de Francu Pilloni
Certe volte, ad apprendere di storia, si prende un manrovescio in piena mente.
Non ricordo in quale occasione seppi che un Papa di Roma scrisse a un capo dei Barbaricini una lettera di cui fu riportato un brano.
Come tanti, per non dire come tutti, ignoravo tutto della storia della Sardegna, se non gli episodi addentellati con la storia di Roma, della Spagna e dell’Italia, riportati sempre dal punto di vista degli altri. Voglio dire che nei libri avevo letto non che la Sardegna fu conquistata dai Romani nel 238 a. C., ma che Roma conquistò la Sardegna. I due assunti sembrerebbero dire la stessa cosa, ma non è così perché nella prima espressione vengono sottintese le ripercussioni che il fatto comportò per la Sardegna, mentre nella seconda sono implicite esclusivamente le implicazioni per la politica espansiva del vincitore.
Comunque allora sapevo riportare in italiano la non difficile frase latina: “Dum enim (Mentre infatti) Barbaricini omnes (tutti i Barbaricini) ut insensata animalia vivant (vivono come animali insensati), Deum verum nesciant (ignorano il Dio vero), ligna autem et lapides adorent (ma adorano legni e pietre)”.
Mi saltò subito agli occhi che i Barbaricini adoravano “legni e pietre”, ciò che me li fece assimilare agli Indiani dei film western, nei quali avevo visto che cantavano, si dipingevano il viso e ballavano intorno a un totem. Forse fu perché i Pellerossa mi erano simpatici e tifavo per loro contro la cavalleria, ma l’accostamento non mi dispiacque.
Mi turbò invece il fatto che si affermasse che vivessero come insensata animalia che, a metterlo in sardo, sarebbe comente una brebei media, come una pecora pazza, la quale cioè ha perso il senso del gregge, vaga per conto suo e si perde nella campagna, incapace di rientrare all’ovile.
Quest’affermazione mi parve insopportabile, sebbene fosse rivolta ai Barbaricini, da sempre in polemica con noi sardi delle pianure e delle colline. In fin dei conti, offendeva anche me come sardo che, quanto a indipendenza di spirito e di intolleranza alle ingiustizie, non avevo niente da apprendere.
Ricordo pure che il capo dei Barbaricini a cui era indirizzata l’epistola si chiamava Ospitone. Un nome che mi pareva più un soprannome che un nome proprio, così come diciamo giangalloni a uno molto alto. Se fosse stato campidanese, si sarebbe chiamato Ospidoni o meglio Aspidoni: Aspidoni da aspidu, vale a dire “aspro”, riferito a un individuo con cui risulta complicato anche dialogare? Che Ospitone avesse un caratteraccio?
Credo che non si abbia traccia di un’eventuale risposta di Ospitone. E questo è un peccato!
Mi sarebbe piaciuto sapere se Ospitone avesse ingoiato liscio quel “Tutti i Barbaricini (Barbaricini Omnes) vivono come pecore pazze”, visto che pure lui era nel mazzo dei Barbaricini: se gliel’avesse lasciata passare, da una parte mi sarebbe dispiaciuto come sardo, dall’altra avrei goduto come campidanese, constatando che i Barbaricini sono sì dei duri, ma solo a parole.
Sono passati degli anni, molti in verità, e ho avuto modo di leggere la santa lettera di Gregorio I Magno, suppongo recapitata a mano ad Ospitone da un vescovo Felice “suo fratello” e da Ciriaco “suo figlio”, i quali venivano raccomandati ad Ospitone perché ne agevolasse l’opera per cui erano stati mandati presso i Barbaricini, vale a dire, per convertirli al cristianesimo.
Non ho ulteriori notizie di Felice e di Ciriaco, né so se riuscirono a convertire alla nuova religione i Barbari o se fossero stati i Barbari a convincerli a prendere i loro usi e i loro costumi.
In effetti, tra la sessantina di santi a nome Felice, non c’è alcuno vissuto o morto poco dopo il 594, anno in cui è datata con certezza l’epistola santa del Papa Magno. Né si ha memoria di un Ciriaco, martirizzato in Barbagia in quel lasso di tempo.
D’altra parte, che cosa poteva mostrare di concreto della nuova religione il vescovo Felice se non una croce, di legno che fosse o di metallo?
Nella mente (insensata) dei Barbaricini, questi legni incrociati presentavano una differenza sostanziale se paragonati a una statua di granito o a un totem di legno, se non che fossero tutti rappresentazione di ciò che era proibito rappresentare?
Oppure Ospitone stesso finì come Efisio, il martire di Nora, che venne ucciso dai suoi per questioni meramente religiose?
Oggi non solo si sospetta, ma è stato accertato da documenti scritti del periodo nuragico, che la divinità unica dei Sardi avesse il nome di Yahveh, simile a quello degli Israeliti, anche se quello sardo pare avesse origine cananaica e non ebraica.
Il Dio di Israele era (è) un Dio unico, intransigente e collerico; quello cristiano, se stiamo alla predicazione di Gesù, è diventato misericordioso e tollerante. L’apostolo Pietro (il primo Papa di Roma) chiese a Gesù: “Quante volte dovrò perdonare mio fratello? Sette volte?”. “Non sette volte, ma settanta volte sette!” aveva risposto Gesù.
Quanto alla divinità dei Nuragici, ancora non se ne comprende pienamente il carattere, a parte che è unico, potente e dispensatore di vita.
Se si volesse proporre un confronto del tutto improbabile, oggi direi che è più cristiano, nel senso di più evangelico, il nuraghe Arrubiu del Tempio di Gerusalemme o della stessa Chiesa di San Pietro in Roma. Il Tempio e la Chiesa sono famosi per la bellezza, per la magnificenza, per la ricchezza degli ori e degli argenti, a fronte di un nuraghe che brilla per maestosità, per essenzialità, per sobrietà.
A leggere l’epistola nella sua interezza, salta agli occhi la presunzione di un papa magno e santo che tratta Ospitone come uno sempliciotto che si fa abbindolare da sperticate lodi alla persona.
“Poiché nessuno della tua gente è Cristiano, per questo so che sei il migliore di tutto il tuo popolo: perché sei Cristiano. Mentre infatti tutti i Barbaricini vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre, tu, per il solo fatto che veneri il vero Dio, hai dimostrato quanto sei superiore a tutti”. Questo l’incipit dell’epistola.
Si sarà chiesto Ospitone perché doveva essere considerato il migliore solo perché era cristiano e non perché era coraggioso, giusto e di esempio per il suo popolo?
Avrà pensato che il popolo gli obbediva e lo seguiva non perché fosse cristiano, ma per altri valori umani che vedeva in lui?
Avrà intuito Ospitone che la sua leadership si fondava sul fatto che lui si identificava nel suo popolo e il suo popolo in lui?
Il papa magno e santo, come usava a Roma, aveva cercato di ungere le ruote del cervello di Ospitone, blandendolo con lusinghe spurie, sia perché gli arrivavano da uno che non lo conosceva, sia perché probabilmente già riteneva di essere il migliore tra il suo popolo, diversamente non ne sarebbe diventato il dux.
Si può pensare che Ospitone, letta la lettera o fattasela leggere da altri, abbia invitato Felice e Ciriaco a cena nella sua pinnetta, offrendo loro casu marzu e capretto arrosto.
Intanto che gli ospiti venuti da lontano addentavano la carne e si industriavano a stendere il cremoso formaggio sul pani carasau con l’aiuto di una leppa, messi in banda lo stuolo di piccoli e irrequieti vermicciattoli, Ospitone parlò loro del Dio unico dei Sardi che aveva nome Yahveh, che aveva creato il cielo e la terra, che era la forza che dava vita a tutti gli esser viventi, che era buono con tutti i suoi figli perché, oltre che potente, era anche misericordioso, così che non impediva a nessuno di essere rigenerato in una vita futura.
Queste considerazioni mi fanno apparire Ospitone come in bilico nella storia, perché non ci fu risposta al grande papa magno, perché di Felice e Ciriaco non si trovò traccia in quanto presumibilmente non furono neppure martirizzati, altrimenti facilmente ce li saremmo ritrovati in veste di santi, visto che di tanti altri, come il nostro amato Efisio, non si ha menzione in alcun documento dell’epoca.
Può essere che Felice e Ciriaco non siano mai arrivati alla pinnetta di Ospitone, perché le notizie sin qui riportate vengono tutte dalla copia dell’epistola conservata negli archivi apostolici romani.
Ah, Ospitone! Come Amsicora, hai avuto il torto di non aver scritto di te e del tuo popolo e ora subisci la storia degli altri.