CRETA
…….ogheddos,
ogheddos prenos e maneddas
mennuleddas, mannuncheddas, maneddas cul’a pare
pretta,
pretta torrada a manu e prettale.......
premessa
Da tanti anni, prima nel sito di Gianfranco Pintore e poi Monte Prama ed
infine Maymoni seguo quotidianamente i
vostri interventi senza tuttavia poter dare un mio personale contributo. Mi ha
fatto compagnia la storia, le tradizioni e soprattutto la preistoria della
Sardegna svelata nelle pietre, nelle costruzioni ciclopiche e nei segni
epigrafici che rivelano la complessità e la grandezza dell’antica civiltà
isolana. Attraverso questi articoli ogni giorno viene svelata una Sardegna
inedita e affascinante che cattura l’interesse di noi lettori mantenendo allo
stesso tempo viva l’attenzione per gli
interventi qualificati dei partecipanti. I dibattiti, anche quelli più accesi,
garantiscono comunque il valore scientifico degli argomenti.
Con questo intervento vorrei cercare di
trovare tracce del nostro passato
attraverso una “rilettura” dei costumi sardi. Questi spunti sono tratti dal mio
libro Desula (Carlo Delfino editore) in cui in un mondo dominato dalle donne
viene descritto uno dei costumi più antichi e misteriosi della nostra isola.
L’argomento è sempre stato considerato “folcloristico” ma ricordiamo che fu lo
stesso Gramsci che nelle pagine sulle Osservazioni sul folclore in aperta polemica
con gli studiosi dell’epoca che guardavano questo argomento con supponenza
chiariva che ”non deve essere concepito
come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa
che è molto seria e da prendere sul serio”
CRETA
In questo straordinario patrimonio antropologico
e culturale che e’ la Sardegna lo scenario dei costumi ha rappresentato, per i
viaggiatori che sono giunti nell’isola, dal settecento in poi un ambito di
grande interesse. La loro infinita varietà ha portato a varie datazioni e
classificazioni. Nel libro “Dei costumi dell’isola di Sardegna” il gesuita
Antonio Bresciani descrive le genti ed i loro vestiario avviando una profonda e
difficile riflessione storica mediante una comparazione cogli antichissimi
popoli orientali.
Se ci si sofferma a
riflettere come i tessuti di cui si compone il suo costume, in particolare,
l’orbace di lana di pecora ed il lino della camicia poi (oggi sostituito dal
cotone) siano materiali che esistono in Sardegna dalla notte dei tempi. Si
pensi che già nel V secolo avanti cristo, Erodoto riporta che il lino sardo
veniva usato dai Colchi. I sardi venivano descritti con capelli neri e crespi e
di colorito scuro, discendenti dei popoli del mare e provenienti dall’Egitto.
Il lino bianco, con fitte pieghe, che era l’elemento caratteristico del vestito
dell’abito egizio, lo e’ anche della camicia nei costumi sardi.
La lavorazione della
lana ovina e caprina per la realizzazione per tessuto e’ datato intorno al 4000
a.C. (quella di indumenti con uso delle fibre naturali ebbe origine 20.000 –
30.0000 anni or sono).
E’ intorno al 700 a.C.,
proprio nel periodo degli scambi culturali tra la Sardegna e questi popoli
levantini, che viene introdotta la coltivazione del cotone nelle aree del
mediterraneo. Una produzione che aveva origine ancor prima del 3000 a.C. nelle
regioni settentrionali dell’India.
Ma e’ il colore rosso
porpora del vestito di Desulo che rievoca antiche provenienze. Alcuni studiosi
del primo novecento, trovando attinenze con le statuine cretesi, lo definirono
come il costume più antico del mondo. Noi sappiamo come la civiltà minoica si
sviluppò proprio nella prima età del Bronzo. Negli affreschi di questo popolo
l’uomo viene raffigurato con indosso una semplice tunica.
La donna invece aveva un vestito molto complesso, se paragonato agli
abiti dell’epoca, rispetto al vestiario usato delle donne occidentali nel corso
dei secoli successivi. Nel vestire, doveva rappresentare infatti tutta la sua
importanza nel contesto dell’organizzazione sociale. Era’ una civiltà retta da
un sistema matrilineare in cui gli uomini erano lontani per mare e le donne, a
capo della casa e dell’amministrazione economica, indossavano e dimostravano,
con l’abito, il valore, l’autorità e il prestigio che le contraddistingueva
.La donna cretese, così come quella desulese,
indossava un’ampia gonna a campana (camisedda), un corsetto aderente aperto
(palettas) davanti ed un grembiule (saucciu) e sulle braccia un giacchino a
mezzo braccio (cippone). Il colore rosso sgargiante veniva abbinato al blu
disegnando le fantasie che hanno da sempre colpito gli studiosi.
Gli
Egizi, i Greci ed i Romani non seguirono, tuttavia, nella storia occidentale,
l’impronta sartoriale di questo costume. Il vestito con la gonna a campana
affiora invece in alcune culture balcaniche dell’età del bronzo e del ferro ed
in particolare in Bulgaria ed in Serbia. Emergono anche evidenti affinità, nel
taglio e nelle decorazioni geometriche, con la rappresentazione di una statuina
femminile in argilla trovata in Romania a Cirna e risalente all’età del Bronzo.
Ma e’ il riferimento al culto della dea madre come simbolo di fertilità e fonte
di vita che, a mio parere, la collega alle culture più arcaiche dell’Europa
orientale. La venerazione, nella società matrilineare neolitica, della potente
dea della fertilità, infatti sopravvive in diverse aree alla dominazione degli
aggressivi Indoeuropei. Questi guerrieri a cavallo, conquistando i territori,
sovrapposero, quasi dappertutto, una cultura patrilineare. Le donne, abili
artigiane, in alcuni villaggi montani e in alcune aree isolate, nei loro
costumi, continuano a mantenere i canoni che dovevano rappresentare la
continuazione di quel sistema sociale nato dalla venerazione della divinità
protettrice. La Cultura di Cucuteni, così chiamata, e’ quella che lega i
costumi dei villaggi montani dei Carpazi a quelli slovacchi, rumeni, siberiani,
moldavi, ungheresi, macedoni ecc. e che precede con qualche centinaia di anni
tutti gli insediamenti umani Sumerici e dell’Antico Egitto.
segue...
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Ciao Giancarlo, sono contento che abbia scritto qui. Così in tanti scopriranno come si 'scriveva' e si comunicava, all'interno di una comunità, con i 'semata' dell'abito femminile. Una grammatica e una sintassi incredibile. Che bello 'quel giorno' a Desulo! E che carica di 'senso' di fierezza antica sarda quella tua casa!
RispondiEliminaRingraziamo Giancarlo Casula per aver qui voluto pubblicare uno stralcio del suo libro “Desula” che molto interesse sta suscitando nei nostri lettori. Interesse motivato da quella voglia di sapere e di scoprire quel che si cela nei riti, nei costumi, nei modi di dire e di fare della nostra Sardegna ed in particolare di quella parte dell’isola arroccata nelle sue tradizioni e che fino a non troppi anni fa, testimone mia moglie, usava le donne vestire in costume. Forse le giovani donne di Desulo non vestono più il costume tutti i giorni, e possiamo ben capire che ciò accada, la speranza è che il ricordo dei perché di quel modo di vestire non sia delegato solo al libro di Giancarlo.
RispondiElimina... e stiamo aspettando il seguito.
RispondiEliminaRicorda che ogni promessa è un debito.
(non si chi l'ha detto, ma fa molto effetto).
Che bella cosa fare la storia del costumi sardi!Questo serve per non dimenticare.Tenere vive le tradizioni del nostro popolo è un modo per non perdere le caratteristiche morali che tanti italiani ci riconoscono ed apprezzano.
RispondiEliminaI costumi e le tradizioni del passato della nostra isola sono dei ricordi troppo belli
RispondiEliminaMa il bello deve ancora venire! Chi non ha letto il libro di Giancarlo non può capire la comunicazione 'interna' (e forse non solo interna) di un villaggio attraverso il mutare dei 'testi' (i supporti della scrittura), delle forme dei disegni, della loro collocazione e, soprattutto, dei colori. Se è vero che questi messaggi 'scritti' sono (erano) propri di tutta l'Isola, in nessun luogo come in Desula l'arte del comunicare della donna attraverso l'abito raggiunse nei secoli un livello espressivo così alto. Direi di sublime spiritualità religiosa. La gloria del costume femminile in Sardegna è la gloria della sublime spiritualità della donna. E la 'variatio' de 'sos populos' (le genti sarde) lo mostra ancora di più. Purtroppo il codice viene interpretato con le categorie del bello e del meno bello, del ricco e del povero che si offrono superficialmente e parzialmente nei momenti delle feste e delle sfilate. Si tratta invece di ben altro. Di un brutto che poteva diventare bello e di un povero che poteva diventare ricco. Soprattutto niente bellezza di per sé, niente vanità, solo obbligata interpretazione corale dei momenti belli, meno belli, tristi o drammatici della vita dei singoli membri e delle famiglie della comunità.
RispondiEliminaGrazie per lo spazio che mi avete concesso. Un onore per me scrivere in un sito così prestigioso. Proprio da voi ho imparato a vedere che molti di quei segni “ornamentali” hanno invece precisi significati. Gli studiosi che hanno liquidato la nascita dei costumi sardi come risalenti al “600 -“700 devono, a mio parere, rivedere le proprie teorie. Se e’ indiscutibile, infatti, la similitudine di questi con una parte di quelli presenti in Sardegna, appare evidente che costumi come quello di Desulo non hanno niente a che fare con questa teoria.
RispondiEliminaI costumi non sono mode o bizzarrie sartoriali ma la massima espressione del linguaggio femminile.