di Sandro Angei, Stefano Sanna, Gigi Sanna.
vedi: 1° parte
2° parte
Quanto durò la scrittura nuragica? Per
quanto secoli, dopo la sconfitta di Amsicora (215 a.C.), gli scribi nuragici
adoperarono il loro codice millenario basato sulla scrittura a rebus, sul mix
dei segni, sull’acrofonia, sulla numerologia e l’ideografia logografica? Gli
ultimi documenti sicuramente vanno riportati al III secolo d.C. se è vero,
com’è vero, che la lastra tombale scritta (1)
in mix dell’Antiquarium arborense di
Oristano (fig. 1), con i caratteri
nuragici, latini ed etruschi risale, per
testimonianza archeologica, a quel preciso periodo.
Fig.
1. La lastra tombale nuragica dell’Antiquarium
arborense di Oristano (III sec. d.C.)
La storia della religione in Sardegna ci dice che ormai non si è lontani dal periodo in cui la chiesa cristiana, lentamente ma sicuramente (2), si insedia in Sardegna facendo proseliti prima nelle zone costiere e poi nell’interno. Nel corso del IV - V secolo a.C. la religione nuragica, già aggredita da forme religiose politeistiche come quelle puniche e romane, cede di fronte all’avanzare del cristianesimo. Il cosiddetto ‘paganesimo’ (cioè le forme della religio nuragica) resistettero solo nell’interno dell’isola e nelle parti meno colonizzabili di essa, ma si direbbe in modo vigoroso, se il pontefice Gregorio Magno fu costretto a rivolgersi ad un capo ancora nuragico, ovvero il dux Ospitone, affinchè quest’ultimo ormai ‘cristianus’ si operasse a far diventare cristiani i suoi sudditi tutti pagani (3). La presenza di Ospitone dux in Sardegna non è stata mai calcolata nella giusta misura dagli storici come se questa figura di ‘capo’ barbaricino spuntasse dal nulla e non fosse che l’erede, dal punto di vista istituzionale, di quell’Amsicora battuto dai Romani morto suicida o ucciso ma che ebbe nel corso dei secoli successivi dei ‘successori’ che continuarono. come si sa, la battaglia contro Roma per tre secoli ancora sino a quando praticamente non si formò all’interno della Sardegna uno ‘stato’ a parte, di cui nulla si sa, ma che certamente proseguiva e dal punto di vista istituzionale e religioso secondo le orme del passato. Gli ‘adoratori’ di ‘lapides et ligna’ del VI -VII secolo a.C evidentemente adoravano ancora lo stesso Dio a cui appartenevano quegli idoli ovvero i suoi simboli fallico - taurini. Con ogni probabilità non sapremo nulla o quasi nulla di quei secoli ‘bui’ (molto bui anche per la nascita e e la crescita della religione cristiana nell’isola di Sardegna) ma un fatto possiamo considerare più che verosimile: che le forme della ‘religio’ nuragica non scomparvero, resistettero a lungo nelle campagne (4) entrando certamente in conflitto, e forse aperto, prima con il politeismo punico e romano e poi con quello monoteistico cristiano.
La ‘chiesetta’ di S’Eremita
Matteu, così singolare, come si è visto dal punto di vista architettonico e
astronomico, nelle precedenti ‘puntate’, offre testimonianza, anche da punto di
vista epigrafico, che la ‘religio’
rimase, per molti secoli ancora, quella del periodo ‘nuragico’ ovvero di
quel periodo nel quale la Sardegna praticò il culto millenario di un unico dio
‘androgino’, padre e madre assieme, chiamato ‘yh’, ‘yhh’, ‘yhw’ , ‘yacci’, e ‘yhwh’.
Un dio luminoso, soli - lunare con un suo rappresentante monarca in terra.
Infatti, due ‘scritte’, con l’inconfondibile modo di scrivere dei
nuragici (5), ci fanno capire
chiaramente che l’edificio rurale di Narbolia appartiene ancora alla religio
dei due millenni precedenti: una è quella della facciata (fig. 2) e l’altra
quella che si trova sulla sinistra in basso (fig. 3) per chi entra.
La scritta della facciata è di tipologia
nuragica ‘metagrafica’, composta cioè da alcuni elementi strutturali e
decorativi dell’edificio che rendono
attraverso l’ideografia, l’acrofonia e la numerologia l’espressione più nota
del nuragico, riportata numerose volte nel corso di tutta la storia della
scrittura nuragica (v. figg. 4 -5 -6 -7 - 8 -9 ), ovvero NL/R -AK - HE
Fig. 4. Tzricotu Fig. 5. Pietra di Barisardo Fig. 6. Pietra di
Santa Caterina di Pit
Fig. 7. Pietra di Terralba Fig.8. Pietra di Abbasanta (Nuraghe losa) Fig. 9. Pietra di Murru
Mannu
Negli esempi su riportati si nota una
caratteristica ben nota del nuragico, quella cioè di procedere, nello scrivere
una parola o un’intera espressione, ricorrendo alla ‘variatio’(6). Tante volte si è detto che è quasi impossibile trovare due
documenti nuragici uguali. Nel linguaggio formulare, per altro composto di un
lessico molto scarno, gli scribi trovano
modo di scrivere ‘disegnando’ con molta
fantasia; in modo tale che difficilmente
uno può accorgersi di trovarsi sempre davanti alle stesse parole o alle stesse
espressioni. Solo chi ha una discreta frequentazione con la scrittura a ‘rebus’
e conosce le tecniche con i procedimenti accettati convenzionalmente dalla
scuola può capire ad es. che la scrittura pittografico - lineare della fig. 5
corrisponde a quella della fig. 9 e che quella interamente pittografica della
fig. 8 dà gli stessi risultati fonetici dei grafemi della fig. 7. Si veda la
seguente tabella:
Stesso gusto della ‘variatio’ scrittoria di
documenti che appartengono non a secoli ma a millenni prima troviamo anche
nella realizzazione della facciata del
tempietto di S’eremita Matteu. Lo
schema è facilmente comprensibile ed è composto dai seguenti elementi , due
architettonici, cioè facenti integralmente parte della costruzione, e uno ‘decorativo’:
- Il cerchio (quello che in seguito, non cedendo di molto per simbologia, diventerà ‘rosone’ delle chiesette campestri sarde) luminoso.
- La protome taurina rovesciata
- Le tre cosiddette ‘Tanit’, una collocata al di sopra (in realtà al di sotto) della protome e due laterali ad eguale distanza da quella centrale.
La lettura della scritta monumentale non può
essere che la seguente:
Le tre ‘he’ si spiegano con il fatto che il segno a
‘Tanit’ è a sua volta il numero ‘tre’. Esso, moltiplicato per tre, dà il nove, una ulteriore voce resa per espediente
numerico, che è quella di ‘immortale’(7).
Quindi la lettura completa sarà quella di ‘Lui immortale toro della luce’.
Cinque o sei secoli prima (8) gli
scribi nuragici avevano coniato o fatto coniare uno statere assai famoso (9), quello di Amsicora (fig.10), dove
con la solita ‘variatio’ si riporta sempre la voce fondamentale della civiltà
nuragica, la stessa che ha dato modo a noi, senza che lo sospettassimo
minimamente, di usare l’aggettivo che tende ad inquadrarla e a sintetizzarla. .
Fig. 10. Statere aureo di Amsicora (III sec.
a.C.)
Il
verso della moneta riporta:
- La ‘luce’ con nove raggi
- Il toro
- Il ‘tre’ del cosiddetto ‘crescente lunare’.
Lo schema è pressochè identico e identica
ovviamente è la lettura: NUR - ‘AK - H
immortale: Sia nella moneta di Amsicora sia nel tempietto nuragico di Narbolia
c’è la testimonianza della somma espressione ‘sacra’ dei nuragici: la lode del
Dio taurino luminoso (Sole e Luna), maschio e femmina, che ha il nome di ‘YH’ o
‘YHW’ o ‘YHWH’ (10).
Questo,
secondo noi, può suggerirci due cose da
punto di vista e storico e religioso.
La prima è che la civiltà del NURAGHE durò,
per attestazione documentaria, secoli e
secoli oltre la data ipotizzata dal Lilliu (11)
ovvero la seconda metà del III secolo a.C.
La seconda sta nel fatto che,
paradossalmente, il dio millenario dei Sardi, l’unico Dio, quello yh ritenuto ‘pagano’ e oggetto di reiterati
tentativi di annichilimento da parte del Papa Gregorio Magno, veniva pian piano
sostituito da un altro Dio di nome (e non solo di nome) perfettamente uguale.
La scritta monumentale di Narbolia, con
ogni probabilità, potrebbe segnare il momento, anche se non preciso, in cui la
cultura e l’uso della singolare
scrittura del monoteismo nuragico tende a spegnersi per cedere, ma
lentissimamente, all’incalzare di una ‘nuova’ cultura monoteista, la più aggressiva
e assolutistica, nella quale,
soprattutto, non c’era più posto istituzionale per figli monarchi ‘terreni’. Forse
non lo sapremo mai, ma non è difficile
ipotizzare che quel potente dux sardo barbaricino, di cui niente purtroppo sappiamo, quella guida che si oppone con le armi al dux
bizantino Zabarda, tanto da costringerlo, in sostanza, a venire a patti, sia
ancora, nonostante la denominazione papale, di
‘cristianus’, un capo carismatico erede, in qualche modo, dell’antica istituzione regale nuragica dei
‘signori giudici’(12). Ospitone
omaggiato e rispettato da Gregorio Magno dà tutta l’idea di non essere solo un
capo materiale di un popolo (quello barbaricino) ma anche e soprattutto quello
spirituale, se è vero che il pontefice si affida alla ‘fede’ di un singolo per
cercare di cristianizzare, magari con l’aiuto di predicatori, i tanti sudditi che
non rinunciavano, neanche dietro ai ricatti di natura economica (13), alla pratica della antichissima e
ben consolidata ‘religio’. Crediamo che non ci voglia molto sforzo per capire
che lo sprezzante’ lapides et ligna’ del capo della cristianità celi in realtà
il contenuto altamente simbolico di essi, ovvero il resistentissimo culto
fallico taurino soli - lunare della religione nuragica. Il singolarissimo
tempietto delle campagne di Narbolia forse non è poi così lontano
cronologicamente rispetto alle famose lettere di Gregorio Magno (14); e così lontana non è la espressione NURAGHE
(la religione del dio taurino luminoso). Lo stesso orientamento dell’edificio,
di cui si è parlato ‘ad abundantiam’ nella ‘seconda parte’ del presente saggio (15), orientamento così organico al modo
dei nuragici di coniugare architettura, astronomia ed epigrafia, è una prova
assai consistente del fatto che la eterna ‘Nur’ (luce) taurina del dio la si
celebrava ‘scrivendola’ ancora come nei lontani o lontanissimi tempi passati. La
protome capovolta del toro della facciata scritta dell’edificio si spiega per
coerenza solo ‘nuragicamente’, cioè con l’idea dettata dal ciclo cosmico della
luce che invecchia in autunno per poi riprendere ciclicamente vigore tre mesi
dopo con il solstizio della nascita - rinascita. A vicinissima distanza da Narbolia, a Maymoni, nella cosiddetta Sala
da Ballo di San Giovanni, a Murru
Mannu, a Sa rocca tunda, i nuragici del Sinis hanno lasciato le superbe
tracce epigrafico - astronomiche delle
loro credenze nell’unica divinità luminosa taurina, esaltandone la forza con
l’indicazione degli equinozi e dei solstizi (16).
Comprendiamo allora sempre di più che i ‘nuragici’, sino alla fine della loro splendida
civiltà, anche se battuti e vinti, anche se assai ridotti di numero e rifugiati
nei monti, furono estremamente coerenti nel costruire e nello scrivere
contemporaneamente il monumento ‘NURAGHE’. Certo, di nuraghi non se ne
costruiscono più e da diverso tempo, ma capi, sacerdoti e popolazione erano di
sicuro ancora ben consapevoli di svolgere riti, in luoghi aperti o in luoghi
chiusi, che proseguivano quelli dei loro padri e dei padri dei padri in ben più
ampi spazi e in edifici ben diversi quanto a magnificenza e grandiosità. Tanto che
il nuraghe antichissimo nella sua simbologia scritta monumentale continuava ad
essere ‘nuraghe’: luce -luce, toro –toro, yh –yh.
Note ed
indicazioni bibliografiche
1, Sanna G., 2016, Antiquarium arborense di Oristano. La tarda scritta nuragica tharrense della luce salvifica per il figlio (non nominato) di Yhwh. Il 'segno' complesso della λοξότης (obliquità). in Maymoni blog (26 gennaio).
2.
V. Turtas R., 1999, Storia della Chiesa
in Sardegna. dalle origini al 2000. Città Nuova, Roma, pp. cap. I, pp. 22 -
98.
3.
Turtas R., 1999, Storia della Chiesa in
Sardegna, ecc. cit. pp.123 -124.
4.
Turtas R., 1999, Storia della Chiesa in
Sardegna, ecc. cit. : ‘Al centro
dell’isola, poi, vi era un’intera popolazione (una ‘gens’), quella dei
Barbaricini […] che ancora, alla fine del VI secolo, praticavano tutti
l’idolatria. Non molto diverse dovevano essere le condizioni delle popolazioni
insediate nelle attuali regioni dell’Ogliastra, Quirra, Gerrei e Sarrabus e
buon aperte della Gallura, sprovviste anch’esse, per quanto sappiamo, di
strutture ecclesiastiche: in una parola, se ne trae l’impressione che il Cristianesimo
in Sardegna fosse prevalentemente una religione delle città e che avesse
toccato le campagne in modo ancora piuttosto rado e diseguale (pp. 110
-11).
5.
Sanna G., 2016, I geroglifici dei
Giganti. Introduzione allo studio della scrittura nuragica, PTM ed. In
particolare i capp. 3 -4 -5 -6.
6.
Sanna G., 2016, I geroglifici dei
Giganti. Introduzione, ecc.cit. cap. 6, pp.135 -143.
7.
Sanna G., 2016, I geroglifici dei
Giganti. Introduzione, ecc.cit., cap. 5, p. 121.
8.
La nostra datazione, in mancanza di dati archeologici, è del tutto ipotetica.
Sulla base dei dati epigrafici e paleografici della la scritta in basso (di cui
si parlerà) con i caratteri in mix latini, greci ed etruschi) la costruzione
potrebbe risalire al III –IV secolo d.C.
9.
Forteleoni l., 1961, Le emissioni monetali della Sardegna,
Gallizzi Sassari; Piras E., 1996, Le
monete della Sardegna dal IV secolo a.C. al 1842, Ed. Fondazione Banco di
sardegna, Sassari.
10.
Sanna G., 2016, I geroglifici dei Giganti. Introduzione, ecc.cit., cap. 9, pp. 183
– 201.
11.
Lilliu G., 1980, La civiltà dei sardi dal
Neolitico all’età dei Nuraghi, ERI ed. Torino, p. 14.
12.
Sanna G., 2004, Sardōa grammata. ’g ’ab
sa‘an yhwh. Il dio unico del popolo nuragico, S’Alvure ed. Oristano, cap. 10,
in part. pp. 405 – 408.
13.
Si trattava in pratica di esenzioni fiscali da parte del potere bizantino se i
‘rustici’ dell’isola avessero rinnegato il culto degli idoli e abbracciato la
religione cristiana.
15,
Angei S. - Sanna S. - Sanna G., 2017, Esame
autoptico di una chiesa. Dati di archeoastronomia relativi all’edificio (II
parte), in maymoni blog ( 7 marzo).
16. V. Sanna S., 2013, Il video della Sala da ballo di San Giovanni del Sinis, in Monte Prama blog spot. com (16 ottobre); Angei S., 2016, Sincretismo religioso tra nuragico e romano. La porta luminosa e l’architettura della luce (1 -7), in maymoni blog (14 marzo); Sanna G., 2016, Scrittura nuragica. Tharros (Murru Mannu): a tanta architettura sacra tanta scrittura sacra. La porta santa ( sha'ar sa'an ) e i segni del sublime nascosto, in Maimoni blog (19 marzo).
La lettura del monumento e delle apparenze non trascurabili lo antichizza di molto, anche se nella frase " Gli ‘adoratori’ di ‘lapides et ligna’ del VI -VII secolo a.C evidentemente adoravano ancora lo stesso Dio a cui appartenevano quegli idoli ovvero i suoi simboli fallico - taurini" vi è scappato un millennio, facendo precedere e non seguire il Cristianesimo alla nascita di Cristo.
RispondiEliminaOvvia e perdonabile la svista, ma se capitasse di recarmici, aguzzerei la vista in cerca di qualcosa che potrebbe essere scientificamente datato. A esempio, un coccio di terracotta, infilato tra due sassi nel muro o come riempitivo nell'intonaco stesso che, in foto, appare molto spesso. Tunc erit bibendum!
Certo, sarebbe bello! Chissà! Ma io credo che un bravo archeologo sappia datare quella chiesa, a prescindere.
RispondiEliminaNon lo so quanta bravura serva.
RispondiEliminaMa se ne parlate voi, gli archeologi, bravi o meno, passano lontano o cambiano strada.
Non sia mai che siano costretti a vedere pure le scritte!
Francu, il coccio di terracotta è lì in bella mostra. La tegola sopra la nicchia centrale darebbe la data precisa di realizzazione della costruzione per via delle considerazioni che abbiamo esposto alla fine della seconda parte dell’articolo.
RispondiEliminaTu l'hai vista, Sandro.
RispondiEliminaPotrebbe essere quella sistemata ab antiquum, o qualcosa sostituita, quando ce ne fosse stato bisogno?
Attenzione che le tegole di Silì le riconoscono anche i manovali, oltre che gli archeologi.
Esumaria! Speriamo ora che, dopo questi nostri tre post un po' faticosi (diciamo così eufemisticamente), dove c'è da dire un 'girino' di cose, non ci capiti la tegola di parlare di ...tegole.
RispondiEliminaE' Aba, con la sua corrispondenza su facebook, che mi ha convinto indirettamente che forse è meglio, d'ora in poi, usare l'egiziano pittografico 'girino' al posto di un nostro 'milioncino'.
RispondiEliminaPretremmo metterci d'accordo su "Conchimallu"?
RispondiEliminaVorrei conoscere la traduzione esatta (letterale) di "Conchimallu". Grazie.
RispondiEliminaEra "potremmo", ma certe volte sono svagato e non riesco a stare appresso ai pensieri.
RispondiEliminaConchimallu è il girino, Conca de mallu, testa di martello (quello grosso), conch' 'e mallu, conchimallu.
In pratica, è una regola, la stessa che ci fa arrivare a Montiprama da Monti de prama. Anche se oggi preferiamo scriverlo come Monti Prama, Monti Arci, Monti Ferru. O anche Montiferru.
Francu vorrei rispondere subito, qui, alla tua provocazione (se così possiamo chiamarla) sulle tegole di Silì, ma preferisco farlo con un articolo ad hoc, dove ti (vi) posso mostrare delle fotografie che oggi ho scattato dentro e fuori l’eremo. Ma non è ancora il momento… l’articolo che riguarda la piccola chiesa non è ancora interamente pubblicato… solo allora potremo riprendere il discorso.
RispondiEliminaProvocazione è la risorsa dell'educatore atta a far venir fuori nell'educando ciò che rischia di restare nascosto o non detto.
RispondiEliminaIo ti provoco, anche se tu sei molto educato.
E aspetto, naturalmente.
Grazie Francu per la spiegazione. E' proprio come pensavo, ma ero incerto per quella "i" di "conchi" che poteva essere una sorta di genitivo di "conca" come in "conchitostu", "conchimalu" tutti aggettivi (tostu de conca, malu de conca). Secondo il mio modo di vedere avrebbe dovuto essere "conchemallu", derivante da "conca de mallu", che nel nuorese è "conca 'e mazu". Diverso il caso di di Monti, che la "i" ce l'ha in origine, e la tiene mentre lenisce o fa sparire la preposizione "de" che diventa "'e" e quindi scompare proprio. Allora, come dici tu, Monti de Prama, Monti de Arci, Monti de Ferru diventano Monti'Prama, Monti'Arci, Monti'Ferru o Montiferru. Su mazu (campidanese mallu) è la mazza in legno (maglio) che si usava per spaccare i tronchi battendo le zeppe (sas cotzas).
RispondiEliminaChiedo scusa se ho divagato fuori tema, l'attenzione deve essere tutta per la straordinaria "chiesetta" di Narbolia.
RispondiEliminaDici bene, dovrebbe essere la e Conchemallu, ma il campidanese preferisce più spesso la i, ma non sempre. Per esempio, conchemaccu, nessuno dice conchimaccu, anche se il percorso è sempre quello: conca de maccu, conch' 'e maccu, conchemaccu.
RispondiEliminaSu mallu è anche quel ramo grosso quando un braccio e lungo 30-50 cm, con un capo rimpicciolito per essere preso con le mani il cui compito era quello di "pistai", vale a dire pestare, anzi battere sulle spighe (quelle raccolte dalle spigadrixis), sulle lenticchie, sui piselli o sui ceci. Un lavoro che si faceva in casa, quando le quantità erano piccole, così che non serviva s'argiola, dove si sarebbe disperso metà del raccolto a causa del terreno che presentava spaccature o altre improprietà.
Che bello che era pistai!
M'est regordada sa "Canzoni de Coddozzu" de Maracaslagonis, una canzoni a curba intitulada SA SCOBERTA DE S'AMERICA, chi cumbidat unu cumpaesanu narendu "Cavalier Corona pista po pistai!".
Una dì o s'atera bisongiat chi dda ponga po dda biri totus, ca est unu capolavoru de ironia, sarcasmu, irriverenzia e nonsensu.
E vabbè vabbè, calicuna cosa apo pistau... e quantunque conchimallu per il girino a me nun me piace; a meno che i girini non mordano...
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