La rubrica di Maymoni

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giovedì 8 marzo 2018

Bronzi sardi della tomba di Cavalupo. Il cesto (טנאך) della stabile conservazione per l’eternità. Serri (Sardegna) chiama Vulci. Ma anche Tadasuni (Sardegna), in qualche modo, la chiama.




di Gigi Sanna


    
 Fig. 1. Cesto miniaturistico della tomba di Cavalupo                                  Fig. 2 . Cesto miniaturistico di Serri

    Uno degli aspetti più singolari della produzione bronzea sarda è la notevole consonanza degli oggetti  d’uso domestico e non, con quelli siro - palestinesi citati nel Vecchio Testamento (1). Questi,
resi estremamente minuscoli (2) nelle offerte di petizione alla divinità, si deponevano nelle tombe (o in altri luoghi sacri) con funzioni cultuali funerarie per uno scopo evidente: il simbolismo.
    E’ il caso della ‘tene’ ebraica, il cesto  in cui venivano deposte le primizie del raccolto da presentare a Dio, recipiente che veniva collocato dinanzi all’altare di Yhwh (De 26:2, 4) Esso veniva adoperato come contenitore dei prodotti d’eccellenza del suolo (grano, cereali, mandorle, ecc.). Con ogni probabilità era un recipiente di una certa larghezza e profondità e quindi capiente.  Mosè usò il termine ebraico di  tèneʼ (il cesto), allorché avvertì il popolo di  Israele sulle conseguenze dell’ubbidire e del disubbidire al Signore.
   Egli disse:  ארור טנאך  ומשארתך׃Maledetto  sarà il tuo cesto e la tua madia”, nel caso Israele avesse disubbidito De 28:5, 17).
 Nel passo biblico dunque c’è l’allusione ai contenitori dei prodotti della terra che avrebbero potuto essere gratificati o no da YHWH a seconda del comportamento di Israele di fronte  alla legge. Cesto e madia però  sono, in fondo, la stessa cosa e stanno ad indicare la conservazione in sicurezza di prodotti necessari al sostentamento e quindi alla vita. 
 Ora, tra gli altri assai numerosi oggetti del corredo funebre (3) di Cavalupo spiccano, oltre al bronzetto di cui si è detto (4), anche il cesto (fig.1) e lo sgabello, entrambi di dimensioni ridottissime e quindi oggetti da ritenere collocati o per scopo ornamentale o per allusioni simboliche legate al culto funerario. Del primo parleremo oggi, del secondo in un prossimo articolo.
    G. Lilliu alle pp. 565 - 567 del suo corpus si bronzetti sardi (5) tratta degli oggetti miniaturistici in bronzo che costituiscono imitazioni di contenitori  reale viminei di cui simulano fattezze, dimensioni e decorazione  (di fibre vegetali: asfodelo o altro ancora). Ovviamente si rende subito conto che il cesto (da lui chiamato impropriamente  ‘pisside’)  della tomba di Cavalupo è del tutto simile e quasi identico a quello trovato nel Santuario di Santa Vittoria di Serri. Passa quindi a descriverlo accuratamente ma senza aggiungere nulla circa la sua funzione e il motivo per il quale si trovava in una tomba  in compagnia degli altri due bronzi sardi.  Stesso atteggiamento ermeneutico mantiene anche per un altro cesto vimineo miniaturistico (v. fig. 3) che si differenzia dai precedenti per avere una forma conica con punta acuta verso il basso.  Cestello che però, purtroppo, non mostra la chiusura perché il coperchio non si è trovato o è andato successivamente smarrito.  
     Fig. 3. Cesto miniaturistico di Serri (da Lilliu)

     Il Lilliu,  circa i bronzetti nuragici,  si mantiene sull’onda del solito giudizio di oggetti artigianali (6) di un certo pregio offerti da questo o da quello, da popolani o da gente altolocata, e deposti nelle tavole templari delle offerte per ingraziarsi la benevolenza della (per altro mai precisata) divinità. Gli sfugge così, ad altro non pensando, che una ‘madia’ miniaturistica, commentata poco più avanti (n. 365 pp. 558 -569),  rinvenuta, forse, in Tadasuni (7), potesse essere per ‘allusione’ abbinata al cesto anch’esso di formato estremamente ridotto.

   Fig. 4. Madia in miniatura di Tadasuni (?)

   Infatti, anche qui siamo di fronte ad un oggetto di bronzo che parte da una realtà, stavolta lignea, alludente però sempre alla buona ed efficace conservazione dei prodotti, praticamente gli stessi che venivano tutelati e preservati nella cesta. La presenza sia della cesta sia della madia bibliche, due oggetti atti contenere dei prodotti indispensabili alla vita come la farina, il pane, i cereali ecc., non può non far sospettare che essi possano, in ambito funerario, essere del tutto simbolici, che niente abbiano a che fare con lo sfarzo e il lusso, facendo ‘semplicemente’ allusione alla custodia e alla conservazione.   C’è qualche dio/dea nascosto nell’oggetto che è interessato a quella conservazione e a quella custodia.  
  Ciò sembra tanto più evidente perché il bronzetto ‘scritto’ del Gran Sacerdote Gigante ci ha fatto capire che c’è criptata ma comunque ‘nominata’ in esso una divinità (LUI/LEI : yhwh) invocata per scopo di aiuto, di vigilanza, di difesa, di forza e di protezione. Per logica sembrerebbe chiaro che con questo secondo oggetto si sia voluto dar seguito e potenziare quell’aiuto divino attraverso un’ altra composizione ideogrammatica (quel ‘particolare’ cesto) alludente alla ‘conservazione’, all’ ’accoglimento’, ovvero ad un qualche ‘grembo’ divino,  che si aggiunge agli altri ideogrammi contenuti nel bronzetto più appariscente per significato. L’inumato (o meglio, le due inumate) non solo godranno del sostegno dell’androgino celeste padre e madre per raggiungere l’aldilà ma anche della conservazione o tutela da parte loro,  in quanto ritenute beni preziosi. Sostanze da custodire gelosamente (8). Sembra di capire dunque, come abbiamo detto per un altro caso trattato recentemente (9), che la lettura dell’oggettistica sarda presente nella tomba etrusca di Cavalupo, non vada fatta partitamente, per spezzoni,  ma unitariamente, osservando la sintassi che collega per organicità i tre prezzi bronzei. 
    In altre parole chi ha deposto  e accostato  i tre oggetti, lo ha fatto consapevole di disporre organicamente senso, quasi 'spillando'  tre ‘pagine’ da leggersi in una lettura continua. Il senso ideogrammatico della seconda ‘pagina’ ovvero il ‘cesto’ è diverso dagli altri ma si integra perfettamente con essi.

   Naturalmente anche il secondo oggetto andrà letto e lo sarà nello stesso modo del precedente, sfruttando cioè le solite convenzioni del metagrafico. Innanzitutto si consideri  la vistosa decorazione dell’oggetto che fornisce subito una delle acrofonie fondamentali (10) del nuragico che è quella dell’ hdrh;  quindi si osservi il particolare oggetto con la sua altrettanto particolare chiusura (11) che allude alla ‘certezza’, alla  ‘sicurezza’ del cesto; infine si calcoli  l’idea che lo stesso cesto dà di ‘conservazione’, di ‘preservazione’ accurata  di prodotti di grande importanza e valore.  Il risultato sarà:

‘ certezza (stabilità) della conservazione  di lui/lei’.

    Il dio yhwh è inteso quindi nella sequenza come un contenitore di forma speciale, un grande ‘grembo’ (di ciò si tratterà nel prossimo articolo sullo sgabello)  che amorevolmente accoglie e gelosamente custodisce il prodotto, quello che è riuscito a salvare attraverso il suo aiuto  intenso, energico, straordinario. C’è da credere, a questo punto,  che anche la madia in miniatura (fig. 4)  riportata dal Lilliu alla p. 569 (di cui purtroppo ci resta solo la cassa), fosse un contenitore speciale, a chiusura speciale, deposto  e sacralizzato come ‘anathema’ (12), in una tomba nuragica e che altro scopo non avesse se non quello magico - scrittorio dei cesti rinvenuti sia a Santa Vittoria di Serri sia a Cavalupo di Grosseto.
        

Note e indicazioni bibliografiche 

1 Tra le somiglianze più spettacolari si è visto il copricapo del Gran Sacerdote (il bronzetto denominato dal Lilliu ‘musico e ballerino’) con il diadema ‘scritto’ della santità http://www.sardolog.com/perso/sanna/diadema.htm

2. Ovviamente la riproduzione in scala infinitamente minore, oltre ad alludere al simbolismo dell’oggetto, consentiva la collocazione di esso in piccoli spazi dedicati al culto e al rito.

3. Arancio M.L. , Moretti Sgubini A.M. , Pellegrini E., 2008 “Corredi funerari femminili di rango a Vulci nella prima età del Ferro: il caso della tomba dei Bronzetti sardi”, in N. Negroni Catacchio (ed.), L’alba dell’Etruria  Fenomeni di continuità e trasformazione nei secoli XII-VIII a.C., Atti del Nono Incontro di Studi Valentano (Vt) - Pitigliano (Gr), 12-14 Settembre, 2010 by Centro Studi di Preistoria e Archeologia.


5. LIlliu G., Sculture della Sardegna antica (saggio intr. di A. Moravetti), Ilisso, 2008, n. 111.

6. Lilliu G., 1967, La civiltà dei sardi dal neolitico all’età dei nuraghi (pref. di A. Segni) ERI ed. Torino, pp. 330 - 335. 

7. Lilliu G., 2008, Sculture della Sardegna antica, ecc. cit.   n. 366, p. 569.

8. ‘Il coperchio rotondo, con un liscio colletto basale per adattarlo alla bocca della cista, è pure provvisto, sull’orlo, di due anse simili a quelle del recipiente; le quattro anse venivano legate con delle cordicelle, in modo da chiudere gelosamente il vasetto’ (Lilliu, 2008, cit, p. 566). La chiusura però non ci pare quella ipotizzata dallo studioso. Il cesto  è singolare proprio per la chiusura che avveniva per scorrimento del coperchio, espediente questo che consentiva che il contenitore restasse sempre chiuso una volta avvenuto il prelievo. D’altronde c’è da considerare che se le quattro anse andavano legate non è comprensibile, perché del tutto  irrazionale, che quelle della cesta si trovassero a tale notevole distanza rispetto a quelle del coperchio. La chiusura era assicurata, e anche meglio, se le anse fossero state ravvicinate il più possibile. Lo stesso cesto con le pareti inclinate e rastremate verso la bocca consiglia il ritenere che il coperchio fosse stato congegnato al fine di scorrere tra cordicelle oblique che tenevano l’oggetto appeso e, soprattutto, sospeso affinché nessun animale potesse aprirlo o forarlo asportandone il contenuto. Abbiamo effettuato una breve ricerca per cercare di sapere se ancora oggi in Sardegna esistono ceste in asfodelo con le quattro anse e il coperchio a scorrimento. Ricerca che  ha dato, per ora,  esito negativo. Segno forse questo che la tipologia del manufatto non era d’uso comune. Pertanto pensiamo che un cesto siffatto fosse stato miniaturizzato sia per il simbolismo del ‘custodire’ ma anche per quello  afferente alla sua ‘ferma’, ‘continua’ chiusura protettiva.  


10. Ricavandosi il ‘pro - nome’ LUI/ LEI da acrofonie riguardanti la consonante ‘h’ ה è evidente che gli scribi nuragici si sono serviti di ideogrammi che riguardassero aspetti verbali inizianti per detta consonante. I più ‘gettonati’ sono ‘hll’הלל (salutare con devozione), hphk לפך (girare, cambiare, direzione, mutare), hdr ךדר (ornare, essere splendido).

11. V. nota 8.

12. Il termine greco ‘anathema’ (ἀνάθεμα: da ἀνατίθημι, deporre, collocare ) è quello che si dovrebbe usare tecnicamente per tutte le tipologie dei ‘bronzetti’ sardi. Infatti, tutti sono oggetti ‘deposti’ (e fissati) nelle tavole (o negli spazi appositi) atte alle offerte. Gli stessi oggetti etruschi rinvenuti nelle tombe sono ugualmente tutti, grandi e piccoli che siano,  ἀναθέματα,  sia che si tratti di un sarcofago, di un’ urna, di uno spillone, di un sedile, di un piattello, ecc. Solo che detti ἀναθέματα sono da considerarsi oggetti religiosi magici, sempre scritti a rebus. Un ἀνάθεμα non scritto non ha senso alcuno negli spazi appositi delle deposizioni, perché privo del requisito più importante che lo rende vivo: il suono, la parola. Ho già detto (e insisto ancora nel dire) che gli stessi oggetti rinvenuti in Glozel nella fattoria ‘Campo dei Morti’ (Sanna G., 2007,  Da Tzricotu (Sardegna) a Delfi (Grecia) percorrendo Glozel. I segni del Lossia cacciatore. Le lettere ambigue di Apollo e l’alfabeto greco di Pito, S’Alvure, Oristano, 2007) sono degli ἀναθέματα, degli oggetti scritti (a rebus e non), che si trovavano nel tempio del Lossia (il dio non ancora Apollo) cacciatore. L’ ἀνάθεμα più famoso di Delfi  è quello dell’omphalos avvolto dalla rete (ἔριον); l’idolo che tutti omaggiavano e toccavano, posto nell’ingresso del tempio.  Un bel mistero quello dei due oggetti abbinati (il fallo e la rete), che si risolve solo acrofonicamente in quanto essi oggetti danno in greco la voce (il grido) di ‘EO/HO!) ovvero quello dell’arrivo e del soccorso del Dio ‘salvatore’ (Sanna G., 2007, Da Tzricotu (Sardegna) a Delfi (Grecia) percorrendo Glozel. I segni del Lossia cacciatore, ecc. cit., pp. 197 - 199; v. anche Glossario, p. 440).     


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