dedicato a Sergio Frau (*)
Premessa
Più volte (1) ormai abbiamo sottolineato, con riscontri oggettivi che abbiamo ritenuto pertinenti e inconfutabili, il prestito della crittografia agli etruschi da parte dei nuragici. Lo stilismo e la magnificenza dell’arte scultorea greca delle opere etrusche mascherano notevolmente l’ideologia comune della luce terrena e ultraterrena e solo una puntuale osservazione dei manufatti permette di capire che dietro l’opulenza greco - etrusca c’è il system, diverso ma ugualmente assai pregnante, che dà luogo alla realizzazione e alla rappresentazione della religiosità degli ideatori e costruttori dei nuraghi. Chi ritiene che le opere dell’arte etrusca siano semplice espressione di simbolismo e di decorativismo non continui questa lettura: il pregiudizio di anni e anni (secoli ormai) di interpretazione è una ganga difficilmente rimovibile da ciò che sottostà, ovvero dalla ‘cosa’ più nascosta e per questo assai più preziosa.
Neanche il riferimento all’arte egiziana che nella scrittura - com’è noto - contemplava decus, symbolum e sonus, cioè tutti e tre gli aspetti (2) e non solo due lo indurrà a pensare che il sonus, soprattutto questo, sia presente negli oggetti, nelle tombe, nelle pitture della vastissima arte funeraria etrusca. Il ‘codice’ funerario posto in essere dagli Etruschi, quello di cui tanto si parla da parte degli studiosi perché si insista e si moltiplichino le forze per una sua ‘decifrazione’, resterà un codice per sempre inafferrabile perché né il decus né la simbologia (con l’eterna domanda senza risposta scientifica: ‘di che cosa’ o ‘di chi’ una ‘cosa’ è simbolo?) permetteranno di capire nel profondo il messaggio insito in tanta varietà di componimenti. Una‘unda currens’ sarà così sempre decorazione, così come lo saranno un motivo floreale ripetuto, dei dentelli ripetuti, delle pieghe ripetute di un chitone, dei punti reiterati, un serpente o una fontana da cui sgorga l’acqua continua. Mai ci si chiederà cosa accomuna quelle ripetizioni, quei dati topici. Una patera (patna) sarà sempre decorazione e simbolo di libagione, un anello sigillo sempre decorazione e simbolo di prestigio sociale, uno o due cuscini segno di altezza sociale e di funzionalità per i nobili gomiti di chi sta sdraiato sul triclinio. E così via. Mai ci si chiederà se quegli oggetti possano costituire dell’altro ovvero degli ideogrammi da abbinare ad altri ideogrammi ancora, in una organica catena sintattica di voci che possano dare senso. E così, procedendo nell’analisi di superficie, depistante e ingannatrice, tutto resterà muto o al più opinabile (io penso, tu pensi, egli pensa) con i famosi fiumi d’inchiostro, che si aggiungeranno ad altri fiumi nel tempo, per i vani tentativi di risoluzione del rebus. Sembra proprio essersi dimenticata del tutto l’esperienza ottocentesca per la scrittura egiziana o quella novecentesca della scrittura maya dove tutti si puntava sulla mera decifrazione della simbologia e non della fonetica ritenuta, tra ironia e sarcasmo, tra ilarità e supponenza, del tutto inesistente.