La rubrica di Maymoni

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domenica 19 novembre 2017

A proposito di lingua sarda

Ieri pomeriggio a Quartucciu è stato presentato un nuovo libro di Giulio
Solinas, molto interessante e usufruibile anche per i problemi grammaticali e sintattici di chi volesse entrare nel merito della lingua sarda campidanese. Non mancano i riferimenti alla metrica e alla storia della letteratura campidanese.
Per l'occasione, sono stato invitato a relazionare non tanto sul testo in modo specifico - lo hanno fatto Angelo Spiga e Gesuino Murru - ma sulla lingua sarda, lasciandomi libero di esplicitare il mio pensiero in merito.
Ecco perché di ciò che ho detto - e che riporto integralmente di seguito - sono l'unico responsabile, non avendo chiesto il parere di nessuno prima di relazionare, non volendo coinvolgere nessuno nella responsabilità delle  enunciazioni.

*****

Da dove viene e dove va la lingua sarda:

PASSATO FANTASTICO, FUTURO DA FANTASMA?

di Francu Pilloni


Il libro che oggi Giulio Solinas presenta ha molti capitoli specifici, tutti interessanti, ben scritti e sufficientemente comprensibili anche a chi non è addentro ai problemi linguistici.
Non parlerò in modo specifico dei temi del libro, anche se i riferimenti ad esso saranno ricorrenti, per confermarli o, se del caso, per contrastarli.
Mi è stata concessa la libertà di parlare di lingua sarda a mio piacimento.
Chi mi ha sentito altre volte sull’argomento, suppongo che si meravigli perché non parlo in sardo del sardo, ma se vi dispiace molto, cambio subito registro, oppure ammasturu totu, sardu, italianu e, candu serbit, inglesu puru.

Si dice spesso che, per capire dove si va, è utile sapere da dove si viene. 
Sarà così anche per la lingua sarda?
Nel libro di Giulio Solinas esiste una sezione che riguarda il passato della nostra lingua, corroborata da ipotesi e citazioni di studiosi e di scrittori, anche dell’antichità classica (Strabone). Credo che siano situazioni superate dalle nuove acquisizioni interdisciplinari che, accanto o in vece della linguistica storica, vedono impegnate l’archeologia e la genetica, oltre a un nuovo metodo di studiare la materia che viene generalmente inquadrato come linguistica comparativa. Fra l’altro, l’idea di comparare due o più lingue diverse non è nuova - ci viene dritta dritta dall’Umanesimo (vedi Giuseppe Giusto Scaligero) -, ma furono i tedeschi Johan Christoph Adelung e Cristian Jacob Kraus, che oltre due secoli fa (alla fine del '700, per essere precisi), definirono negli obiettivi e nel metodo l'approccio scientifico al confronto fra le lingue.
In questo modo si è pervenuti all’idea che tutte le lingue derivino da un antico ceppo che s’è visto ramificarsi di continuo per il cambiamento delle lingue stesse. 
Recentemente, nel 1975 e poi nel 2005, nell’opera “Una guida alle lingue del mondo”, lo studioso americano Merritt Ruhlen ha classificato tutte le lingue oggi esistenti al mondo, compresa la maggior parte di quelle estinte, ma a noi note.
Per fortuna, per le lingue indoeuropee abbiamo a disposizione anche le classificazioni più recenti e dettagliate del tedesco Ernst Kausen. Il suo libro “Le lingue indoeuropee, dalla preistoria al presente” risale al 2012. Ruhlen e Kausen, presi insieme, consentono di avere una buona visione di insieme della classificazione delle lingue che ci riguardano da vicino che gli specialisti identificano in 10 grandi gruppi di lingue indoeuropee, 8 composti da lingue parlate ancora ai nostri giorni e 2 esclusivamente da lingue estinte.
In tale classificazione rientra la specifica delle lingue oggi parlate in Sardegna, vale a dire il sardo logudorese e il sardo campidanese, che sono considerate sì dello stesso ceppo, ma abbastanza differenti da essere valutate diverse. E questo perché le lingue cambiano: quelli che una volta erano dialetti di una lingua comune possono eventualmente divergere abbastanza da non essere più sufficientemente intercomprensibili, e da essere considerati lingue separate.
Giulio Solinas ha fatto un grande lavoro di ricerca sul campo, giungendo allo stesso risultato. E questo lo trovate appunto nel libro, molto ben esplicitato.
Recentemente però è sorta una nuova teoria, ad opera di Mario Alinei, conosciuta come Teoria della Continuità linguistica, che è una teoria etnolinguistica, elaborata in ambito glottologico e archeologico, con inizio dagli Anni Novanta del secolo scorso. La teoria sostiene l'esistenza di una continuità linguistica a partire almeno dal Paleolitico, datando la circostanza a oltre 5000 anni prima dell’era attuale.
Per quanto riguarda la Sardegna in particolare, la lingua indoeuropea si è evoluta in una lingua protosarda, parente prossima delle lingue italiche fra cui il latino antico.

A dire il vero, la Teoria della continuità linguistica la si dovrebbe intestare al canonico Vittorio Angius di Cagliari, il quale espresse i concetti fondamentali parlando della lingua sarda nel famoso Dizionario Geografico-storico-statistico-commerciale dei regi stati, curato da Goffredo Casalis:

Una lingua ufficiale, dissimigliante dal vernacolo, può essere conosciuta da un ristrettissimo numero, da questi pochi praticata; ma l’immensa pluralità ne resterà ignara e seguirà a favellare l’idioma, in cui si cominciò a balbettare nella primissima età. Non sarà mai alterata una lingua nella sua forma nativa, se non si mescoli al popolo che la parli un gran numero di stranieri di linguaggio differente né abolita, se questi immigranti per la loro quantità non soverchino di molto il numero degli aborigeni. Ed invano si contraddirà nella supposizione che la lingua dei romani siasi radicata nelle Gallie e nella Spagna, perché l’affinità della lingua degli abitatori delle regioni galliche meridionali e delle iberiche avea sua vera ragione nella loro origine dalla stessa stirpe latina.
A conferma di questo mio sentire valga quello che accadea in altri paesi dominati dai romani, ma di razza diversa, i quali mantennero la loro lingua nativa, celtica, germanica, fenicia, egizia, ecc.”


Ecco dunque condensata in una dozzina di righe la teoria della continuità linguistica dell’Angius.
E allora, esaminiamo cosa dice: se una lingua altra, metti pure ufficiale e potente, è parlata da una ristretta cerchia di persone, il popolo continuerà a parlare la sua lingua nativa, cioè quella appresa dalle labbra della propria madre.
Che dire allora degli scienziati che attribuiscono al fenicio tutto quanto si trova scritto in Sardegna per un certo periodo, compresa la Stele di Nora, ormai datata a due secoli prima che un fenicio facesse scalo nell’Isola? Come è possibile che “4 o 5 vù cumprà” fenici abbiano influito sulla lingua dei migliaia di sardi di Karalis, di Nora, di Solki, di Tharros? Quando questi non furono neppure dominatori, come successe con i Romani?
E proprio per questo motivo, fa notale l'Angius,  è da stupidi dire che le parlate della Francia meridionale e quelle iberiche siano derivazioni dalla lingua latina, e non piuttosto eredi di uno stesso ceppo linguistico, che Angius chiama latino, ma oggi viene individuato come indoeuropeo. 
Infatti, se così non fosse, anche in Germania, nei Paesi nordici, in Egitto e ovunque vi sia stata dominazione romana, anche là si parlerebbe neolatino, ma sappiamo che non è vero.
Infine, è chiaro da dove viene il sardo: pur mutandosi nei secoli, viene dal quel ceppo indoeuropeo - qualcuno dice anche protoindoeuropeo -, che si parlava già nel Neolitico e poi nell’Età del Rame e del Bronzo. Parlata popolare che neppure i Shardana con la loro lingua semitica riuscirono a scalfire, anche se hanno disseminato di scritte tutto il territorio. 
Nella ricerca di Gigi Sanna sulla scrittura nuragica, ormai forte di oltre 400 reperti, si trovano molti elementi semitici accanto ai pochi protosardi. La scrittura nuragica sino a qui certificata parla infatti esclusivamente di formule religiose, rivolte da un popolo di origine semita (i Shardana o Sherden che dir si voglia) a un dio unico di origine cananaica, vale a dire semitica. Così capiterà coi Romani e coi Bizantini, i quali ultimi hanno lasciato scritte nelle loro lingue, mentre il popolo continuava a parlare il suo vernacolo, per dirla con l’Angius (ci sono carte giudicali scritte con caratteri greci, ma il lessico è in lingua sarda). Altrettanto è accaduto coi Catalani e gli Spagnoli che si sovrapposero.
Per questo motivo gli studiosi del ramo dovrebbero fare attenzione quando compilano un dizionario del lessico sardo a pontificare e ad affermare “Questo termine ci viene dal latino, quest’altro dal catalano, quello dallo spagnolo, ecc.”, senza che abbiano la presenza di spirito di riferirci quali termini sardi siano stati sostituiti da quelli indicati come prestiti provenienti dall’estero. 
O vogliono farci credere gli questi studiosi che, prima che arrivassero gli spagnoli, i sardi avessero mille cose o animali o azioni o stati d’animo fuori dal loro lessico, impotenti per 10 mila anni nell’impresa di assegnare a ogni cosa o persona o azione o stato d’animo un suono specifico della loro voce?

Caro Giulio, ci sei cascato anche tu in questo trabocchetto di svendita del nostro patrimonio lessicale, facendo copia-e-incolla dei dati sin qui forniti e presunti veri in ossequio al principio di autorità. False autorità, come si capisce, perché non dimostrano ciò che dicono, ma fanno i saputelli con due o tre vocabolari a portata di mano. 
Così a cominciare dal Canonico Bissenti Porru e da Max L. Wagner, a seguire con nomi anche meno altisonanti. Se la pecora, in sardo brebei, in francese fa brebis, significa forse che abbiamo aspettato un turista marsigliese per indicare la pecora con un suo nome specifico
Il Porru stesso, che la sa più lunga di tutti gli altri, riferisce che la pecora-brebei-berbeche in greco si dice brètethon, in italiano antico berce, e trova anche un verveces cum agnis octoginta latino antico - vale a dire ottanta brebeis angiadas - : perché non arriva alla conclusione logica, a cui pervenne l’Angius qualche decennio dopo, e cioè che si trattava di lingue derivanti dal medesimo ceppo e pertanto non potevano che avere un lessico abbastanza somigliante, senza dare primogeniture a questa o a quella parlata?
Non è riuscito neppure agli Italiani a scalzare la lingua sarda dalla bocca dei nativi, almeno sino agli anni Cinquanta del secolo scorso, cioè fino a quando le mamme sarde, ancora poco acculturate, insegnavano a parlare ai loro figli usando le parole degli avi.
Allora, siccome la seconda parte del mio ragionamento era: visto che sappiamo più o meno da dove ci arriva la nostra lingua, abbiamo contezza di dove sta andando a parare?
Chiediamoci semplicemente: quante mamme oggi a Quartucciu, a Selargius, a Cagliari, Oristano, Nuoro o Pompu, insegnano le prime parole ai loro bambini usando il lessico sardo?
La risposta ci fa "tremare le vene e i polsi", come ha detto qualcuno prima di me: il sardo oggi non è più la lingua madre maggioritaria.
Tra breve non sarà lingua madre per nessun sardo, bambino, giovane o adulto che sia.
Potrei fare una battuta: E se la colpa fosse delle madri che sono andate a scuola sin troppo? Ah, se fossero rimaste a casa!
Vi è un’altra affermazione in Angius che dovrebbe farci riflettere:

Non sarà mai alterata una lingua nella sua forma nativa, se non si mescoli al popolo che la parli un gran numero di stranieri di linguaggio differente né abolita, se questi immigranti per la loro quantità non soverchino di molto il numero degli aborigeni.

Riflettendo sulla possibilità che una lingua venga contaminata (alterata) o addirittura che sparisca (abolita), oggi due sono gli aspetti palesemente contraddittori: 
1° -la lingua sarda corre il pericolo di estinzione; 
2° - attualmente la Sardegna è popolata nella stragrande maggioranza da aborigeni sardi.
E ora chiediamoci: il gran numero di stranieri di linguaggio differente che ha messo in crisi la lingua nativa, dov'è? Chi sono questi stranieri?
Risposta: siamo noi, noi sardi che ci comportiamo come stranieri nella nostra terra, siamo noi sardi i nemici mortali per la nostra lingua. E non solamente per la nostra lingua, s’intende, ma per tutta una cultura, antica di cinquemila anni almeno, considerando le Culture di Ozieri e di Monteclaro, quelle dette del Vaso Campaniforme del Neolitico e della Prima Età del Rame, che si propongono come probabili matrici delle basi culturali del nostro essere sardi.
Io stesso sono stato un nemico della lingua sarda, se è vero che, per tutti gli anni 60 e ‘70 del secolo scorso, ho accolto in classe bambini sardi che conoscevano solamente il sardo e li ho trasformati in ragazzini sardi che sapevano scrivere l’italiano, ma non il sardo. 
Lo so che vi ero costretto, come un soldato al fronte avevo l’ordine di conquistare un caposaldo, senza accorgermi, senza aver capito che in tal modo ne stavo distruggendo un altro a me ben più caro.
Allora, se queste riflessioni hanno fondamento, dove sta andando a parare la lingua sarda?
A essere ottimisti, come serve che si sia, resiste, resiste, … resiste come sempre ha fatto; a essere realisti, … ditemelo voi!

A proposito del dualismo vero o presunto in atto tra Campidanese e Logudorese, termino con una facezia che ho sentito nei giorni scorsi alla radio: in un rapporto dell’UNESCO, l’agenzia ONU interessata alle lingue a rischio di estinzione, si riferisce la vicenda relativa a una lingua andina parlata ormai solamente da due persone: queste si incontravano ogni giorno per discorrere nella loro lingua nativa. Capita che un giorno hanno bisticciato e da allora non si parlano più: non si sono resi conto che in tal modo hanno ucciso prematuramente la loro lingua.
Quando l’ho sentita, mi è venuto spontaneo di sorridere. Poi ho pensato: e se questa situazione fosse nel futuro dei Sardi? Metti insieme un campidanese e un logudorese: quanto resisterebbero all’idea malsana di impiantare unu kertu fra di loro? Unu kertu, una lite pubblica, così come individuato nel Condaghe di Santa Maria di Bonarcado.
La risposta non mi fa per niente sorridere: su kertu infatti è già in essere. E non da ieri.

P. S.: siccome ho menzionato il condaghe di Santa Maria di Bonarcado (S. M. de Bonaccatu), sappiamo tutti che un Condaghe-condaxi-condake è un atto pubblico di compravendita o donazione. Oggi diremmo un atto notarile.
Bene: M. L. Wagner, che si fa forte del parere di altro studioso (ah, anche qui il benedetto principio di autorità!), afferma che il nostro lemma proviene dal greco-bizantino kontàkion che fu ed è un canto religioso.
Quanta fantasia serve per mettere insieme una giaculatoria con un atto notarile?
Bonaccatu, alla stessa maniera, dovrebbe giungere dal greco-bizantino Panàchrantos che significa Immacolata, purissima, mentre bonaccatu benagatau, vuol dire che uno è stato ricevuto bene, o anche che si è trovato un affare nella compravendita.
E allora?
La risposta sta tutta nel comportamento pressapochista stigmatizzato in un provverbio popolare marmillese: Bastat chi assimbillit a babbu, incortileimiddu a domu! (Basta che assomigli a babbo, portatemelo a casa!)


9 commenti:

  1. Hai fatto bene a dire certe cose. Perché è davvero tutto un copia e incolla. Tanto che mi chiedo come si faccia a non capire che più grigi di così non si possa essere. L'iterazione perenne delle corbellerie. Ma figurati! Toccare (anzi sfiorare) un Wagner o un Meyer Lubke! Mica si può. Se poi azzardi e parli di Alinei rischi le famigerate 250 firme di Frau e l'essere 'comodoumenos' a vita grazie al teatro goliardico delle Ifigonie, tantocare ai vecchi eterni bambinoni dell'Accademia. Ma non sei solo, non rattristarti: ho cercato di dare una mano a Frau sull'origine degli Etruschi e sulla stessa lingua sarda 'esistente da sempre' (parlandogli anche dell'Angius). Domani o dopodomani, con un post riguardante un bellissimo documento nuragico pubblicato dall'archeologo E.Atzeni vedrò di darla anche a te. Piccola naturalmente (ma forse non tanto).

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  2. Gran bell’intervento, Francu. Vuoi dirci come è stato preso (dai Solinas, Spiga e Murru, per cominciare)?

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  3. Un anno fa, ad Assolo, ho avuto l'occasione di praticare i bambini delle scuole elementari di quello stesso territorio dove operai come insegnante alla fine degli Anni Sessanta.
    Ai bambini di Assolo e dintorni ho chiesto, per prima cosa, chi sapesse parlare in sardo; come seconda, chi mi comprendesse se parlavo in sardo.
    Ebbene, visto che il mio sardo è proprio come quello di Assolo e dintorni, mi capivano quasi tutti, salvo degli immigrati, tre o quattro in mezzo a una sessantina di scolari. Chi lo sapeva anche parlare correntemente erano ancora tre o quattro.
    Considerando le proporzioni, mi risultò chiaro che solo il 10% - a largheggiare - dei ragazzi delle elementari aveva come prima lingua il sardo (o anche il sardo).
    Adesso, lasciate passare una generazione e questi ragazzi avranno fra i trenta e i quarant'anni, quanti di loro saranno in grado di parlare in sardo ai propri figli? E fra quelli che potrebbero, in quanti lo faranno davvero?
    Ecco perché c'è poco da stare allegri sul futuro della lingua sarda.

    Nella relazione che presentai ad Assolo il giorno dopo, così come in quella del febbraio scorso (mi pare che le abbiamo passate ambedue nel blog) parlai anche dell'aspetto politico della questione linguistica.
    Questa volta, visto che ho accettato l'invito di Giulio Solinas proprio perché avevo campo libero a parlare di lingua sarda, ho detto altre cose che rimugino da tempo e ho cercato di supportarle con dati derivanti da letture che avevo fatto e di altre che ho fatto per l'occasione. Ecco da dove viene la relazione. D'altronde l'ho detto chiaramente.
    Vi ringrazio, dico Gigi e Francesco, per il sostegno morale. Gigi me ne promette un altro anche più organizzato. Lo aspettiamo.

    Come ci sono rimasti?
    Spiga e Murru mi conoscono abbastanza e non si sono meravigliati affatto.
    Giulio invece - e la cosa mi dispiace - non l'ha presa bene e se ne è lamentato nell'intervento che ha seguito il mio.
    Quanto al pubblico intervenuto, non ho visto visi contrariati, non mi è sembrato che gli applausi, a fine discorso, siano stati quelli stanchi dovuti solo per educazione: ho avuto la sensazione che qualcuno fosse contrariato perché avevo terminato di parlare.
    Alla fine ho constatato come molte persone che neppure conosco, mi si sono avvicinate per complimentarsi. Onestamente dico che sono state più di quanto mi aspettassi (non me ne aspettavo nessuna, a dire il vero!).
    Questo non significa che il libro di Giulio Solinas non sia un bel libro. Anzi è molto utile perché approfondisce le questioni della grammatica e della sintassi della lingua sarda campidanese, oltre a preziosi suggerimenti sull'uso della metrica.

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  4. Quanto alle scomuniche, caro Gigi, io sono un signor nessuno e per loro sono soltanto come un cane che abbaia alla Luna. Pensa se si lamentassero in pubblico! Farebbero pubblicità alle parole che probabilmente li disturbano.
    Non sono così fessi.

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  5. A proposito dell'Angius, riferisce di un frammento di documento in lingua sarda arborense che risale all'anno 740. Come mai non ne ha parlato più nessuno?
    Dovrebbe averlo trovato negli archivi della Curia Tarrense.
    Se si pensa che i primi documenti finora repertoriati risalgono a tre secoli dopo...

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  6. Le "false autorità" non mollano.......Francu e i tentativi folcloristici in atto per salvare la lingua Sarda sono uno specchio per le allodole.Solo I piccoli centri continuano a resistere e gli stessi che hanno affossato la lingua Sarda ora sono in prima fila a gracchiare.....Con il dialetto tabarchino è lo stesso cra cra cra .......Saluti

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  7. Penso con rammarico quando criticai mio fratello Gianfranco che al figlio Carminu,parlava solo in sardo;solo dopo un po' mi resi conto che sbagliavo io,infatti mio nipoti sa benissimo la nostra lingua come sa parlare bene la lingua italiana.Non so se lei,signor Francu,ha detto per scherzo che la colpa di non parlare in limba sia delle mamme,ma credo che sia proprio così.Lo stesso errore lo fecero,a suo tempo, i miei genitori.Meno male,dopo tanti anni fu proprio mio nipote Carminu ad insegnarmi,a bellu a bellu, la nostra meravigliosa e significativa lingua.

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  8. Certo che era una battuta!
    Per le donne sarde fu una sfida insegnare ai propri figli l'italiano, che esse stesse ben poco avevano in pratica. Pensavano però, in buona fede, di migliorare le loro prospettive di futuro.
    Ricordo un episodio riferito nel mio libro del 1998, Ogus Citius, in cui c'è la mamma che riciama a casa la figlia bambina, apostrofandola con queste parole: "Annamaria, sa 'udda pei bia perdasta, vieni qui!". Le parole in sardo significano: che tu perda il basso ventre per strada.
    Dico anche che quella di frastimai, vale a dire augurare il peggio, era solamente un vezzo popolare, e veniva scelto il malaugurio che rispondeva alla rima. Infatti, nell'aneddoto, bia fa rima con Annamaria, mentre il verbo, che poteva anche essere eluso, veniva comunque pronunciato come un'aggiunta, con tono calante rispetto al resto.
    Anche oggi ha dovuto sorbirsi una lezione di educazione popolare. La prenda per il verso giusto, signora Grazia.

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  9. Tutti i suoi insegnamenti,sono importanti,signor Francu e le dico che mia mamma mi parlava sempre in italiano ma le maledizioni erano sarde tipo:"sas manos cancheradas chi iuches" perchè mi cascava tutto di mano per la paura che avevo di lei.

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