano
ancora dimenticato le usanze dei contadini.
Gramsci gradì non poco quei pasti, anche
se mangiava davvero poco. Bevve il vino “a bruncu”, direttamente
dalla bottiglia, dopo aver pulito l’orlo
del fiasco con il palmo della mano, prima e dopo aver bevuto. Così
vide fare al Maresciallo Nieddu, altrettanto fecero tutti gli altri.
Poco dopo la mezzanotte arrivarono a
destinazione, con un camion che li aspettava alla stazione.
Il maresciallo Nieddu presentò dei
verbali in cinque copie, li
fece firmare per avvenuta consegna, ne prese due copie, salutò e
tornò in caserma con lo stesso automezzo, abbastanza rilassato per
una traduzione che, ai piani alti, avevano temuto fosse stata ben più
difficoltosa.
Restava da imbucare la lettera, ma la
dimenticò del tutto.
Tornato
a casa a
fine missione, smise la divisa e
la moglie la prese per lavarla,
visto che aveva accumulato
tanto fumo di carbone nei treni secondari su cui aveva viaggiato.
Frugò in tutte le tasche prima di
bagnarla e fu a quel punto che
trovò la lettera. La lesse:
“10 maggio 1928
Carissima mamma,
mai è certo. Questa lettera mi è stata
data appunto per comunicarti il
trasloco. Perciò scrivimi a Roma d’ora
innanzi e
finché io non ti abbia avver-
tito di un altro trasloco.
Ieri ho ricevuto un’assicurata di
Carlo del 5 maggio. Mi scrive che mi
manderà la tua fotografia: sarò molto
contento. A quest’ora ti deve essere
giunta
la fotografia di Delio che ti ho spedito
una decina di giorni fa, raccomandata.
Carissima mamma, non ti vorrei ripe-
tere ciò che ti ho spesso scritto per
rassi-
curarti sulle mie condizioni fisiche e
(segue
alla pagina 2, interna)
morali. Vorrei, per essere proprio
tranquillo,
che tu non ti spaventassi o ti turbassi
troppo,
qualunque condanna siano per darmi.
Che tu comprendessi bene, anche col
senti-
mento, che io sono un detenuto politico
e sarò un condannato politico, che non
ho e
non avrò mai da vergognarmi di
questa situazione. Che, in fondo, la
detenzione
e la condanna le ho volute io stesso,
in un certo modo, perché non ho mai
quali sarei disposto a dare la vita e non
solo a stare in prigione. Che perciò io
non
posso che essere tranquillo e contento di
me stesso. Cara mamma, vorrei proprio
abbracciati stretta stretta perché
sentissi
quanto ti voglio bene e come vorrei
consolarti di questi dispiaceri che ti ho
dato: ma non potevo fare altrimenti.
(segue
alla pagina 3, interna)
La vita è così, molto dura, e i
figli qualche volta devono
dare dei grandi dolori alle loro
mamme, se vogliono conservare il loro
onore e la loro dignità di uomini.
Ti abbraccio teneramente.
(firma
poco leggibile)
Ti scriverò subito da Roma. Dì a Carlo
che stia allegro e che lo ringrazio
infinitamente. Baci a tutti.”
(segue
la pagina 4, ultima, bianca)
Andò dunque proprio così. Così me la
raccontò un erede del Maresciallo Nieddu, perché il Maresciallo
Nieddu così la raccontò subito
alla moglie e, in seguito, ai
figli quando furono cresciuti.
La lettera restò e credo ancora rimanga
a casa del Maresciallo Nieddu perché oramai era diventata inutile,
in quanto reputò che Gramsci avesse già comunicato alla famiglia il
nuovo recapito.
Pensò pure il Maresciallo che per le vie
ordinarie la censura politica mai l’avrebbe fatta passare integra,
nella parte in cui Gramsci afferma di non vergognarsi della condanna
che subirà.
Avendo visto
e fotografato
io stesso l’originale di quella
lettera, ecco che posso affermare
che essa
non arrivò mai alla famiglia. Naturalmente il suo contenuto è
conosciuto per via della copia che Gramsci ne fece.
Tutta la letteratura sull’argomento si
basa solo ed esclusivamente sulle
copie della corrispondenza, in quanto gli originali sono conservati a
cura di chi li ebbe ricevuti. Ma siccome tutti sono convinti che
tutte le lettere arrivarono a destinazione, qualche volta se ne è
tratto delle considerazioni errate.
Per fare un esempio eclatante,
Peppino Fiori, che ha scritto il libro più bello e più completo
sulla vita di Gramsci, immagina il padre che
piange solitario, mentre legge e rilegge la lettera di Antonio. Il
padre che morì circa un mese dopo la traduzione da Milano a Roma del
figlio.
Ebbene, che avesse pianto non so, anche
se lo ritengo probabile, ma che avesse letto e riletto la lettera è
supposizione infondata. Non ebbe mai a conoscerne l’esistenza, e
tanto meno il tenore delle affermazioni dell’illustre figlio.
Su questo, mi pare di aver posto un punto
fermo.
Grazie Francu per questa importante testimonianza.
RispondiEliminaPerò il maresciallo Nieddu.........Avrà avuto una madre?
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