Entro il
contesto delle concezioni psico-fisiologiche greche e romane arcaiche,
l’immagine del serpente si trova regolarmente associata, nello specifico
impiego contestuale che è possibile registrare nelle fonti, all’elemento psichico dell’uomo. Come abbiamo avuto a
più riprese modo di sottolineare, l’anima
(yuché) in quanto principio
vitale era collegata ad una precisa sostanza (tutti i generi di liquido chiaro)
che è presente all’interno dell’organismo umano – e in particolare nel cranio
(il cervello), nella colonna vertebrale (il midollo), nell’addome (l’adipe
sottocutanea e l’omentum che ricopre
i visceri), nelle articolazioni (il liquido
sinoviale, il cui maggior deposito
sono le ginocchia) – e che viene emesso come sperma all’atto del coito, nonché
come sudore o in forma di lacrime sempre contestualmente a eventi che
implichino un deminutio della vis psicofisica[1].
Come serpente l’anima del defunto si trova sovente rappresentata nelle tombe di
epoca minoica e micenea[2],
e presso i Romani veniva rappresentato in forma di serpente il Genius[3],
Larario della casa dei Vetti a Pompei
il principio vitale individuale trascendente[4],
«natale comes qui temperat astrum»
(«compagno che modera gli influssi dell’astro natale»)[5],
che sopravvive all’essere umano dopo la sua morte[6]
e che non a caso ha la sua sede “fisiologica” nella testa dell’uomo, il più
cospicuo deposito di liquido vitale dell’organismo: «frontem Genio consecratam esse, unde venerantes deum tangimus frontem»
(«la fronte è consacrata al Genio, per cui, volendolo venerare, ci tocchiamo la
fronte»)[7].
In forma di serpente il principio vitale trascendente viene rappresentato anche
dalla tradizione esoterica del tantrismo indiano, per cui la kundalini, ossia l’aspetto della Shakti (l’energia divina che permea di
sé tutto l’universo) immanente ad ogni individuo ma che normalmente giace in
stato di quiescenza come un serpente raggomitolato alla base del rachide, può
essere risvegliato per mezzo della pratica della meditazione yogica, che
sarebbe in grado di dispiegare la kundalini-serpente lungo la spina dorsale, dall’«osso
sacro» all’apice della testa, consentendo in questo modo la perfetta unione
dell’individuo con Shiva, ossia il superamento dei limiti dell’individualità e
il ricongiungimento con il Principio trascendente[8].
La base della colonna vertebrale occupava un ruolo centrale anche nella
fisiologia greca e romana arcaica, ed era normalmente
definita «i|eroén o\steéon» (lat. os
sacrum), così come il canale interno della colonna era denominato «i\eraé su%rigx» (“tubo sacro”) «speérmata e!cousa» (“poiché
contiene lo sperma” [= il liquido vitale])[9].
L’associazione
tra serpente e anima-principio vitale
che abbiamo tratteggiato più sopra si trova esplicitata e confermata in
numerosi testi: Plutarco riferisce, ad esempio, che dopo la morte del re
spartano Cleomene, le guardie che montavano la guardia al suo corpo videro un
serpente avvolgergli il capo, e tutti furono colti da terrore, perché si resero
conto che era stato ingiustamente ucciso un uomo di natura superiore: i più
saggi tuttavia spiegarono che «dal corpo degli uomini, quando i fluidi intorno
al midollo si raccolgono e si rapprendono in se stessi (suéstasin e\n e|autoi%v laboéntwn), si
generano serpi»[10];
Ovidio riferisce che «sunt qui, cum
clauso putrefacta est spina sepulchro, mutari credunt humanas angue medullas»[11],
e Plinio il Vecchio ribadisce che «anguem
ex medulla hominis spinae gigni accipimus a multis»[12];
l’erudito argenteo Eliano attesta infine con altrettanta chiarezza che «la
colonna vertebrale di un uomo morto dicono che trasformi il midollo in
putrefazione in un serpente; e l’animale ne fuoriesce»[13].
Alla persuasione per cui il serpente simboleggi il principio vitale va
ricondotto altresì il mito della nascita di esseri umani dai denti del
serpente, come accade nel mito di Cadmo e di Giasone, i quali, avendo seminato
i denti del serpente-drago ucciso dal primo, una parte dei quali fu consegnata
al secondo da Eeta (che li aveva ricevuti in dono da Atena), generarono dei
feroci guerrieri[14].
Alla mandibola («geénuv» e «geéneion» in Greco) la concezione
fisiologica arcaica attribuiva infatti un preciso valore dinamico-generativo:
dalla mandibola di Zeus, secondo una versione del mito, sarebbe nata Atena[15],
e i denti (lat.: «genuini») che sono
innestati in essa hanno una diretta correlazione con il seme, come attesta
Plinio il Vecchio quando annota che alla perdita dei denti corrisponde la
perdita della fertilità[16].
Ma per tornare
alla relazione che i testi sopra citati istituiscono fra il serpente e il
rachide, crediamo che proprio l’analogia formale fra i due sia l’elemento che
si trova alla base dell’assunzione del primo come simbolo dell’anima[17],
di quel quid di trascendente che
trasforma la materia inerte del corpo in materia viva ed animata, e persino
capace di trasmettere la vita attraverso la trasmissione del liquido che ne
costituisce, in qualche modo, il “supporto” materiale. Numerose fonti
pertinenti all’arcaismo greco consentono di accertare che il liquido
cerebrospinale/spermatico connesso con la yuché ricevesse
originariamente il nome di ai\wén:
Omero, ad esempio, parlando di Odisseo prigioniero di Calipso che ne impedisce
il ritorno ad Itaca, afferma che «i suoi occhi non erano mai asciutti di
lacrime, ma scorreva il dolce ai\wén»[18].
L’emissione di liquido chiaro dal corpo (sotto forma di lacrime, di sudore o di
sperma[19])
era considerata, nella concezione psico-fisiologica greca (così come in quella
romana[20]),
una vera e propria fuoriuscita del principio vitale dal corpo, fuoriuscita che,
anche ad una elementare constatazione empirica,
implica effettivamente sempre una “diminuzione” di vitalità: così è del sudore,
dello sperma, del liquido sinoviale dalle articolazioni, per non parlare del
midollo spinale e del cervello, la cui perdita costituice
una causa irrimediabile di morte[21].
Negli Inni Omerici[22],
da Pindaro[23], da
Ippocrate[24] e
dai tragici[25] il termine è impiegato a indicare
segnatamente il midollo spinale[26].
A
partire da questa primitiva accezione specificamente fisiologica, che permane
con tutta evidenza nel verbo ai\onaéw (“aspergere”), il termine acquisisce
successivamente il senso di “durata della vita”, quindi quello di “periodo di
tempo”, “epoca”, “era” in generale, attestato nell’età classica: tale relazione
fra vita in quanto principio psico-fisiologico
e vita in quanto durata-tempo è
particolarmente interessante sul piano del simbolismo ofidico che qui stiamo
indagando, giacché proprio in forma di serpente le cui spire avvolgono il corpo
di un essere leontocefalo il Tempo, il tempo ciclicamente eterno della
manifestazione cosmica, viene raffigurato simbolicamente nella tradizione
iranica pre-mazdea e avestica, che ne elabora una personificazione nella figura
del dio (poi yazata [“venerabile”]
nel mazdeismo) Zervan[27],
il quale confluisce, attraverso una complessa serie di transizioni, entro il
corredo iconografico proprio dell’articolato simbolismo del mitraismo romano[28].
Per limitarci
però al piano strettamente microcosmico, al quale fino ad ora ci siamo
attenuti, il serpente costituisce – lo ribadiamo – il simbolo di quel principio
vitale trascendente che ha come supporto fisiologico il liquido cerebrospinale
e in generale tutti i liquidi chiari presenti nell’organismo. Tale correlazione
tra la serpe e la vita – che, per inciso, è possibile riscontrare chiaramente
nel lessico della lingua araba, in cui i vocaboli che indicano la seconda (al-hayah) e la prima (al-hayyah) sono legati da un’evidente
corrispondenza etimologica[29]
e appaiono altresì assai prossimi al termine sanscrito che designa la vita, ayuh, a sua volta corradicale del sopra
citato vocabolo greco ai\wén – è testimoniata da una serie interessante
di luoghi e di fatti: nella mitologia greca (e quindi in quella romana) il
serpente è ad esempio il simbolo di Asclepio, il dio guaritore di Epidauro,
figlio di Apollo e di Coronide, istruito nell’arte medica dal centauro Chirone[30].
Il bastone di Asclepio, una verga avvinta da una serpe, è l’analogo
dell’effigie che Yhwh comanda a Mosè di collocare al centro del campo degli
israeliti, e che ha il potere di infondere la vita a tutti coloro che, morsi
dalle vipere inviate dallo stesso Elohim
come punizione per il suo popolo, rivolgano lo sguardo verso di essa[31].
Anche altri due personaggi della mitologia greca hanno uno speciale legame con
il serpente: del sacerdote Iamos, anch’egli figlio di Apollo, si narra infatti
che sia stato allevato da serpenti che lo nutrirono con il miele[32],
e Melampo, figlio di Amitaone re di Iolco in Tessaglia, ricevette il dono della
profezia e della guarigione dopo che dei serpenti gli leccarono le orecchie
purificandolo[33]: tra
le guarigioni da lui operate, particolarmente significativa in questo contesto
è quella di Ificlo, il quale fu guarito da Melampo dalla sua sterilità[34].
A proposito
dell’origine ofidica della facoltà mantica, osserviamo che, come nel caso di
Melampo, anche in quello di Tiresia e dei gemelli Eleno e Cassandra la capacità
di predire il futuro sarebbe stata prodotta dal contatto con serpenti[35].
Ora, la fuoriuscita di liquido chiaro dal corpo, di quel liquido il cui legame
con il serpente abbiamo fin qui fornito le evidenze, denota sempre una perdita
di vitalità e in generale uno “spostamento” rispetto alla condizione
psicofisica normale, poiché si riteneva che l’elemento umido presente
nell’organismo fuoriuscisse in coincidenza di ogni alterazione psicosomatica:
così è per il dolore, la bramosia, la frenesia mentale, il panico e tutte le
altre manifestioni del turbamento psichico. Si giustificano in questo modo espressioni
come: «sic mea perpetuis liquefiunt
pectora curis» («così il mio petto si
liquefà per le continue angosce»)[36];
«quae tum [bacchantes] alacres passim
lymphata mente furebant» («esse [le baccanti] infuriavano ovunque con la
mente pazza [ma letteralmente lymphata,
cioè “piena di liquido”]»)[37].
Il verbo lymphari, ossia “essere in
uno stato di frenesia”, è collegato altresì all’effetto di alcune sostanze
liquide che vengono ingerite, prima fra tutte il vino: per questo Plinio
afferma che «hac pota lymphari homines»
(«con tali bevande gli uomini raggiungono lo stato di frenesia»)[38].
Un simile turbamento è, precisamente, anche quello che consente l’ipirazione
profetica e poetica, al punto che tale stato era ricercato dai vates attraverso l’inalazione di vapore[39]
o l’ingestione di sostanze liquide quali acqua, vino, miele o sangue[40],
e talvolta masticando le foglie di lauro per estrarne il succo[41].
La relazione
fra il simbolo del serpente e la dimensione psichico-vitale si esplicita anche
nel contesto del simbolismo iniziatico pertinente ad alcuni culti misterici, in
cui si tratta di adombrare emblematicamente la facoltà generativa del dio
titolare dei misteri, che conferisce all’iniziato una nuova vita, in unione al
Principio: così il serpente diventa attributo precipuo della dea “madre” Iside,
che si adorna il capo dell’ureo d’oro, di Demetra, rappresentata talvolta con
dei serpenti avvinti alle spighe tenute nelle due mani, e – ma con una
complessità decisamente maggiore – di Dioniso. Secondo il mito traco-frigio di
Dioniso ctonio, piuttosto arcaico, ma riferitoci compiutamente solo da un
autore greco tardo, Nonno di Panopoli (V sec. d.C.), nel suo poema intitolaro Dionisiache, Dioniso sarebbe figlio di
Zeus e Persefone, da lei generato prima delle nozze con Ade. Zeus si era
avvicinato a Persefone sotto forma di serpente e generò così il «primo
Dioniso», «Zagreo», il «fanciullo cornuto» che potè – unico fra gli dei –
sedere sul sommo trono di Zeus e persino maneggiare la sua folgore. Era, rosa di
gelosia, istigò contro il fanciullo i Titani, già puniti dal suo sposo che li
aveva confinati nel Tartaro. Costoro emersero dagli abissi aiutati da Era, che
aveva dato loro anche dei giocattoli per attirare il piccolo Dioniso. L’inganno
ebbe successo, e i Titani poterono così ucciderlo mentre egli si guardava allo
specchio (uno dei giocattoli offertigli): lo smembrarono in sette pezzi e, dopo
averne cotto le carni, lo mangiarono. Fu Rea, la madre degli dei, a ricomporre
le membra del dio e a prendersi cura di lui dopo la sua resurrezione. Ora, la
più arcaica iconografia dionisiaca è quella dell’Axios Tauros (“Nobile Toro”), come ad esempio egli viene invocato
dalle donne dell’Elide in un antico canto cultuale[42].
Tale simbolismo taurino è da ricondurre a quello più generale delle corna, il
cui significato universale – da noi già ricostruito e presentato altrove[43]
– è con tutta evidenza quello di potenza virile ed elevazione, quindi anche di
fertilità e in generale “vitalità”. Il «toro nato dal serpente» è precisamente
il Dioniso venerato con l’attributo di Sabazio, tributario di un culto
iniziatico che ebbe una sua diffusione nel mondo ellenistico[44].
Clemente Alessandrino, dopo aver riferito il mito della seduzione di Demetra da
parte di Zeus, attribuisce al rituale di Sabazio, che prevedeva l’uso di
un’effigie ofidica in oro[45],
la simbologia del «dio attraverso il seno», con chiaro riferimento
all’incontinenza di Zeus, che si sarebbe in seguito unito a sua figlia
Persefone generando un Dioniso tauromorfo, secondo quanto è sintetizzato nella
formula sacrale «il toro è padre del serpente e il serpente è padre del toro»[46].
Un interessante
parallelo di tale “fusione” tra serpente e toro è nella rappresentazione
virgiliana del Tevere «corniger»[47],
così come nella personificazione del fiume Acheloo, che assume di volta in
volta le sembianze del serpente o del toro per affrontare Eracle[48]:
si noterà che il doppio simbolismo complementare è precisamente attribuito in
entrambi i casi ad un corso d’acqua, elemento che, come si è osservato,
costituisce l’analogo del liquido chiaro costitutivo della vita[49].
L’associazione dei simboli del serpente e del toro è stata di recente osservata
da Sandro Angei, Gigi Sanna e Stefano Sanna nel notevole compesso sacrale
prenuragico di Monte Baranta presso Olmedo[50],
e interpretata, sulla base dell’orientamento solstiziale della “camera”
taurina, come luogo deputato alla celebrazione rituale–propiziatoria della
culminazione solare (attraverso il simbolismo dinamico del toro) e della
perpetuazione ciclica della vita cosmica (attraverso il simbolismo vitalistico
del serpente)[51].
Come è evidente, siamo ora condotti dal piano
microcosmico della psico-fisiologia umana a quello macrocosmico della
struttura, delle “dinamiche vitali” dell’Universo, entro le quali il simbolismo
del serpente assolve, giusta la legge fondamentale del simbolismo, quella cioè
della “corrispondenza” fra «ciò che sta in alto» e «ciò che sta in basso»[52],
una funzione ugulamente centrale: nella cosmogonia di Esiodo ad essere
raffigurato come un serpente che si avvolge con nove spire attorno al mondo (la
decima è quella sotterranea dello Stige) è l’Oceano, l’elemento liquido che
costituisce e “infonde” la vita e sostiene la terra. Tale fisionomia
spiraliforme della serpe richiama ovviamente quella del noto simbolo dell’uroboro,
il serpente che si morde la coda formando un cerchio e che, in un atto di
autofecondazione continua, sostiene la manifestazione e la rigenerazione
ciclica dell’Universo[53].
Come si è detto sopra, il “ruolo” del serpente conservatore e perpetuatore
della vita universale è alla base della sua interpretazione come Tempo, come
tempo ciclico della manifestazione cosmica, nel caso dello Zervan iranico, in modo del tutto analogo al processo per cui
l’ai\wén sostanza vitale passa progressivamente a designare l’effetto “attuale”
di quella sostanza nella durata dell’esistenza in vita di un organismo. Allo
stesso modo, anche secondo la teogonia orfica di Ieronimo ed Ellanico
tramandata dal bizantino Damascio nel VI sec. d.C.[54],
il serpente sarebbe il Tempo, figlio della Terra e del Cielo, il quale, unitosi
alla Necessità, avrebbe generato l’Uovo cosmico da cui sarebbe nato Protogono
(detto anche Pan), l’androgino originario totipotente che
contiene in sé i semi di tutte le creature. Nella cosmologia vedica, invece,
come serpente è descritto lo stesso Brahman
(«un verme cieco e una vipera sorda, senza mani e senza piedi»[55]),
il sostegno trascendente del Cosmo, l’Axis
Mundi, che può presentarsi sia nel suo aspetto “apicale” celeste, quanto in
quello “ctonio”: in questo caso esso è il supporto non manifestato (Ananta) della manifestazione, analogo
cosmico della kundalini nell’organismo
umano: non è un caso se nella costruzione della casa, altro equivalente
microcosmico dell’Universo, al pinnacolo costruito sopra il tetto a indicare il
prolungamento del Pilastro Cosmico verso il cielo, corrisponde il cuneo di
legno (khadira) piantato sul
pavimento, che costituisce la base del Pilastro stesso, e che si vuole
conficcato proprio nella testa di Ananta,
al centro del Cosmo, là dove si trova il fondamento della “colonna vertebrale”
dell’Universo[56].
[1] Cfr. G.M. Corrias, Il tipo iconografico del gastrocefalo;
Aspetti dell’elemento igneo nel simbolismo legato alla morte.
[2] Cfr. M.P. Nilsson, The
Minoan-Mycenean Religion and its Survival in Greek Religion, Lund 1950, pp.
273ss.
[3] Cfr. Cic., Div. I 18, 36; Liv., XXVI 19;
Iul. Obseq., 58. Tra le numerose raffiurazioni pittoriche del Genius, una delle più celebri è
sicuramente quella del larario della casa dei Vetti a Pompei.
[4] Per la concezione romana
del Genius cfr. G.M. Corrias, Dei e religione dell’antica Roma,
Cagliari 2015, pp. 101-103.
[6] Come nel caso di Enea,
che, secondo Ov., Fast. II 545, «patris Genio sollemnia tura ferebat» («offriva al Genio del padre
[defunto] solenni doni d’incenso»).
[7] Serv., Ad. Aen. III 607. Si noti che anche la
chioma, che scaturisce dalla testa, è
genialis: cfr. Apul., Met. II 27:
«maestus in lacrimis, genialem canitiem
revellens senex» («un vecchio mesto, in lacrime, che tormentava la sua
canuta chioma geniale»).
[8] Cfr. Vijnabhairava
Tantra 152
[ed. A. Sironi, Milano 2002]; Ksemaraja,
commento a Shivasutravimarshini, II 3, in Vasugupta, Gli aforismi di
Shiva, con il commento di Ksemaraja, a c. di Raffaele Torella, Sesto San
Giovanni 1999, p. 90: «Questa potenza è chiamata suprema, sottile, trascende
ogni norma di comportamento. Avvolta intorno al punto luminoso (bindu)
del cuore, all'interno giace nel sonno, o Beata, in forma di serpente
addormentato e non ha coscienza di nulla, o Uma. Questa Dea, dopo aver immesso
nel grembo i quattordici mondi insieme con la luna il sole i pianeti, cade in
uno stato di obnubilamento come di chi è offuscato dal veleno. È risvegliata
dalla suprema risonanza naturale di conoscenza, [nel momento in cui] è scossa,
o Eccellente, da quel bindu che sta nel suo grembo. Si produce infatti
uno scuotimento nel corpo della Potenza con un impetuoso moto a spirale. Dalla
penetrazione nascono per prima i punti splendenti di energia. Una volta levata
Essa è la Forza (kala) sottile, Kundalini».
[13] «Raéciv a\nqrwépou nekrou% fasin u|poshpoémenon toèn
mueloèn h\édh treépei e\v o\éfin: kaiè e\kpiéptei toè qhriéon» (Aelian., Nat. anim. I 51).
[14] Cfr. Apollod., Biblioth. I 10, 10; III 4, 1.
[15] Cfr. Mythogr. Vat. II 176 e II 37.
[17] Siamo invece piuttosto
scettici davanti a interpretazioni fondate su analogie alquanto più
superficiali, quali il fatto di mutare pelle a scadenza annuale, che dovrebbe
costituire la base per l’assunzione del serpente a simbolo della vita che si
rinnova continuamente. Condividiamo a questo riguardo le stesse perplessità di
Onians (Le origini cit., p. 340n):
«Il suo emergere rinnovato dalla vecchia pelle è una delle ragioni per cui la
forma del serpente poteva risultare adeguata per l’anima immortale, ma
lucertole, granchi e gamberi fanno lo stesso. [...] Si credeva che il cervo,
che perde le corna, rinnovasse la propria vita ingoiando un serpente e poi
dell’acqua (cfr. Physiologus pp.
171ss Sbordone), cioè ricevendo [...] una nuova anima vitale e nuovo fluido
vitale. Per questo, forse, egli inspira il serpente attraverso le narici: «cervinus gelidum sorbet sic halitus anguem» (Martial., XII 28, 5. Cfr. Aelian., Nat. anim. II 9 e Lucr., VI 764-765)».
[19] Che questi liquidi fossero
considerati come equivalenti è chiaro, ad esempio, in Emped., fragm. B 6
[Diels-Krantz]; Aristot., Gen. anim. 747a, 13ss; ps.-Aristot., Probl.
884b, 22ss; Plut., Plac.
V 22.
[20] Cfr., su tutti, Plaut., Miles 639s;
Capt. 80ss, dove si fa riferimento al
sucus inteso come sostanza vitale: «quasi quom caletur cochleae in occulto
latent, | suo sibi suco vivont, ros si non cadit: | item parasiti rebus
prolatis latent | in occultis, miseri victitant suco suo, | dum ruri rurant
homines quos ligurriant».
[21] Abbiamo osservato altrove
(cfr. Aspetti dell’elemento igneo nel
simbolismo legato alla morte) che il verbo
impiegato da Omero per indicare il funerale è tarcuéein (con la
variante tariceuéein), collegato con tutta probabilità con il verbo teérsomai (“asciugo”), che condivide la stessa
radice indoeuropea, ad esempio, col latino torreo
e con il danese tørke (“asciugo”, “essicco”). Anche la Suida
(t 122) offre, tra i significati del verbo, quello di “seccare”: «shmaiénei deè kaiè toè
xeraiénein».
Si osservi ancora che come processo di “prosciugamento” Aristotele descrive
l’intera esistenza umana (cfr. De long.
et brev. vitae 466a, 19ss; Gen. anim.
784a, 34), e che quindi la giovinezza sia l’età de “midollo fiorente”
(Aesch., Ag. 76ss). Notiamo anche che
per Orazio chi è ben nutrito è unctus e
chi non lo è è siccus (cfr. Epist. I 17, 12), e che, non a caso, la
pratica della frizione con olio fosse, per i Greci come presso i Romani,
ritenuta in grado di ridonare vitalità e di ripristinare le forze perse in
seguito a un’intenso sforzo fisico (cfr., ad esempio, Petron., 31, 4ss: «Intraverunt palestritae complures et nos
legitimo profusos oleo refecerunt»; Sen., Epist. mor. LIII 5: «corpus unction recreavi»).
[22] Nell’Inno a Ermes il dio, prima di tagliare
in pezzi due vacche per offrirle agli dèi, le gettò a terra ancora ansanti dopo
aver trapassato i loro ai\w%nev (cfr.
Hymn. ad Herm. 118ss).
[25] Cfr., ad esempio, Soph., Aiax 236.
[26] La forma della spina
dorsale è quella rappresentata schematicamente nel geroglifico egizio djed [= “essere stabile”, “sussistere”,
da cui il preminente valore funerario di “vita eterna”], raffiugurazione
stilizzata della colonna vertebrale del dio degli inferi Osiride, il “vivente”
vincitore della morte, corrispondente alla forma del grafema semitico samek, che «potrebbe riportarsi a s’mikhah = supporto» (cfr. Pillole alfabetiche: samek, leggibile
online all’indirizzo http://monteprama.blogspot.it/2014/09/pillole-alfabetiche-samek.html). Cfr. anche G. Sanna, Un santo nuragico e uno spillo sardo-egizio
per l’eternità,
[27] Cfr. Khordah Avesta, Yuvatdevdat
19, 29.
[28] Cfr. G.M. Corrias, Esoterismo e culti misterici nell’antica
Roma, Cagliari 2016, pp. 66-84.
[29] Cfr. R. Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano
1975, p. 129.
[31] Cfr. Numeri 21, 6-9.
[32] Cfr.
Pind., Olymp. VI 28-121. A questo proposito, si consideri
la risposta che Democrito diede a chi gli chiedeva come si potesse vivere in
buona salute (fragm. A 29
Diels-Krantz): «e\ntoèv
meéliti breécoi, taè deè e\ktoèv e\lai駻 (“inumidendo
l’interno con miele, l’esterno con olio d’oliva”).
[33] Cfr.
Apollod., I 9, 11. Sulla figura
di Melampo cfr. l’ampio studio di F. Marzari, Melampo. Breve biografia di un indovino guaritore, in «I Quaderni
del Ramo d’Oro» s.n. (2012), pp. 15-47.
[34] Cfr. Schol. ad Od. XI
287-290; Eusthat., Ad Od. XI 292. Gli storici delle
religioni e gli etnologi hanno abbondantemente messo in luce l’universalità
delle tradizioni che fanno del serpente il “signore delle donne” in quanto
signore della fecondità: cfr. M. Eliade, Trattato
di storia delle religioni, Torino 1976, pp. 148ss; H. Baumann-D. Westerman, Les peuples et les
civilisations de l’Afrique, Parigi 1948.
[35] Cfr. Eustath., Ad Il. 7. 44.
[43] Cfr. G.M. Corrias, Nota sul simbolismo apollineo delle corna.
[44] Cfr. G.M Corrias, Esoterismo cit., pp. 60-62.
[45] Secondo la testimonianza
di Arnobio (Adversus nationes V 21),
durante uno speciale rito «un serpente d’oro era introdotto nel seno degli
iniziati ed era fatto uscir via dalle parti inferiori».
[46] Protrettico II 15 e 16.
[47] Cfr. Aen. VIII 77.
[48] Cfr. Ov., Met. IX.
[49] Analogamente all’unzione,
all’applicazione sul corpo di liquidi oleosi, anche il semplice contatto con
l’acqua si riteneva che potesse ripristinare le vires perdute con la fatica o la sofferenza: «Hic lavet; hic corpus reparans [...] membra fovebit aqua» (Anth. Lat. 119, 7 Riese); «Hospes dulciflua dum recreatur aqua» (Anth. Lat. 120, 4 Riese); «Mihi lassitudine opus est ut lavem»
(Plaut., Truc. 328).
http://maimoniblog.blogspot.it/2016/06/monte-baranta.html#more. Il sintagma toro-serpente
è perlatro uno dei complessi simbolici più ricorrenti e meglio attestati entro
il corpus di documenti epigrafici
studiati da Sanna.
[51] Le prove addotte dai tre
ricercatori a sostegno della propria interpretazione sono realmente
convincenti, ma ribadiamo ancora qualche perplessità circa l’opportunità di
attribuire eccessiva importanza, nell’esegesi “genetica” del simbolismo
ofidico, all’elemento della muta (cfr. supra, nota 17), cui peraltro le fonti non
accennano mai. Riteniamo più probabile, meglio documentabile e decisamente più
pregnante, il fatto che – come si è fin qui spiegato – all’origine della
lettura simbolica del serpente come “vita” sia l’analogia morfologica fra
l’animale e la colonna vertebrale, il luogo che contiene il “supporto”
materiale del principio vitale trascendente.
[52] Cfr. la formulazione che
ne offre la Tabula Smaragdina: «quod est inferius est sicut quod est
superius, et quod est superius est sicut quod est inferius, ad perpetranda
miracula rei unius» (S. Gentile – C. Gilly, Marsilio Ficino e il ritorno di Ermete Trismegisto, Firenze 1999,
p. 202).
[53] Per le attestazioni e la
diffusione del simbolo cfr. M. Izzi, Dizionario
illustrato dei Mostri, Angeli, diavoli, orchi, draghi, sirene, e altre creature
dell'immaginario, Roma 1989, pp. 270-71.
[55] Mundaka Upanishad I 1, 6. Cfr anche Rigveda samhita
I 32, 7; Satapatha Brahmana I 6,
3, 9; Atharvaveda-samhita X 8, 21.
[56] Per tutte queste
concezioni, esposte e documentate con straordinaria dovizia di fonti, cfr. A.
K. Coomaraswamy, Il grande brivido,
Milano 1987, spec. pp. 377-379 e note.
Commento vacanziero (scusi, Matteo, se mi permetto qui, ma spero che lei stesso non lo troverà del tutto fuori luogo). Come, penso, tutti noi amici che ci leggiamo sul blog, sono certo più contento quando vedo fioccare articoli e commenti. Sulla frequenza degli articoli, nel passaggio da Monte Prama a Maymoni (e quindi nell’assestamento di Maymoni), ci siamo da un pezzo tranquillizzati: la frequenza non sarà quella che era in Monte Prama, ma la costanza e la qualità confortano sempre (tenuto conto, inoltre, che la pagina facebook di Monte Prama, Novas, ci accompagna “in parallelo”, se così posso dire, con una copiosità eccezionale). Sulla frequenza dei commenti appare evidente oggi una frenata, ma il termometro dei commenti sappiamo essere poco attendibile nel breve (per eccessiva sensibilità), specie in Estate (apprezzo, tra parentesi, il compito di frenatore che Francu si è assunto sulle stime circa la popolosità nel nuragico, frenate che non cancellano l’interesse per le stesse stime). Personalmente manco dai commenti da un po’ perché ho staccato con una bella crociera in barca a vela, lungo la quale il pensiero delle navigazioni dei Nuragici non mi ha lasciato, confermandomi concretamente che isolato è (e soprattutto era) solo un luogo senza approdi. Ora rientrare nei commenti è difficile tra articoli così profondi quali l’ultimo di Angelo e questo di Matteo (a Giancarlo farà piacere sapere che ho preso il suo libro), da assimilare ed elogiare, da inserire in quello spazio che a volte (evidentemente sbagliando) può apparirci al contrario vuoto o rudimentale dietro quel che tenacemente resta di segni di tori o serpenti o creature genericamente mostruose. Ma il sentimento di fondo che ancora mi accompagna da questo periodo di relativa assenza è che quanto accumulato e in qualche modo ordinato, spiegato, ricostruito per plurimi accostamenti nei nostri blog rappresenta un patrimonio tale, pure al netto di interpretazioni che pure si rileveranno sbagliate, da mantenere un senso importante per molto tempo anche se le sue “stratificazioni accrescitive” (i migliori articoli e le migliori discussioni che tutti vorremmo non si interrompessero) dovessero cessare domani; ed è per questo che sono ragionevolmente tanto più convinto che non cesseranno.
RispondiEliminaVi saluto tutti, a tutti auguri di buone vacanze.
Un saluto e buone vacanze anche a te Francesco!
EliminaMi scuso per i problemi relativi ai caratteri greci che inizialmente, in qualche caso, non sono stati visualizzati correttamente (problema risolto).
RispondiEliminaHo letto con molta attenzione l’articolo. L’importanza data alla figura del serpente in tutte le civiltà è in tutto il pianeta è straordinaria. Per gli aborigeni australiani il serpente arcobaleno era il creatore della Terra. Gli Aztechi veneravano il serpente piumato “Quetzalcoatl”.
La Sardegna non fa eccezione e, testimoniato a Monte Baranta, già a partire dall’età del rame, lo si venerava in associazione alla figura taurina. Ancor prima sempre in Sardegna, nel neolitico veniva raffigurato il toro o le sue corna nelle domus de janas, dove ritroviamo la figura della spirale (serpente?), sicuramente simbolo di ciclicità. Questo fa pensare che questi simboli facciano parte della natura umana (a prescindere dal tempo e dallo spazio), dato che l’uomo da sempre ha voluto interpretare il tempo, dandogli immagine tangibile e cercando di farne parte esso stesso.
Grazie Matteo, bello!
RispondiEliminaQualche tempo fa avevo descritto il nuraghe come un labirinto tridimensionale composto da cinque elementi principali:
1) la camera oscura, la più interna ricavata come in sottrazione. Un corpo cavo, come fosse un ventre gravido (o disponibile ad esserlo in alcuni periodi) e pertanto dal principio femminile.
2) La forma esterna che avvolge la prima e, quando esistenti, quelle sovrapposte, che conferisce l'aspetto esterno del nuraghe e la sua forma fallica e turrita e pertanto dal principio maschile.
3) tra le due 'forme' la scala elicoidale che avvolge l'asse verticale del nuraghe e che collega, consentendone il percorso, di giungere in sommità. Simbolicamente lo interpretavo come il segno del serpente, seme della vita indistruttibile.
4) l'oculo e la possibilità di liberare le pietre apicali rendendo trasparente l'asse verticale (axis mundi) che collega terra e cielo.
5) la corona radiosa, costituita dai mensoloni e normalmente ritenuta terrazzo o ballatoio aggettante a significare la luce, anzi la sua "eruzione" o esplosione composta da raggi luminosi.
Ora, ammesso che sia davvero così e la mia lettura sia verosimile, il serpente (la scala) alla luce di quanto ci dice Matteo, potrebbe rappresentare, anche nel nuraghe, il 'principio vitale' che attraversa l'intero edificio dal ventre al capo...ma le altre analogie mi fanno anche pensare allo sperma che appunto 'esplode' in cima al nuraghe nel segno della corona luminosa...da non dover qui intendere come principio meramente fisiologico.
Ma a prescindere da tutto questo volevo chiedere a Matteo se ritiene che il segno del 'labirinto' (che sembra davvero essere tra i segni più universali oltre che tra i più complessi) possa in fondo considerarsi un altro modo per denotare lo stesso principio vitale...risultando un analogo del segno del serpente! O in alternativa cosa li distanzia?
La "vita" cui il simbolo del serpente allude è certamente da intendersi su più piani al tempo stesso: quello psico-fisiologico individuale, quello cosmico e quello spirituale-metafisico. Credo dunque che questo mio contributo possa confermare la validità della tua interpretazione del nuraghe (peraltro la forma elicoidale della scala richiama quella della kundalini dispiegata a spirale lungo la colonna vertebrale). In quanto edificio sacro, e come ogni edificio sacro, il nuraghe si configura indubbiamente come sintesi e riproduzione del Cosmo, e credo che, se vorrai rileggere il mio saggio sul simbolismo cosmico della lettera resh, vi potrai trovare numerose conferme alle tue brillanti intuizioni sulla parte apicale del nuraghe. Quanto al labirinto, più che ad un simbolismo cosmico io penserei a un simbolismo "tecnico" dell'iniziazione intesa come percorso interiore denso di ostacoli e al cui culmine è l'approdo al "centro" (non è un caso se di questo simbolo antichissimo sono numerose le attestazioni nel contesto degli edifici sacri cristiani medievali, ove il labirinto si configurava come un vero e proprio sostituto del pellegrinaggio a Gerusalemme).
EliminaGrazie Matteo!
EliminaGrazie ad entrambi!
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