La rubrica di Maymoni

Informazioni e invio articoli

domenica 5 novembre 2017

Sollevarsi, distendersi, piegarsi. Ancora sul segreto della formula magica metagrafica etrusca APAC ATIC. La lastra del sarcofago aretino di Aurelia Cassia Firmina. Un pretesto tematico per invocare la forza rigeneratrice del padre e della madre ovvero del sei ciclico eterno. L’analogia di forma, di contenuti linguistici e di ‘religio’ con un bronzetto nuragico sardo.

Gigi Sanna




Si  dice che la lingua etrusca è ancora, per svariati motivi, un enigma e un 'rebus'. Ciò si sostiene, naturalmente, sulla base delle grosse difficoltà che insorgono nel cercare di capire di essa molti degli aspetti lessicali, morfologici e sintattici. In realtà, a mio parere, il 'rebus' sussiste e resiste nel tempo non 'solo' per motivi di carattere grammaticale e linguistico, ma anche e soprattutto perché si stenta a considerare un aspetto essenziale dell'etrusco: che la scrittura è criptica, cioè organizzata e strutturata di proposito con il rebus. E' realizzata per non essere capita se non da pochissimi.  Pertanto nella misura in cui si comprenderanno i meccanismi, spesso sofisticati, del rebus, posti di norma in essere dalle scuole scribali dei santuari, si comprenderà la lingua etrusca. Essi sono simili e spesso gli stessi usati dagli scribi dei templi greci e nuragici. In particolare quelli inventati dagli scribi di  questi ultimi.  








 

     Nelle sale dei Musei vaticani è custodito  un sarcofago aretino (fig.1) molto bello per il disegno della lastra frontale  e di soggetto assai significativo circa  l'ideologia etrusca della rinascita. Vi è  raffigurata una scena di vita agricola apparentemente molto semplice: un contadino guida e regola l’andatura di  un carro (il plaustrum)  trainato da una coppia di poderosi buoi non procedenti all’unisono nello sforzo del tirare. Infatti si osserva che mentre  l’uno di essi si inarca,  l’altro si curva;  motivo per il quale il contadino adopera le due mani e, stando davanti,  fa forza per dare equilibrio al movimento e al procedere del veicolo. Il carro, con la ruota a sei raggi,  contiene tra le sponde un carico di mannelli di spighe ammassati e distesi. Sulla sinistra davanti al carro e  dietro, tra il carro e la coppia di buoi, al fine di dare artisticamente il senso della profondità nel disegno,  si trovano due alberi che protendono la chioma verso l’alto.

  Uno sulle prime giurerebbe che il sarcofago aretino manifesta  ‘semplicemente’ un motivo agricolo, una armoniosa e piacevole scenetta bucolica, per fornire decorazione e bellezza al manufatto; al massimo potrebbe avanzare l’ipotesi simbolistica  che il carro e soprattutto la ruota del carro, nonché le abbondanti spighe ammassate su di esso, alludano all'augurio di un iter felix della defunta nell’aldilà. Un motivo iconografico, per altro, quello del carro e della ruota nonché dei buoi incedenti, non infrequente  in altri sarcofaghi etruschi (1).

   Niente di più sbagliato. Il tema, così  come tutti i temi vari per soggetto (scene mitologiche,  erotiche,  astratte,  storiche di vicende etrusche e non,  di caccia e di pesca, ecc.) di cui si servono i lapicidi (i disegnatori dei sarcofaghi e non i realizzatori di essi) è solo un pretesto per realizzare senso nascosto,  per disegnare e scrivere contemporaneamente. Pertanto da tenere in considerazione non c’è solo il disegno (la forma) e magari il simbolo,  ma anche e soprattutto la scrittura. Lo abbiamo detto e ridetto tante volte, in tutte le salse, forse sino alla nausea (2). E’ la stessa identica tecnica scrittoria dei bronzetti nuragici che offrono ugualmente temi quanto mai vari (3) per scrivere la formula (o le formule) di buon augurio e di sostegno, semplice o doppio, per il viaggio notturno agli inferi e la rinascita nella luce; quella che si ottiene grazie all’intervento energico della divinità bovina (taurina). Non è certo un caso che uno dei bronzetti sardi contenga, come apparente  ‘ornamento’ di una notissima barchetta nuragica, di provenienza ignota (4),  un  tema ‘ironico’ e quasi divertente per il lusus: un carro trainato da un giogo di buoi che procedono in direzione sbagliata, del tutto opposta rispetto  a quella  giusta della barchetta taurina celeste, il mezzo straordinario che dovrà portare il defunto nel regno della luce (5). Ironia tanto più manifesta se si pensa al chiaro paragone escogitato dallo scriba artigiano, cioè alla lentezza di un carro terreno a buoi e alla velocità ideale di una barca solare che naviga volando come una freccia nelle acque celesti. Se si pensa ancora alla modesta taurinicità (potenza) del lento plaustrum in confronto a quella immensa della nave astrale trainata dalla forza un toro reso maestoso e per la ‘gloria frontis’ e per gli ornamenti regali. Il carro terrestre che ‘erra’ risulta  pertanto ‘frenato’ dal  contadino che trattiene vigorosamente uno dei due buoi  afferrandolo per le corna e piantandosi (6) prima di esso (fig. 2).

   E' chiaro. C’è nel disegno una certa variazione formale tra i due ‘documenti’ ma si capisce chiaramente che il motivo sardo del ‘trattenere e regolare’  l’andamento del carro intervenendo sui buoi ha influenzato di non poco quello etrusco. E si capisce ancor più che la formula nuragica del doppio sostegno della doppia forza della luce del padre e della madre (7), è stata presa pressochè integrale dall’etrusco che si serve degli stessi accorgimenti del metagrafico sardo. C’è insomma in entrambi, papale papale, lo scrivere disegnando, ma a rebus, secondo le modalità del codice scrittorio egiziano (8).

   Per capirci qualcosa sull'enigmatico codice comunicativo -espressivo, dopo la descrizione del tema raffigurato nel sarcofago di Aurelia Cassia Firmina, procediamo  con ordine nell’esame dei significanti, partendo con lettura dalla sinistra della lastra. Abbiamo:

  1. un primo albero che si innalza, procede verso l’alto.
  2. dei mannelli di spighe distesi.  
  3. una ruota che gira, che curva.
  4. un secondo albero che si innalza.
  5. un primo toro che si distende.
  6. un secondo toro che curva,  s’incurva.
  7. Un contadino che fa forza agendo sulle corna dei due animali.

    E’ evidente che anche qui, per ottenere senso dal tutto, si debba prendere in considerazione, ai fini acrofonici, il dato consueto, realizzato in mille modi,  delle voci ‘innalzarsi, tendersi (distendersi) e curvare’. Quindi, tenendo presente e servendoci dello schema della lingua ternaria in mix, di cui abbastanza - crediamo -  si è detto e scritto (9), avremo il solito risultato acrofonico, anch’esso ternario  (vocalico, sillabico e consonantico), ottenuto dal latino e dal greco; due codici linguistici questi che, di proposito, vengono adoperati ‘in tandem’ in quanto concorrono a rendere la formula APAC ATIC in lingua etrusca, ovvero la terza lingua.

   Riteniamo che, avendola impiegata tante volte, forse non occorrerebbe più il mostrare analiticamente la formula magica ‘nascosta’, ma la riproduciamo ancora una volta per la comodità di coloro che ci leggono per la prima volta:

   
a) albero che si innalza: innalzarsi: adlevare (oppure ‘aerea’ arbor), airein (αἴρειν).

2) distendersi: pandere, titainein/ τιταίνειν (10).

3) curvare: curvare, kamptein/ κάμπτειν

 

Così è anche, per procedere con un esempio (già oggetto di un nostro commento),  nei notissimi sarcofaghi chiusini (fig. 3) che pur con tema astratto (innalzarsi, distendersi, curvarsi) e del tutto diversi formalmente risultano però del tutto uguali per contenuto nascosto o profondo:
   Naturalmente la sequenza APAC ATIC non dà, così come nei numerosi casi che si sono visti (11), l’intera formula. Perché essa risulta sempre preceduta dalle espressioni ‘doppia forza, doppio sostegno’. In questo caso la ‘doppia forza’ è data non solo da quella dei due buoi, come potrebbe sembrare,  ma anche dalla forza del contadino che con le due  braccia ora premendo verso il basso ora tirando verso l’alto cerca di farli andare di concerto. Una doppia  'doppia forza', una doppia forza ripetuta. Come si spiega?  

   Si spiega con il fatto che la lettura del ‘documento’, con ogni probabilità,  non si ferma. Prosegue in senso destrorso. Ce lo fa capire il fatto che nel disegno, i significanti che offrono la formula del padre e della madre,  altamente simbolici, riguardano tutti il tema della ‘energia’ della rinascita: l’albero della vita, la ruota a sei raggi e il bue (i buoi). Infatti, leggendo stavolta da destra verso sinistra si ha ‘ due buoi + ruota sei + albero’ e cioè doppia forza della luce ciclica  del sei (12) della vita (che dà la vita).

Quindi avremo come lettura completa finale:

Forza doppia del padre e della madre (ricorso all’acrofonia e all’ideografia)

Forza doppia della luce ciclica del sei che dà la vita (ricorso all’ideografia e alla numerologia)

    La lastra del sarcofago riporta così, senza citarla (13), la divinità androgina TIN/UNI, cioè il Sole e la Luna, o meglio, con terminologia astronomica,  il sei ciclico; riporta la manifestazione del dio che, con la sua luce diurna e notturna, con la sua ‘ruota’ perenne e inarrestabile, dà la vita, alternando vita e morte apparente. L’augurio dunque è che la defunta Aurelia Cassia Firmina, in virtù della scritta magica, segretissima e difficilissima da leggere (14),  possa godere di quella potentissima forza ciclica, superare, ad opera del padre e della madre celesti, le tenebre e le terribili difficoltà degli inferi, per rinascere e rivedere ancora la luce.   

Note e indicazioni bibliografiche 

1. V. ad esempio il carro con ruota a sei raggi del noto sarcofago di Laris di Tarquinia.
2. V. di recente  Sanna G., 2017, Amuleto aureo etrusco da Bolsena in scrittura metagrafica. La forza ciclica immortale della luce di Tin e di Uni. L’iterazione logografica e la numerologia mutuate dal nuragico, in Maymoniblog (4 ottobre).
3. Il concetto di ‘variatio’ non è solo dell’arte nuragica architettonica, artigianale, scrittoria ma anche di quelle etrusche. Dalle cospicue testimonianze che abbiamo si può dire che la produzione   'alta' non è mai o quasi mai standard. Nel caso dei sarcofaghi (urne in realtà) ci sembra di poter dire che il committente (in genere un aristocratico o un benestante) cerca di avere dagli scribi lapicidi dei manufatti belli per forma e originali come contenuto ‘tematico’. Le tombe poi che custodiscono il sarcofago o i sarcofaghi di famiglia sono sempre diverse sia per sfarzo pittorico sia per le scene raffigurate. Per queste ultime si è detto da parte nostra che il tema è un mero pretesto e che pertanto non era difficile per l’artista scriba ricavare, con certi accorgimenti di disegno, la formula o le formule segrete d’augurio per il viaggio fortunato dei defunti nel regno degli inferi. Spesso è la stessa mitologia riguardante l’Averno che induce lo scriba a cercare motivi sempre nuovi per ‘accontentare’ il cliente. Si pensa (e si scrive) che la ricchezza delle scene e dei motivi delle tombe e dei sarcofaghi (e delle urne) costituisse motivo di prestigio per il defunto. Ma ciò con ogni probabilità non corrisponde o corrisponde solo parzialmente al vero. Le tombe etrusche all’interno non le vedeva nessuno se non coloro che della famiglia avrebbero poi potuto usufruire di esse.  Si è più nel verosimile nel pensare che, come nelle tombe dei faraoni e dei dignitari egiziani, lo sfarzo e la pompa, così come il sublime linguaggio segreto, non fossero per i viventi ma costituissero un altissimo e doveroso omaggio alla divinità. E’ un rapporto magico che si istaura a due: il defunto e il Dio, il defunto e il padre e la madre TIN/ UNI.     
4. Lilliu G., 1966, Sculture della Sardegna nuragica, Ilisso, Nuoro, fig. 289, pp. 492 - 494.
5. Il tema salvifico della ‘luce’ astrale è del nuragico così come dell’etrusco. Il disco o il cerchio, simboli fonetici pittografici,  assumono il valore della somma delle due luci. Noi moderni siamo portati a distinguere le due fonti di luce, ma per molte popolazioni antiche (sirii, palestinesi, egiziani, sardi, etruschi ed altri ancora) non era così. La stessa nozione di androginia della divinità (yh in nuragico e TIN/UNI in etrusco) nasce proprio dall’osservazione empirica delle due luci non separate ma formanti una unità ciclica perenne inscindibile. Due luci, due ‘lampade’ celesti, ma sempre ‘unite’ nel tempo e nello spazio in cielo. La maggiore potenza luminosa  del sole rispetto a quella della luna portò poi a considerare  toro maschio l’uno e toro femmina l’altro. 
6.  Il significato dunque non è quello di ‘accompagnare’ (De Palmas) ma di ‘arrestare’  il giogo dei buoi. Se davvero pensassimo ad un ‘accompagnare’ ci troveremmo di fronte ad un bifolco che asseconda i buoi nell’andare in una direzione sbagliata, quella opposta delle tenebre che mai porterà alla luce. Il lilliu (cit. pp. 492 - 494) stando dietro le sue ostinate credenze delle barchette come oggetti funzionali (lucerne) e decorativi non intende praticamente nulla dello scopo funerario del manufatto. Gli sfugge totalmente il valore opposto simbolico religioso dei buoi e dei due vettori di viaggio, carro e barca. Pensa, a proposito del carro e dei buoi,  ad un mero motivo ‘figurativo’ di una Sardegna arcaica agricola che impreziosisce l’oggetto e a nulla di più. E’ lo stesso errore che gli ermeneuti dell’etrusco commetterebbero se reputassero la scena del sarcofago della lastra del sarcofago di Aurelia Cassia Firmina  funzionale solo all’estetica, al decoro del manufatto di una donna nobile.  Si osservi, tra l’altro,  l’erroneo  commento finale del Lilliu nel quale si tenta persino di annullare, in qualche modo,  il vistoso paradosso di due motivi opposti come quelli relativi alla funzione di un carro in terra e di una navicella in mare (in realtà in cielo): ‘L’insieme figurativo richiama infatti con schiettezza di rappresentazione all’ambiente rurale della Sardegna dei nuraghi e ci dà un’immagine concreta di un’economia agricola superiore che conosce giù l’aratro e il carro a buoi ,anche se forse non dappertutto diffusa. Un mondo tanto immanente e caratteristico doveva essere questo dei campi se l’artigiano lo tiene presente persino in un tema così lontano, quale è quello marino della navicella’ (p.494).      
7. Per il nuragico semitico la formula, con buona probabilità,  è  ‘oz nl  ‘ab  ‘am h 2 hdm (della forza della luce del padre e della madre il doppio sostegno). Ci auguriamo di poter Intervenire presto, con un saggio apposito,  su questo specifico bronzetto scritto. Per convincersi della sua o relativa o assoluta bontà (della formula) basterà anticipare e far presente  il dato comune del ‘doppio sostegno’  sia dei coperchi dei sarcofaghi sia delle casse etruschi. Le due ‘basi’ della barchetta, che non hanno ovviamente alcun senso funzionale (essendo già stabile una barchetta con il fondo piatto!), hanno invece quello fonetico di ‘ forte sostegno’ . Il cuscino o i due cuscini che ‘sostengono’ il defunto o i defunti, significanti così costanti nell’iconografia etrusca dei coperchi o dei vani delle tombe, altro non sono che differenti segni ideografici che suggeriscono l’identico significato della base dei bronzetti votivi, non a caso  saldamente piombata sulle lastre di supporto.      
8. Sanna G., 2016, I geroglifici dei Giganti. Introduzione allo studio della scrittura nuragica, PTM. ed. Mogoro, 3.2. La scrittura egiziana, pp. 48 - 54.
9. Sanna G., 2017, Uno spettacolare ‘system’ etrusco di scrittura a rebus. Come invocare segretamente l’aiuto di Tin e di Uni? Del padre e della madre? Scrivendo con cipressi, bende, corna, portoni blindati, scudi di Amazzoni, cacce e cani, bipenni, cavalli, leoni e pantere, ecc. Persino con affettuosi (superdotati) cagnetti cortonesi (II); in Maymoni blog  (11 aprile). Sul significato fondamentale del numero tre si tenga presente che è la formula stessa per intero ad essere sintatticamente  tripartita: apa c // ati c // doppio sostegno. E’ il numero  magico che va rigorosamente rispettato se si vuole contare sulla forza assoluta di ogni sarcofago oppure di ogni oggetto o disegno o dipinto presenti nella tomba. Questo non può non far ricordare l’ossessività, negli originalissimi i sigilli mortuari dei ‘Giganti’ di Monte ‘e Prama di Cabras (Sanna G, 2004, Sardōa Grammata. ’ag ’ab s’an yhwh. Il dio unico del popolo nuragico, S’Alvure Oristano, 4. pp. 83 - 179),  nella reiterazione del numero. Persino le tre anomalie presenti in documenti ritenuti a torto ‘speculari’ (sono solo ‘simmetrici’) fanno vedere l’attenzione riposta da parte degli scribi nuragici nel non compromettere, pena l’interruzione e l’annullamento catastrofico del ‘magico’, in nessuna parte dell’oggetto il principio del  ‘tutto tre’ (v.,  http://monteprama.blogspot.it/2013/04/caro-momo-zucca-cun-mimi-non-fruchis-ii.html)          
10. L’acrofonia sillabica è fondamentale nella formula e, da quanto ci risulta, è ‘comodamente’ realizzata sempre con questi due verbi del lessico latino e greco.
11. V. ad esempio Sanna G., 2017,  ANCHE LA SCRITTURA ETRUSCA, COSI’ COME QUELLA NURAGICA, E’ A TUTTO CAMPO. COME UN AFFIBBIAGLIO PUO’ DIVENTARE UN INNO NASCOSTO ALLA DIVINITA’ CICLICA CELESTE E UN’ ACCORATA INVOCAZIONE A TIN E A UNI; in Maymoni blog (24 maggio)
12.  Sanna G., 2016,  Tarquinia. L’ancora della salvezza e il sostegno della luce di TIN /SOLE e di UNI /LUNA. Il greco - cipriota? Non c’entra nulla. Semmai il semitico nuragico di Barisardo;  in Maymoni blog 15 dicembre.
13. Sia il nuragico che l’etrusco (molto di più quest’ultimo) sono alquanto restii a scrivere scopertamente il nome della divinità. I sarcofaghi e le urne etrusche sono spesso zeppe di simboli alludenti a Tin e a Uni ma non realizzano apertamente il nome completo dell’androgino. Le due divinità  sono spessissimo tre/sei, doppia luce, padre/madre , doppio sostegno, doppio toro, leone/leonessa, ecc. . ma mai compaiono (da quanto sappiamo) come TIN/TINIA - UNI.  L’acrofonia, sulla base dei riscontri, al massimo può riguardare la prima lettera del nome, ovvero ‘T’ e ‘U’. V. Sanna G., 2016, Tarquinia. L’ancora della salvezza e il sostegno della luce di TIN /SOLE, ecc. cit.  
14. V. nota 3. La segretezza della formula ci porta nel campo della ‘religio’ etrusca come superstizione. La negatività era un pericolo di cui si doveva sempre tener conto e il malocchio da esorcizzare continuamente. Un testo non chiaro, depistante, apparentemente confuso poteva scoraggiare ogni lettore circa una sua decriptazione. E quanto più la formula era complessa, nascosta, allontanata dall’occhio profano tanto più era garanzia di ‘felicitas’. I Romani, eredi della cultura etrusca per quanto riguardava la sorte e l’esito di essa,  erano molto attenti, come si sa,  alla concreta possibilità di incidere negativamente da parte di terzi sul buon esito delle vicende umane e soprattutto su quelle più importanti.  Anche in momenti di felicità e di accordo, di perfetta positività  tra innamorati, poteva fare capolino l’invidia e quindi mettersi in essere il malocchio al fine di annientarla. Catullo il poeta romano di Sirmione (zona anch’essa di certa influenza etrusca) nella famosissima lirica dei centomila ‘basia’ invita Lesbia alla ‘conturbatio’ di essi, al loro mescolamento perché non si possano ‘contare’ e non possa entrare nella loro sintonia di innamorati  il ‘malus’ con la sua possibilità di ‘invidia’ (ne quis malus invidere possit). Il ‘testo’ numerico dei baci andava oscurato, confuso, reso impossibile da leggere e computare. Né più né meno come i segni della formula di garanzia dell’intervento di ‘sostegno’ degli dei genitori taurini per il pronto rivedere la luce con una nuova vita.     


16 commenti:

  1. Mama mea,Gigi com'è interessante ed affascinate ciò che scopri con i tuoi studi.Ci sarà qualcuno,di molto più colto di te(???) che ti contesterà un'altra volta?

    RispondiElimina
  2. Il più colto di tutti è il 'silenzio'. Lo sanno bene da tanto tempo in tutto il mondo. SE non parli nessuno ti può dire che non hai ragione.

    RispondiElimina
  3. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Signor sconosciuto palesi il suo nome per cortesia.

      Elimina
    2. Il commento è stato cancellato perché anonimo

      Elimina
  4. Gigi,mi scuserai,se mi intrometto sulla lingua sarda,sfogandomi su ciò che ho visto,poco fa,alla trasmissione,"mezz'ora".La conduttrice,accidenti alla mia non memoria,ha intervistato dei minatori sardi che vogliono lavorare ma,grazie ai nostri governi delinquenti,sono senza lavoro.Mi sono commossa fino alle lacrime ascoltando un minatore che ha dovuto smettere di parlare a causa del pianto.Ecco,queste sono cose inaudite e la ribellione sale oltremisura.Il primo articolo della Costituzione parla di diritto al lavoro e,quindi di dignità umana.che viene continuamente calpestata da questi governanti,non solo corrotti ma,sopratutto incapaci.Basta,ora ho chiuso e mi scuso per questa triste parentesi.Anche Gianfranco si sarebbe adirato.

    RispondiElimina
  5. Signora Grazia,mi scusi,ma non si lasci impietosire da chi percepisce uno stipendio da anni senza fare nulla.Se sono I minatori(?)Della carbosulcis pietà mio dio.......Si informi meglio sul caso sulcis.......i minatori siamo noi che ci sbattiamo quindicioredilavoro per mantenere in piedi un sistema.Mi scusi per l'arroganza ma I fatti sono altri......

    RispondiElimina
  6. Signor Thor,ma che arroganza,anzi la ringrazio,io mi infervoro sempre,e molto spesso,sbaglio(me lo fa notare anche il signor Francu) e prendo dei grossi abbagli.Per giudicare bisogna conoscere meglio i fatti,quindi credo che lei abbia ragione.Amo la Sardegna ed i sardi e la mia impulsività,spesso, mi fa dire cose sbagliate.

    RispondiElimina
  7. Signor Thor,per quanto riguarda,però i minatori,non è mica colpa loro se non lavorano e percepiscono,credo che la dignità di un uomo venga calpestata se non gli si permette di guadagnarsi lo stipendio lavorando,non le sembra? Con questo è sempre valido il discorso che le ho scritto sopra.Questa è solo una precisazione sul fatto che loro comunque hanno uno stipendio.

    RispondiElimina
  8. Ma cosa c'entra il 'metagrafico' etrusco e quello sardo con tutto questo? Se me lo spiegate...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ha ragione Gigi,ho abboccato subito.........Mi chiedo a volte se ci sono mai stati contatti con l'archeologia di stato a seguito delle sue scoperte.Oggi sembrano tutti ansiosi di riscrivere la storia Sarda e gli scritti circolanti ne sono il segnale......

      Elimina
  9. Gigi,scusami,avevo bisogno di sfogarmi contro i governi italiani,non c'entra nulla e mi scuso ancora.

    RispondiElimina
  10. Sempre e solo un obiettivo quello manifestato nel rebus (che bel controsenso il mio), auspicare la rinascita secondo il ciclo quotidiano del sole, che tutti i santissimi giorni si alza si distende e infine si curva. Personalmente penso che la luna c'entri poco in questo contesto. Se gli Etruschi veramente furono “figli” dei Sardi nuragici, il doppio sostegno da loro invocato riguardava forse l'entità suprema manifestatasi nei primissimi momento nella creazione della terra/acqua e della luce, ossia madre terra/padre sole. Quel concetto teologico che i Sardi appresero dalle sacre scritture: quelle del Genesi, le più antiche, quelle che gli Ebrei ereditarono a loro volta.

    RispondiElimina
  11. Perché 'forse' se c'è scritto, sino alla nausea, 'APAC e ATIC'? L'androgino è quello che conta. Il maschio e la femmnina. Il Sole e Luna. Cioè la luce nel suo insieme. Ma forse non ho capito quello che hai scritto.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Naturalmente io vedo le cose dal punto di vista astronomico e pensando in tal modo, vedo il sole tutti, tutti i giorni levarsi, distendersi e calare. La luna non la vedo in modo così costante, è lunatica appunto.
      D'altronde la luce che da la vita in termini materiali è solo quella del sole, la luna è deputata solo a regolarla la vita.
      Il binomio potrebbe non essere: sole/luna, ma acqua e luce, binomio inscindibile. La luce da sola non da la vita. Per questo furono realizzati i pozzi sacri per rendere evidente ai fedeli il connubio acqua/luce.
      Nella Torah troviamo il termine יאר (yod 'aleph resh) che a volte è inteso come fiume Nilo (Esodo 17:5) altre volte come “luce” (Esodo 14:20 illuminare). In questo senso intendo la Iuno Etrusca, Era Greca: colei che è controparte acquifera di quella luminosa.

      Elimina
  12. Ma non sei tu che 'pensa' e scrive ma gli Etruschi. E sono gli Etruschi che parlano dei due 'tre' inscindibili. Di due entità in una sola. Dell'androgino. Che è lo stesso 'sei' dei Nuragici. Che c'entra l'acqua e la luce come binomio? Dove sta 'scritto' in etrusco o in nuragico questo binomio? Luna Greca? Il binomio è sempre Tin/Uni/Padre/Madre/Luna/sole. Se vuoi proprio rifarti al V.T pensa alle due lampade della luce. E' da queste che nasce il 'mito' ed è per questo che il disco non è mai dell'uno o dell'altra ma di entrambi. I nuragici e gli Etruschi (e gli Egiziani) stavano molto attenti a non separare mai la doppia luce. Ma detto ciò, che cosa c'entra con l'interpretazione della lastra? Cosa c'entra con la formula? Cosa c'entra con il metagrafico?

    RispondiElimina