La rubrica di Maymoni

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sabato 28 aprile 2018

DOVE FORMA ED EVENTO SI INCROCIANO: IL GIURAMENTO NEI BRONZI FIGURATI SARDO-NURAGICI*


di Angelo Ledda
*Articolo di prossima pubblicazione in Monti Prama. Rivista semestrale di cultura di Quaderni Oristanesi ( n.70), PTM Mogoro, 2018
Fig. 1: Scena dal Tempio a Megaron Domu de Orgìa. di Esterzili (Nu): "Scena composta da un cacciatore offerente con cervo e un cane che sbrana la preda; muflone; toro con colombe sulle corna; due sacerdotesse con torcia; due offerenti con olla a colletto; un offerente con muflone sule spalle;un arciere saettante con vestito borchiato; colombe con foro passante" (didascalia del Museo Archeologico di Nuoro, foto di Valerio Capello).
1. Atti religiosi e gestualità costitutiva nei bronzi figurati sardo-nuragici

Agli inizi del Novecento Raffaele Pettazzoni descriveva i bronzi figurati sardo-nuragici mettendo l'accento sull'atto religioso rappresentato: “Non si tratta, qui, di divinità; ma di uomini[...] Quasi tutti hanno una impronta solenne, conferita dall'atto religioso che essi compiono e che l'arte ritrae: o
tendono innanzi l'ampia mano aperta e levata in un gesto pieno di ieratica gravità; oppure presentano un'offerta; oppure, e ciò è particolarmente proprio delle figure di guerrieri, stanno rigidi e fermi in una posa militare e da parata" [1] (Pettazzoni, 1912).
Anche dal nostro punto di vista, in nessuna di queste sculture è raffigurata una divinità e ciò nonostante sono in evidente relazione con essa, tanto da riuscire ad avvertirne la presenza grazie ad alcuni elementi: gli occhi 'allucinati' (a suggerirne il tratto luminoso – Fig. 3, 4) e la mano aperta levata, non di rado ingigantita con valore di sottolineatura, in un gesto interpretato dagli storici come un 'saluto'. A chi è altrimenti rivolto questo gesto? (Fig. 2, 6)
I gesti e la postura lasciano intendere che queste figure si trovino dinnanzi ad una divinità (o una sua epifania o una sua manifestazione) della quale però non ci è dato conoscere la fisicità perché l'artista non l'ha voluta/potuta rappresentare [2], forse a causa di un divieto religioso, verosimilmente per una concezione del divino che non contemplava alcuna corporizzazione (Ledda, 2016).
Se non ci è possibile individuare la raffigurazione della divinità, risulta altrettanto difficile pensarle come semplici figure umane, immortalate nella loro sfera quotidiana. Queste figure sembrano piuttosto fluttuare tra due mondi, imprigionate in una condizione liminare, facendoci sospettare la messa in scena di quelli che Van Gennep ha definito 'riti di passaggio'  [3].

Il dato si ricava dallo stato di alterazione fisica di alcune figure – trasfigurazione tale da rendere indistinguibile la forma umana da quella animale e che contribuisce a darle un aspetto mostruoso e/o grottesco (fig. 3) – dall'iperantropia dei cosiddetti 'demoni' con occhi e braccia raddoppiate o dal pesante mascheramento/vestizione cerimoniale che comprende elementi appartenenti alla sfera animale (su tutti gli elmi cornuti) (Fig. 5, 10).
È certo che i gesti rappresentati non siano quotidiani o comportamentali, ma gesti costitutivi che una volta espressi hanno una loro intrinseca conseguenza, una loro efficacia [4]. Quello del 'saluto' è evidentemente un tipo di gesto intenzionale, efficace, formale, stilizzato, assoluto e fatale con valore costitutivo di realtà irreparabile e del quale non è indispensabile la visibilità: “anzi di norma è assoluto, ovvero sciolto anche dalla necessità della manifestazione visiva”, come tipico del gesto magico-rituale, dove è fondamentale che i gesti della procedura vengano eseguiti nel rispetto di un ordine formale prefissato e in assoluta segretezza (Bertelli, Centanni, 1995).
Risulta attestato in diverse testimonianze figurative, alcune risalenti all'epoca neo-sumerica come simbolo della mano benedicente del dio (è il caso di un sigillo di Hammurabi) ed altre, ancora del Vicino Oriente e del mondo greco e punico, nelle quali, viceversa, si riscontra l'atteggiamento d'adorazione del fedele nei confronti della divinità. Il gesto sembra quindi oscillare fra i due poli del divino e dell'umano, alludendo ora alla mano benedicente del dio, ora al gesto di preghiera del fedele [5] (Ghedini, 1984).
Benché riteniamo che il caso sardo si differenzi dai casi orientali per il fatto che non vi siano testimonianze della doppia valenza del gesto (è compiuto esclusivamente da figure umane), con questi sembra comunque condividere il legame a un culto solare.

2. La polarità destra/sinistra
Fig. 2: Bronzi sardo-nuragici di sacerdoti/sacerdotesse


Dal punto di vista iconografico (fig. 2), nella maggior parte dei bronzi conosciuti, la norma è la seguente [6]:
  • gesto della mano destra levata con il palmo rivolto verso il destinatario del “saluto”;
  • offerta/oggetto da consacrare presentato con la mano sinistra o nel lato sinistro del corpo;
  • posizione eretta e frontale con piedi paralleli tra loro e allineati;
Se da un lato il gesto del 'saluto' sembra confermare la consueta preminenza della destra per gli scopi cerimoniali, dall'altro può sorprendere che sia la mano (o parte) sinistra a recare l'offerta, solitamente ritenuta la mano proibita o profana: “A destra è il posto d'onore, è la mano destra che si usa nel saluto, nell'alleanza e nel giuramento[...] Nelle suppliche si implorava 'in nome della mano destra'[...] Di conseguenza ricevere con la sinistra qualcosa che viene offerto con la destra corrisponde ad un oltraggio o ad una prova di scarsa fiducia. Usare, quindi la sinistra al posto della destra rappresenta un tremendo malaugurio” [7].
Si aggiunga ancora che in alcune culture, in occasione di offerte sacre, le parti sinistre delle vittime immolate venivano scartate. In realtà Curletto ha descritto diversi casi nei quali l'inversione della norma risulta necessaria per ristabilire un ordine perduto [8] e ha messo in evidenza svariati contesti nei quali la mano sinistra non manca di una propria connotazione religiosa, per esempio quando rivolta agli dèi sotterranei oppure se impiegata per scopi magici (Curletto, 1990).
Quest'ultima possibilità potrebbe essere sostenibile solo se si potesse dimostrare che nel mondo sardo-nuragico vi fosse una netta distinzione tra la sfera religiosa e quella magica, mentre è da ritenere più plausibile che l'atto coinvolgesse entrambe le mani per rispondere all'esigenza di tenere insieme i due poli del maschile e del femminile, del solare e del lunare, del diurno e del notturno e così via, tipico di quelle culture che si sono avvalse dello schema classificatorio destra/sinistra per le loro regole sociali e religiose [9].
 

Fig. 3 (a sinistra): Il bronzetto di Santa Lulla di Orune (Museo Archeologico di Nuoro), da noi interpretato come un neofita nella sua fase liminale. Foto di Valerio Capello.
Fig. 4 (a destra): Occhi 'allucinati' e mano destra in segno di saluto in un bronzo conservato nel Museo Archeologico di Nuoro. Foto di Valerio Capello.

3. La funzione dei bronzi sardi

Fig. 5: Il cosiddetto 'demone' dai quattro occhi, 

quattro  braccia e doppio scudo con corna 

pomellate custodito al Museo Archeologico 

Nazionale di Cagliari
La dottrina è orientata sul carattere 'votivo' dei bronzetti sardi, quali offerte alla divinità che i pellegrini e i visitatori dei templi lasciavano come ex-voto di propiziazione o di ringraziamento.
Recentemente Gigi Sanna, sulla base dei suoi studi sulla scrittura nuragica metagrafica, li ha interpretati come “'attestati di petizione (si chiede per ottenere) dove è riposta, del tutto nascosta, la formula magica apotropaica[...] Nella formula è presente, come in tutti i manufatti del culto di questo tipo, una esortazione scritta al 'sostegno', all'aiuto sicuro, alla garanzia di salvezza e dello scansare il negativo che si raggiungono attraverso l'energia, pressoché totale, della divinità” (Sanna, 2018) [10] .
Proveremo ora a dare il nostro contributo nel definire quale relazione insista tra le figure rappresentate e la divinità, attraverso l'analisi di un 'istituto' diffuso universalmente ma dalle molteplici forme, che la lingua italiana conosce con il termine di giuramento. Ci scuseranno i lettori se ci dilungheremo, ma la difficoltà è massima dal momento che si tratta di una tematica che ha sempre suscitato l'interesse di giuristi, storici, antropologi, etnologi, filosofi e teologi e “come spesso avviene quando un fenomeno o un istituto si colloca all'incrocio di territori e discipline diverse, nessuna di queste può rivendicarlo integralmente in proprio” (Agamben, 2009) [11]. É un tema complesso anche perché presentandosi in modo trasversale nella storia occidentale, non rappresenta una realtà immobile, come spesso si tende a credere, ma una realtà dinamica, come si evince dalla mancanza di una etimologia comune (in greco è horkos; in latino è iusurandum, o iuramentum, o ancora sacramentum; in tedesco è eid, con il verbo schworen e in inglese è oath, con il verbo swear).

4. Il giuramento come atto performativo
Nonostante le molteplici forme di giuramento, possiamo ritenere uniformemente valida la definizione di Paolo Prodi che così recita: “invocazione della divinità come testimone e garanzia della verità/veracità di un'affermazione-dichiarazione o dell'impegno/promessa di compiere una certa azione o di mantenere un certo comportamento in futuro, invocazione con la quale il singolo accende un rapporto con il gruppo a cui appartiene (o i gruppi accendono un rapporto tra di loro), ponendo in gioco la propria vita corporale e spirituale in base a comuni credenze che attingono alla sfera della meta-politica” (Prodi, 1992)  [12].
Dalla definizione emerge una struttura triadica, che coinvolge cioè tre figure: il giurante e il ricevente (per sé stessi o in rappresentanza di una comunità) e la divinità come testimone e garanzia e davanti al quale il primo assume una responsabilità.
Il giuramento non soltanto interessa la sfera giuridica-civile del diritto ma anche quella religiosa, ed anzi, come sarà più chiaro fra poco, rappresenta proprio lo snodo di passaggio tra le due sfere. 
Fig. 6: Saluto nuragico con la mano destra
Sarà solo con la laicizzazione del diritto in seno alla cultura romana (dove il processo del giuramento ha la sua maturazione più piena e complessa come istituto giuridico) iniziata con la prima codifica delle XII tavole datate al V secolo a.C., che la sfera giuridica e quella religiosa inizieranno progressivamente a separarsi, ma fino a questo evento il giuramento non consente tale separazione.

Per questo periodo arcaico gli studiosi si sono espressi nei termini di “pre-diritto”  (Gernet), di “indistinto primordiale” (Prodi), di “sistema giuridico-religioso” (Catalano) o di “continuum magico-religioso-giuridico” (Calore) e sarà questo il nostro contesto di riferimento  [13].
Antonello Calore ha però chiarito che “sebbene il fenomeno delle XII tavole rappresentò un passaggio epocale per la storia giuridica romana, il processo di laicizzazione del diritto, a cui pure esse dettero un impulso decisivo, fu più articolato e di più lunga durata. Sono inoltre convinto che tale processo, anche dopo il suo pieno compimento, non determinò l'eliminazione totale della dimensione magico-religiosa, favorendo la riutilizzazione di alcune delle istituzioni arcaiche nel nuovo sistema di valori” (Calore, 2000)  [14].
Prima che il giuramento diventasse un atto semplice e un mero enunciato “rafforzativo”, si presentava come atto complesso di tipo “performativo” [15] ed è per questo motivo che può essere definito un rito di passaggio, “meccanismo cerimoniale capace di guidare, secondo regole precise, il mutamento da una condizione, come strumento rituale di cambiamento[...] Il giuramento una volta prestato, dà origine ad una situazione diversa da quella esistente prima del suo adempimento, producendo nel tessuto sociale una profonda modifica e questa ne è proprio la funzione”  [16]. Ciò che si realizza tramite il giuramento è la sacralizzazione dell'azione umana, garantendo l'intento in essa contenuto, attraverso gesti e parole rigidamente formalizzati.

5. La sacralizzazione dell'azione umana: il 'sacramentum'
È sul termine latino “sacramentum” - che implica la nozione del render sacer - che è necessario ora soffermarsi, senza alcuna pretesa di esaurire una tematica che da sempre impegna gli studiosi del processo arcaico romano. Il termine deriva da 'sacrare' che indica l'atto di offrire solennemente, dedicare alla divinità, ovvero rendere sacro qualcosa attraverso una consacrazione ed è a sua volta derivato da 'sacer' con due significati possibili: quello connesso ad una idea di forza (o esuberanza) e quello di separazione, ovvero proibito al contatto umano, estraneo e non appartenente alla sua sfera.
Come ha scritto Agamben il giuramento appare come un'operazione che consiste nel rendere sacer il giurante in modo condizionale, cosicché l'affermazione resa divenga un potente pronunciamento separato e inviolabile: “il giuramento con la sua capacità di chiamare in causa il trascendente consentiva al soggetto (sia esso individuo o collettività) di porre in essere un atto di particolare efficacia, denominato sacramentum”  [17]
Pertanto il sacramentum si ottiene per effetto del giuramento (i due termini non equivalgono nonostante nel proseguo dell'esperienza romana finiranno per sovrapporsi) rappresentando la nuova realtà scaturita dalla formula e dal gesto del giurante: “Non appena si pronuncia il giuramento, si diventa un essere 'votato'” (Benveniste, 1969)  [18].
Nel mondo romano, quando un cittadino (civis) si trasformava in militare (miles) perdeva la proprietà di sé, ossia i propri diritti e diventava un elemento di quel sistema di relazione che era l'esercito (militia). Questa trasformazione era operata dal sacramentum militiae, che assumeva la forma di un giuramento raccolto dal comandante. Nel processo romano il sacramentum finirà anche per designare la somma di denaro che veniva 'messa in gioco' attraverso il giuramento (una sorta di deposito cauzionale): chi non riusciva a provare il suo buon diritto perdeva la scommessa, che veniva versata nel tesoro pubblico mentre il vincitore riprendeva il suo sacramentum dalla consacrazione. Ci informa Cicerone che in origine l'oggetto della sacratio processuale non era il denaro, ma il bestiame e comunque, in entrambi i casi, rappresentavano un 'sostituto' della vita del giurante.

6. Gli elementi costitutivi del giuramento
Gli elementi costitutivi del giuramento possono essere così riassunti:
1) Affermazione, accompagnata da un gesto;
2) Invocazione del divino (del suo nome, della sua forza, della sua potenza) a testimone e garanzia;
3) Esecrazione, maledizione rivolta allo spergiuro;
Il giuramento si struttura attorno alle parole (è un rito prevalentemente orale), determinanti e più potenti della realtà, che con la loro forza creatrice divengono produttrici di effetti giuridici. Queste intervengono sia nella formula (nel diritto romano diremmo carmen), sia nella dichiarazione dell'accordo oggetto del giuramento – asserzione se riguarda un fatto passato e promessa se riguarda un fatto futuro (nel diritto romano diremmo declamazione delle leges) - ed infine nella formula di esecrazione, maledizione rivolta allo spergiuro (nel diritto romano diremmo exsecratio).
La parola giurante deve essere attendibile e semplice per non consentire sotterfugi; deve essere adatta e recitata senza commettere errori; deve essere pertanto “detta-bene” (benedetta) e perché questo possa avvenire, la cerimonia deve essere amministrata da magistrati-sacerdoti, custodi dei formulari e del nome segreto del dio da invocare.
Fig. 7Orante con mano ricondotta sulla spalla, Museo Archeologico Nazionale di Cagliari (dal Catalogo del Lilliu, 1966): "La figurina, stante di fronte a gambe leggermente divaricate, aveva la destra levata in atto di pregare e piega il braccio sinistro tenendolo aderente obliquamente al petto e conducendolo a toccare, con la mano distesa, la spalla destra. È un gesto originale della statuina, che la rende unica fra le tante; un gesto che dobbiamo intendere non tanto rivolto a trattenere il mantello gettato sopra l'omero sinistro, quanto per indicare, insieme all'adorazione alla divinità, una sorta di patto segreto con quest'ultima, un vero e proprio giuramento" (Lilliu, 1966, p. 296). Un gesto simile, compiuto con la mano destra, si riscontra nella scultura in pietra del Pugilatore-Sacerdote di Mont'e Prama (Cabras)
Le parole non sono tuttavia sufficienti e sono sempre accompagnate da gesti precisi (che possono variare a seconda della tipologia di giuramento), articolati su due componenti fondamentali, due entità che sono determinate ad assumere un valore simbolico:
  • la mano (prevalentemente destra), parte del corpo attraverso la quale si compie il gesto, indice della potenza divina e per i romani ritenuta “il santuario corporeo della fides” [19].
  • un oggetto esterno, con il quale si entra in relazione (in greco prestare giuramento ha il significato di “afferrare con forza l'oggetto sacralizzato”).
Quello del giuramento è un istituto "che si manifesta in un avvenimento, in un atto sempre accompagnato da gesti e parole rigidamente formalizzati per permettere il passaggio dalla sfera etico-religiosa a quella del diritto: il giuramento non poteva che essere prestato corporaliter, come si specifica nel periodo del suo massimo fulgore, anche se poi fu proprio questa corporalità, questa fisicità ad essere messa in crisi dal moltiplicarsi delle formule scritte che contribuiscono alla sua inflazione e alla sua decadenza nell'età moderna"  (Prodi, 1992)  [20].
Questa riflessione di Prodi è di notevole importanza perché sottolinea la corrispondenza tra una gestualità che pur mantenendo un substrato di fisicità (all'interno di un istituto nel quale il giurante, come abbiamo visto, consacra al divino la sua stessa vita) presenta una preponderante astrattezza dell'atto, proiettandosi oltre l'azione e oltre la sua funzione comunicativa, divenendo un simbolo codificato e riportandoci alle considerazioni fatte in premessa sul gesto costitutivo: “separando nettamente 'gesto' da 'comportamento' si ottiene come definizione una forma di rappresentazione, uno scarto dalla naturalità: il gesto viene inteso come atto dotato di fisicità, ma comunque fictum” e ancora: “la fisicità della manus è icona dell'estrinsecazione della volontà del soggetto giurante. Perciò il gesto acquisisce valore simbolico e costitutivo” [21].

7. La maledizione allo spergiuro e la funzione del giuramento arcaico
Plutarco nelle Quaestiones romanae informava che tutti i giuramenti (non soltanto quelli romani, aggiungiamo) si concludono con una maledizione allo spergiuro, cioè nel caso in cui venga pronunciato il falso oppure non si mantenga quanto promesso.
Lo spergiuro è l'oltraggio alla potenza degli dèi, la cui vendetta, divina terribile e inevitabile, si esplica attraverso qualsiasi tipo di male (malattia, ferite, fulmini, infelicità di ogni sorta) perché se per un verso la divinità invocata nel giuramento assume il ruolo di testimone e garante, dall'altra è anche considerata punitrice nei casi in cui il legame tra le parole pronunciate e i fatti venga a spezzarsi.
Attraverso il giuramento l'uomo comunica con il divino e la testimonianza di quest'ultimo ha valore di stabilità, di garanzia e di conferma. Il giuramento si caratterizza quindi per la cooriginareità di benedizione e maledizione costitutivamente presenti durante l'atto [22] e attraverso l'invocazione del divino, nella sua qualità di garante, ha il potere di sigillare (vincolare, saldare) la parola data con l'azione svolta.

8. Il rito eliminatorio di sostituzione: materialità e astrazione
Soprattutto nei casi più solenni il rito del giuramento metteva in scena in maniera figurata ed immediatamente percepibile, la sorte negativa che sarebbe toccata allo spergiuro, in base al principio magico dell'analogia simpatetica. Sono note diverse testimonianze greche, ittite e di area siriana (che affondano le radici alla metà del II millennio), dove sono chiamate in causa sostanze concrete, quali cibi, bevande, olio e persino vesti e mantelli poste in analogia al giuramento stesso  [23] e in modo tale che la maledizione che doveva seguire in caso di spergiuro si legasse indissolubilmente alla persona del giurante. Questo contribuisce a spiegare perché in alcuni documenti paleo-babilonesi del Medio Eufrate compaia il detto “mangiare il giuramento”.
Queste sostanze, che dovevano far parte integrante del rito stesso, rappresentavano un rito eliminatorio di sostituzione che materializzava la maledizione intrinseca al giuramento che i contraenti del patto chiamavano su di sé in caso di spergiuro. Vediamo un esempio per tutti:
Per te questi giuramenti [siano...come] la birra (e) l'acqua che sei solito bere (anche) questi giuramenti di te si impossessino giù, all'interno (del tuo corpo) [come di olio] tu sei solito ungerti [così] a te anche questi giuramenti [sul tuo corpo/sulle tue membra] siano spalmati come tu una veste [sul tuo corpo] sei solito indossare, così tieni sempre addosso anche questi giuramenti.
Se un male contro Suppiluliuma o un male contro il figlio di Suppiluliuma sotto il sole del cielo tu ordini, possano in quel momento i mille dèi del giuramento (e) la calura del/una vampata di sole distruggerti. Se invece ciò di notte sotto la luna tu ordini, possa il Dio Luna con la sua mazza (Insieme) a tua moglie, ai tuoi figli, alla tua discendenza, al tuo paese distruggerti”  [24].
Fig. 8Offerente con focaccia presentata con ambe le mani (Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, immagine tratta dal catalogo del Lilliu, 1966): "La mano destra, entrata nel cavo superiore e la mano sinistra sottostante al fondo esterno, trattengono e presentano una focaccia di medie dimensioni, di forma lenticolare [...] non scarterei l'ipotesi di una patera nella quale l'offerente mesceva la materia dell'oblazione o la vuotava sopra l'altare (o per terra - vorrei aggiungere - come libazione agli inferi” (Lilliu, 1966, p. 362)
La libagione, ovvero l'atto di versare completamente un liquido (vino o acqua) quale rito eliminatorio e con funzione esecratoria, è altresì riscontrata in numerosi esempi, mentre nei giuramenti più solenni era previsto un vero e proprio sacrificio e la sorte dell'animale immolato si poneva in analogia a quella del giurante in caso di spergiuro.

Questa caratteristica del rito è stata messa in evidenza anche da Silvio Curletto che ha sottolineato che i riti di passaggio sono legati a cerimonie di giuramento (o di purificazione) e riporta un passo di Demostene: “si giura stando in piedi sulle carni tagliate delle vittime, un montone, un verro e un toro, che sono stati immolati da persone qualificate e nei giorni adatti” [25]. Non è dato sapere se le carni tagliate stiano ad indicare una divisione netta in due parti dell'animale, ma tale pratica sappiamo essere attestata presso i Greci e gli Ebrei, proprio in occasione delle pratiche religiose relative ai giuramenti e alle alleanze e trova corrispondenza nel modo di dire “tagliare un patto” o “tagliare un giuramento” (Curletto, 1990).
Uno degli strumenti usati per il sacrificio era la pietra, già presente in diversi modelli di giuramento indoeuropei ma soprattutto nel celebre giuramento arcaico romano “per Iovem Lapidem” che prevedeva l'uccisione sacrificale di un maialino con il lapis silex, una pietra di selce, anche se nel contesto italico sembra essere più antico il sacrificio del maialino 'a gladiis' cioè con l'utilizzo di spade  [26].
Ai fini del nostro discorso una delle più interessanti funzioni esecratorie, ben attestate nel mondo ittita, aramaico, assiro o greco, era quello di fondere della cera, sostanza con cui veniva identificato, sempre in base al principio magico dell'analogia simpatetica, colui che prestava giuramento.
Questa funzione veniva estesa anche a vere e proprie statuine di cera (o di argilla da sciogliersi nell'acqua) con il seguente significato: “possa colui che non rispetta questo patto giurato, ma lo trasgredisce sciogliersi e dissolversi come queste statuette, egli stesso, la sua discendenza e i suoi beni”  [27].
Le statuette di cera rappresentavano dunque i 'doppi sostitutivi' di coloro che prestavano giuramento.

9. Ordalia nel mondo nuragico?
Fig. 9: Ara/Modello di Nuraghe da Serra is Araus;
Per il fatto che vengano invocate maledizione e sanzione divina sopra di sé nel caso in cui si giuri il falso alcuni autori hanno supposto che il giuramento arcaico debba esser letto come una sorta di ordalia  [28]. L'annotazione ci consente di raccordare la lunga premessa con la cultura sardo-nuragica e la tesi avanzata dal Pettazzoni all'inizio del '900.
Descrivendo e interpretando uno degli ambienti presenti nel Santuario di Santa Vittoria di Serri, Pettazzoni scrive che “il bacile lustrale e l'ara meglio si accordano, forse, con l'idea di un'adunanza che qui si riunisse a deliberare prendendo gli auspici e si trasformasse talora in tribunale solenne. Tribunali in Sardegna fondò, a dire di Diodoro (insieme con ginnasi e altri istituti ordinati al vivere civile) quel demiurgo nazionale che Greci tradussero nel loro Iolao”. Riferendosi al Pozzo Sacro presente nello stesso sito si sofferma invece sul culto che in esso doveva svolgersi e richiamando Solino (che attinse le sue informazioni da Sallustio) - dopo aver riportato che le acque calde in Sardegna sono miracolose per i loro effetti terapeutici e particolarmente efficaci per la cura degli occhi - prosegue nel seguente modo: “sugli occhi poi hanno anche un altro effetto: chi è sospettato di furto viene sottoposto alla prova dell'acqua, cioè a un lavacro degli occhi; se è innocente, gli si aguzza la vista; se è colpevole, diventa cieco. Questo rito sardo per cui il medesimo elemento magico che opera in senso terapeutico è adibito anche a una specie di giudizio di dio, rispecchia con tutta fedeltà le caratteristiche del pensiero religioso primitivo” e ancora: “È poi naturale il pensare che nell'acqua sacra del tempio si ricorresse anche per quella specie di “giudizio di Dio” che era destinato a scoprire gli autori di un furto, e forse anche qualche altro misfatto, secondo la credenza attestata da Solino[...] E dell'ordalia ha veramente tutti i caratteri la prova dell'acqua che si praticava dai sardi. Tipico dell'ordalia è il carattere dell'indistinto morale e giuridico e procedurale, per cui la prova del crimine è tutta una cosa con la sentenza e con la pena. Così, presso i Sardi, il perdere il lume degli occhi portava in sé la dimostrazione e la sensazione della colpevolezza” (Pettazzoni, 1912) [29].

Pettazzoni fa poi riferimento ai bronzi dai quattro occhi e quattro braccia (i cosiddetti 'demoni' – fig. 5), interpretando l'iperantropia come segno di incremento straordinario del potere visivo, ad un tempo liberazione dal male e dimostrazione dell'innocenza: “E, certo, colui che dopo aver adempiuto a tutte le prescrizioni del rito, dopo aver sfiorato da presso i misteri più sacri della religione, dopo l'ansia dell'attesa e la tortura del dubbio, finalmente, esperite tutte le prove, si sentiva libero e puro al cospetto del dio, ed era proclamato innocente dinanzi alle tribù adunate; quegli doveva sentirsi invaso da una esaltazione di bontà e di energia super umana, che l'arte, ancora rude ed incolta, non seppe meglio esprimere che in una forma tutta materiale, con la reduplicazione degli occhi e delle braccia”.
Anche se non riteniamo che l'interpretazione del Pettazzoni colga nel giusto in merito alla ragione degli occhi 'raddoppiati', che non spiega il perché debbano moltiplicarsi anche gli scudi e le braccia (tanto meno condividiamo il giudizio di un'arte ancora rude ed incolta) crediamo che la strada da lui aperta sul rapporto (indistinto) tra sfera religiosa e giuridica debba essere percorsa.
Ed è per questo che ci chiediamo, dopo la lunga premessa che abbiamo intavolato e come forse si sarà già compreso, se sia possibile che l'atto rituale che prevede la levata della mano destra, la presenza di un oggetto da consacrare/sacrificare/offrire con la mano sinistra e la posizione rigidamente frontale, ferma e impassibile, che riscontriamo nella gran parte dei bronzetti sardi, concorrano a rappresentare la cerimonia di un 'giuramento'.

10. Dove forma ed evento si incrociano
Fig. 10:
Bronzo figurato di arciere sardo-nuragico
infisso nella pietra dal Museo Archeologico
di Sant'Antioco.
Si osservi la mano destra, non totalmente
levata come in altri esemplari,
che sembra percorrere un quarto di cerchio.
Ampliando la lettura del Pettazzoni sull'ordalia, avanziamo l'ipotesi che in occasione di giuramenti solenni, patti o alleanze, riti di iniziazione (sacerdotale, militare, ecc) e più in generale nelle varie fasi dei riti di passaggio - che dovevano avvenire nei santuari 'federali' nuragici come quello di Serri appena richiamato - venissero fabbricate delle statuine di cera (la base dei noti bronzetti) necessarie allo svolgimento della cerimonia rituale. Queste potevano rappresentare la figura del giurante, il suo doppio sostitutivo, ed anche, se previsto e per la stessa ragione, la figura dell'animale da sacrificare. Magistrati-sacerdoti specializzati nel rito, conoscitori delle formule e della procedura corrette, amministravano la cerimonia. Se non possono esserci note le parole pronunciate, potrebbero esserlo i gesti.

Dall'ara di pietra (fig. 9), spazio fisico e di apertura con il divino, il giurante leva la mano destra per invocare la divinità e chiamarne a sé la potenza, percorrendo un quarto di cerchio (fig. 2, 6, 10).
Il gesto del 'saluto' è da noi preferibilmente inteso come il gesto di 'invocazione' necessario per 'chiamare attenzione' e per 'dire' segretamente il nome divino.
L'oggetto posto sulla parte sinistra del corpo potrebbe invece rappresentare l'elemento 'materiale' da utilizzare per il rito eliminatorio dell'esecrazione (animale da sacrificare, cibo o bevanda, patera per le libagioni, veste o mantello) come nei casi prima menzionati e/o il corrispondente del sacramentum inteso come 'scommessa', sostitutivo della vita stessa. Al gesto compiuto con la mano destra doveva corrispondere un gesto compiuto con la mano (o la parte) sinistra, di modo che si realizzasse un 'rito di incrocio' (come attestato in alcuni giuramenti greci) [30] e una simmetria tra la parte destra benedicente, con la quale è invocata la divinità, e quella maledicente, con la quale si realizza la maledizione allo spergiuro [31].
Secondo la nostra ipotesi, la produzione della statuina in bronzo era parte integrante del rito e questo può contribuire a spiegare la prossimità e convivenza delle officine fusorie nei santuari sardo-nuragici. È possibile dunque che forma ed evento coincidessero.
A partire dal modello di cera prima richiamato, veniva fabbricata con la tecnica della cera persa la statuina sostitutiva in bronzo, affinché il vincolo/sigillo della parola data con l'azione, venisse materializzato [32]
Abbiamo visto precedentemente che in alcuni casi la fase (eliminatoria) della maledizione allo spergiuro avveniva con il rito della fusione della cera. Durante la fabbricazione di una scultura bronzea, come il nome della tecnica lascia intuire, è necessario far fondere la cera (che viene, per l'appunto, persa) per ottenere il corrispondente in metallo. È plausibile, ci chiediamo, che questa operazione potesse avere, oltre alla necessaria funzione pratica, anche quella di mettere in scena il rito dell'esecrazione?

11. I bronzi sardi come sigilli e attestati del sacramentum
C'è un altro elemento che ci sembra ancor più rilevante e rafforzativo della nostra interpretazione e che potrebbe spiegare la ragione della produzione di queste sculture. Gigi Sanna ha più volte sottolineato l'importanza della 'base' dei bronzetti nuragici e del loro essere 'ben saldi' e in effetti queste sculture venivano ancorate con il piombo o il bronzo fuso alle tavole o agli altari di pietra (fig. 1, fig. 11) [33].
Per noi anche questa azione doveva assumere un valore preciso all'interno della cerimonia.
Abbiamo visto che con l'invocazione della divinità non viene chiesta soltanto la garanzia che si realizzi la giusta relazione tra le parole e le azioni (bene-dicente) ma anche che la divinità sia d'aiuto affinché non si verifichi lo spezzarsi della stessa (male-dicente). Così come il rito del giuramento ha la funzione di sigillare, ovvero saldare e vincolare la parola data con l'azione svolta, analogamente il corpo doppio e sostitutivo della vita del giurante, reso attraverso la scultura bronzea, è saldato alla tavola di pietra, consacrato eternamente alla potenza divina. Non sembri anomala questa proposta e si pensi alle più tarde Tabulae Defixiones romane (il cui termine deriva proprio dal verbo defigere ovvero inchiodare, piantare, conficcare con la forza) redatte soprattutto su lamine di bronzo e piombo, piegate o arrotolate e deposte in contesti speciali (tra cui pozzi e aree sacre, anche in Sardegna), idonei a pratiche magiche, allo scopo di invocare un maleficio verso una o più persone, considerate per vari motivi avversarie [34]. D'altronde Agamben ha scritto che è dal giuramento, o meglio dallo spergiuro, che sono nati gli incantesimi e la magia.
L'impegno vincolante reso nel giuramento conferisce una personalità 'sacramentale' al giurante, ora reso sacer e votato alla divinità: perdendo i diritti personali, acquisisce quelli della (nuova) comunità nella quale viene ri-aggregato, dopo le dure prove previste nelle varie fasi del rito di passaggio.
La natura liminale e transumana che queste figure bronzee comunicano, se abbiamo ragione, sono espressione di questa relazione con la divinità: “Nel giuramento il linguaggio umano comunica con quello di Dio” [35] scrive Agamben. Per questo motivo sono figure sacre, sono i sigilli e gli attestati di un sacramentum nuragico, sono figure sospese nello snodo di passaggio tra la sfera divina e quella umana.

Fig. 11: Bronzi infissi e saldati nella pietra in una composizione esemplificativa dal Museo Archeologico di Nuoro.
Foto di Valerio Capello
** Desidero ringraziare Valerio Capello per le immagini concesse (con licenza CC-by-sa) e per il continuo e stimolante scambio di opinioni.
NOTE
1. R. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, Carlo Delfino Editore, 1993 (1. ed. 1912) p. 45
2. Angelo Ledda, "Monte Prama: tra organicità e astrazione" in Monti Prama n. 67 (2016)
3. Ne abbiamo parlato in Angelo Ledda, “Realismo grottesco e liminalità nelle sculture sardo-nuragiche” (in www.maimoniblog.it del 16 dicembre 2016) e “Il Bronzetto di Santa Lulla di Orune: un'analisi interpretativa” (in www.maimoniblog.it del 20 dicembre 2016). I riti di passaggio sono definiti come quei riti che accompagnano ogni modificazione di posto, di stato, di posizione sociale e di età, che si sviluppano secondo una precisa sequenza che prevede: a) una fase di separazione;b) una fase liminale (da limen, confine) o di margine; c) una fase di aggregazione; La prima fase (di separazione) comprende un comportamento simbolico che significa il distacco dall'individuo o del gruppo da un punto precedentemente fissato della struttura sociale, da un insieme di condizioni culturali (“stato”) o da entrambi. Durante il periodo 'liminale' che segue, le caratteristiche del soggetto del rito (il 'passeggero') sono ambigue; egli passa attraverso una situazione culturale che ha pochi attributi (o nessuno) dello stato passato o di quello a venire. Nella terza fase (riaggregazione o reincorporazione) si compie il passaggio. Il soggetto rituale, individuale o collettivo, è di nuovo in uno stato relativamente stabile, in virtù del quale ha diritti e doveri di fronte agli altri di tipo chiaramente definito e 'strutturale”; ci si aspetta che si comporti secondo certe norme tradizionali e criteri etici che vincolano il titolare di una posizione sociale in un sistema di tali posizioni”. Si vedano Arnold Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 1981. Il testo è stato pubblicato la prima volta con il titolo originale Les rites de passage (Parigi, 1909).
4. Distinguiamo il gesto comportamentale - che può essere espressivo, involontario, comunicativo e mimetico ed è caratterizzato dalla totale libertà di combinazione degli elementi che lo compongono - dal gesto costitutivo, cioè intenzionale, efficace, formale, stilizzato, assoluto e fatale (che ha cioè valore in sé) con valore costitutivo di realtà irreparabile (una volta compiuto, non può essere revocato). Si veda S. Bertelli, M. Centanni “Il gesto. Analisi di una fonte storica di comunicazione non verbale”, introduzione al testo S. Bertelli, M. Centanni (a cura) Il gesto nel rito e nel cerimoniale dal mondo antico ad oggi, 1995.
5. Una sintesi sull'argomento è in F. Ghedini, Giulia Domna tra Oriente e Occidente. Le fonti archeologiche, L'Erma di Bretschneider, Collana: La fenice, 1984 (da p. 33). Si veda anche Gigi Sanna, “II saluto nuragico e la stele del re Bar-rakib. Manus Festa e Manus Versa” in www.maimoniblog.it (novembre 2016).
6. Dall'esame statistico e analitico effettuato da Anna Depalmas su 247 figurine antropomorfe, si rileva che insieme al gesto dell'offerente, quello del saluto è il più rappresentato, compiuto con la mano destra nel 64% dei casi, mentre più raro quello con la sinistra (3%) o con entrambe (1%) in Anna Depalmas in “La figura umana nell'arte nuragica”, dal testo di G. Tanda, C. Luglié, Il segno e l'idea. Arte preistorica in Sardegna, CUEC editore, 2008;
7. Si veda a tal proposito il testo di Silvio Curletto, La norma e il suo rovescio. Coppie di opposti nel mondo religioso antico, ECIG, Genova, 1990, cit. p. 70
8. Anche nella statuaria nuragica non mancano esempi inversi, dove cioè è la mano sinistra a compiere il gesto del 'saluto' e la mano destra a recare l'offerta (3% dei casi, si veda la nota 5).
9. Scrive Curletto a proposito dell'idea centrale dei miti cosmogonici indoeuropei “...ricorrendo a un mitologema della creazione verificatosi in conseguenza di un primitivo sacrificio e smembramento di una creatura androgina o di un essere primordiale (p. 173) e più avanti: “Essi sono sorti da un'unità cosmica preesistente ed indifferenziata nella quale i principi maschile e femminile erano riuniti: viste come singole entità bipolari, queste divinità sono la rappresentazione del due nell'uno e dell'uno dentro un due. Incarnano la continua attrazione che mai si risolve e neppure si esaurisce.”
10. Gigi Sanna “Il bronzetto di Antas di Fluminimaggiore. Il sostegno della spada e del fallo del dio (yhwh) per il viaggio verso l’eternità. La consueta articolazione della formula del metagrafico. Santi nuragici intercessori con ‘firma’ e senza ‘firma’” in www.maimoniblog del 23 febbraio 2018.
11. Giorgio Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Ed. Laterza, Bari, 2008, p. 4
12. Paolo Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell'Occidente, Il mulino, Bologna, 1992
13. Classificazioni complesse, tanto che Agamben – già critico sulla concezione di “pre-diritto” - avverte che “non può essere soltanto un diritto più arcaico', così come ciò che sta prima della religione così come noi la conosciamo storicamente non è solo una religione più primitiva”, ed ancora “sia ora il giuramento, che si presenta, per la sola epoca in cui possiamo analizzarlo, cioè quella per cui abbiamo più documenti, come un istituto giuridico che contiene elementi che siamo abituati ad associare alla sfera religiosa, distinguere in esso una fase più arcaica, in cui non sarebbe che un rito religioso, da una più moderna in cui esso appartiene pienamente al diritto, è perfettamente arbritrario”, (Agamben, 2009, pag. 25)
14. Si veda Antonello Calore, “Per Iovem Lapidem”. Alle origini del giuramento. Sulla presenza del 'sacro' nell'esperienza giuridica romana, Giuffré Editore, Milano, 2000 (Collana del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'università degli Studi di Brescia), cit. p. 138. Che questo processo, con tutta la problematicità messa in luce da Calore, sia avvenuto in seno alla cultura romana non ci sorprende affatto dato che, come ha sottolineato Gian Matteo Corrias, i Romani hanno vissuto la loro relazione con il divino come un vero e proprio rapporto legale, il cui buon esito coincideva esattamente con la correttezza formale della procedura (si veda Gian Matteo Corrias, Dei e religione dell'Antica Roma, Arkadia, Cagliari, 2015).
15. Si fa qui riferimento al modello concettuale, appartenente alla linguistica, di atto performativo('prometto', giuro, battezzo, che esegue un azione e non la descrive). Il performativo è un enunciato linguistico che non descrive uno stato di cose, ma produce immediatamente un fatto, realizza il suo significato (speech acts). “Io giuro” è, in questo senso, il paradigma perfetto di uno speech act. L'atto verbale invera l'essere. Il verbo performativo si costruisce, infatti, necessariamente con il dictum che, considerato in sé, ha natura puramente denotativa e senza il quale esso resta vuoto e inefficace. Si veda anche Victor Turner, Il processo rituale. Struttura e antistruttura, Ed. Morelliana, Brescia, 2001 (Titolo originale dell'opera: The Ritual Process. Structure and Anti Structure del 1966).
16. Silvia Rossaro, Archeologia e genealogia del giuramento nel mondo romano arcaico (Tesi di dottorato, - Università di Padova, Dipartimento di Diritto Pubblico) p. 124-126
17. Calore, 2000, op. cit. p.136
18. E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Minuit, Paris, voll. 1-2, 1969.
19. “Ciò che conta non è tanto l'ira degli dèi che esso provocherebbe in caso di spergiuro - obbligandoci per questo al giuramento - ma la fiducia (per i romani la fides) che regola tanto le relazioni fra gli uomini che quelle fra i popoli e le città, presente in ogni scambio di volontà che è, insieme, scambio di fiducia. Nel periodo monarchico, 650 a.C. Numa consacra alla Fides, stabilendone il culto, un tempio in Campidoglio accanto a quello di Giove[...] dove questa divinità è onorata con riti solenni [...] e con sacrifici offerti con la mano destra avvolta in un panno bianco[...] In quell'antico santuario in epoche successive si riunisce spesso il Senato e si depositano i trattati conclusi da Roma con altre nazioni (Agamben 2009, op. cit. p. 41).
20. Prodi, 1992, op. cit. p.18. Il grassetto è mio
21. S. Bertelli, M. Centanni, 1995 op.cit.
22. Il filosofo Agamben ha connesso giuramento e sacramentum agli istituti romani della sacratio e della devotio: “Tanto le fonti antiche che la maggioranza degli studiosi concordano anzi nel vedere nel giuramento una forma di sacratio (o di devotio, un altro istituto con cui la consacrazione tende a confondersi)”. La differenza tra la devotio e la sacratio consiste nel fatto che nel primo caso la consacrazione avveniva spontaneamente, mentre nel secondo caso per aver commesso un maleficium, ma in entrambi i casi un uomo veniva reso sacer (homo sacer). Si veda nel merito, Giorgio Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995;
23. Si rimanda per gli approfondimenti agli studi di Mauro Giorgieri tra cui “Birra, acqua ed olio: paralleli siriani e neo-assiri ad un giuramento ittita” e “Aspetti magico-religiosi del giuramento presso gli Ittiti e i Greci” in Sergio Ribichini, Maria Rocchi, Paolo Xella (a cura di) La questione delle influenze vicino-orientali sulla religione greca. Stato degli studi e prospettive della ricerca, (Atti del Colloquio Internazionale, Roma, 20-22 maggio 1999), Consiglio Nazionale delle ricerche, Roma, 2001.
24. Oggetto del testo è il frammento di trattato ittita (o giuramento di fedeltà) denominato KUB 26.25 (+), d'epoca risalente a Suppililiuma II (ultimo re a noi conosciuto d'epoca ittita del XIII secolo a.C. dopo la distruzione dei Popoli del mare) “per mostrare come parte del suo singolare contenuto, pur costituendo una eccezione all'interno della documentazione ittita, affondi verosimilmente le sue radici in una particolare concezione 'materiale' del giuramento – e della maledizione ad esso intrinseca – attestata in documenti giuridici della prima metà del II millennio a.C., provenienti dall'area siriana del Medio Eufrate, e poi rintracciabile soprattutto in giuramenti di fedeltà di epoca neo-assira” (Mauro Giorgieri, “Birra, acqua ed olio: paralleli siriani e neo-assiri ad un giuramento ittita” p. 299)
25. Curletto, 1990, op. cit. p. 188
26. Si veda Calore, 2000, cfr in bibliografia. Il contatto con la pietra, di cui si è fatto cenno con il lapis silex, si riscontra anche con l'ara o altare (si pensi ad esempio al giuramento sull'Ara Massima) che costituisce non solo lo spazio fisico del giuramento ma anche un vero e proprio strumento sacro, lo spazio di apertura con il mondo divino, sede della divinità. Sul giuramento italico 'a gladiis' si veda invece Loredana Cappelletti, “Il giuramento degli italici sulle monete del 90 a.c” (1999).
27. Citazione tratta da Giorgieri in “Aspetti magico-religiosi del giuramento presso gli Ittiti e i Greci” (2001)
28. L'ordalia faceva parte di quelle prove irrazionali con cui si interpretava un giudizio divino, con responso sulla innocenza o colpevolezza dell'accusato attraverso un combattimento, spesso per il tramite di “campioni” che combattono al posto delle parti in contrasto, ovvero mediante prove fisiche cruente, il cui esito si concepisce come diretta manifestazione della volontà divina.
29. Pettazzoni, op. cit. pp. 34-35
30. Curletto, 1990, op. cit. p. 187
31. Si deve ipotizzare che l'offerta definita generalmente 'focaccia' vada interpretata come una pateranecessaria al rito della libagione. Lo ha supposto anche il Pettazzoni: “Il sacrificio e la preghiera sono, del resto, le idee informatrici dell'arte sarda dei bronzi figurati: basti ricordare le figure di offerenti in atto di porgere una patera o una focaccia, e quelle di adoranti nel tipico gesto della mano protesa” (p .52).
32. Il passaggio dalla cera al metallo non è privo di implicazioni. Se in occasione del giuramento (o alleanza) con il sacrificio si realizzava la netta divisione in due parti (o semplicemente lo smembramento della vittima) con il significato di “creare due dall'uno” per stabilire un contatto con il divino, con la fabbricazione della statuina bronzea avveniva esattamente l'opposto, riportando il tutto all'unità. Si apriva temporaneamente lo spazio necessario a favorire il passaggio al nuovo status, ma era altresì necessario richiuderlo una volta raggiunto. Scrive Curletto: “Per comprendere quale nesso intercorra tra magia e forgiatura dei metalli è sufficiente pensare al valore mitico, oltre che scientifico, della scoperta dei metalli per l'uomo arcaico e al miracolo rappresentato dalla loro fusione, attraverso la quale la materia acquista vita e forma e la molteplicità diviene unità. L'attività metallurgica nasconde un'analogia mistico-simbolica con l'evento cosmogonico rappresentandone la soluzione rovesciata; il fabbro colui che fa, è capace di trasformare il due in unità, due parti di metallo divengono sotto le sue mani e in forza dell'azione del fuoco, elemento creatore-distruttore, un'unica cosa – ed ecco perché l'attività metallurgica è marcatamente segnata da un simbolismo sessuale – mentre la cosmogonia è il momento in cui l'uno diviene molteplicità” (Curletto, 1990, p. 131). Si veda anche Angelo Ledda, "Il sacro segreto palese" in Monti Prama n. 66 (2013);
33. Si vedano Gigi sanna, “Un ‘gigante’ sardo pellita ‘pantauros’ nella famosa tomba etrusca ‘dei bronzetti sardi’ di Cavalupo. Tutta l’energia magica taurina possibile di un figlio del Dio, di un intercessore d’eccezione, per la speranza della salvezza e della rinascita” in www.maimoniblog del 9 febbraio 2018. Alla nota 28 l'autore scrive: “Sbaglierò ma a me l’uso (antichissimo a detta degli studiosi)  degli israeliti di inserire nelle cavità del Kotel (il cosiddetto muro del pianto) di Gerusalemme dei foglietti con richieste o petizioni scritte a yhwh,  ricorda tanto, per  la chiara simbologia del ‘fissare’ per iscritto la preghiera, l’uso nuragico dei bronzetti ‘scritti’ inseriti nelle cavità del tempio nuraghe o in altri edifici di culto. E’ evidente però che se la consonanza fosse reale e non ipotetica, data la specifica cultura religiosa dello yhwh dei nuragici,  ai cananei andrebbe ricondotto e non tanto agli ebrei l’uso dell’inserimento o del  fissaggio del messaggio scritto per la divinità. La stessa scrittura dei bronzetti su base linguistica semitica potrebbe rendere plausibile l’ipotesi”.
34. Pietro Alfonso, Alessandra La Fragola, “Il Santuario nuragico-romano della Purissima di Alghero (SS) in Quaderni 25/2014 e soprattutto Alessandra La Fragola “Tra superstizione e speranza: pratiche di defixiones da Alghero” in Quaderni 26/2015: “Proprio il santuario nuragico della Purissima di Alghero ha restituito alcuni rari esemplari di lamine di bronzo e piombo, piegate o arrotolate, che venivano dedicate in età romana all’interno di pozzi e aree sacre, allo scopo di invocare un maleficio verso una o più persone, considerate per vari motivi avversarie. La sequenza stratigrafica consente una datazione esatta e contestuale dei rinvenimenti, che rappresentano la forma più schietta della superstizione popolare. Con pratiche individuali a motivazione puramente personale, ci si affidava così ai numi nella speranza di venire ascoltati. Il santuario conferma che la maggior parte di queste invocazioni avvenivano per via orale e non scritta; gettando un pezzo di metallo nei luoghi sacri a rafforzare il tutto”. Sul tema delle defixiones si vedano anche Celia Sánchez Natalías “Le defixiones durante la Tarda Antichità e la loro iconografia” 2013 e il testo di Claudio Foti, Defixiones. Le tavolette magiche nell'Antica Roma, Eremon Edizioni, 2014
35. Agamben, 2009, op. cit. p. 31

BIBLIOGRAFIA
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  • Gigi Sanna, Sardoa Grammata 'ag'ab sa'an yhwwh, S'Alvure, Oristano 2004
  • Gigi Sanna, I segni del Lossia Cacciatore, S'Alvure, Oristano 2007
  • Gigi Sanna, La stele di Nora, Il dio, il dono, il santo, PTM Mogoro 2009
  • Gigi Sanna, I geroglifici dei giganti, PTM Mogoro 2016
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