martedì 2 febbraio 2016

Vai col racconto


Madonna nera (Maria Cirillo)
(di Francu e ………………….)

ERICA SCANO

Erica Scano profuma scandalosamente di elicriso; questo il suo effluvio naturale.
Ha grandi occhi chiari, Erica Scano, la pelle scura, i capelli neri e lunghi, le sopracciglia folte, arcuate, ben disegnate, incolte: sul lato sinistro la curva si accentua per cui, quando lo stira in segno di attenzione, pare che scruti con disincanto gli interlocutori e, insieme a essi, l'eccedente mondo.

È bella, nubile, benestante: ha due figlie, Erica Scano; studiano nel collegio delle Suore di Carità.
Nemici, Erica Scano, non ne conta; cammina a testa alta: nessun debito pregresso; nessun credito inesigibile.
È amica a tanti e famosa, Erica Scano, perché fa la donna pubblica da sempre: c'è chi la paga e non consuma, c'è chi consuma e non la paga, chi salda il conto a fine mese e chi al raccolto, parte in danaro, parte in provviste come, in tempi andati, i contadini col barbiere.

È morta stamattina e profuma ancora di elicriso, Erica Scano.
L'ha scoperta il cugino prete, don Peppino Trogu: le riversa addosso la giaculatoria di rito: “Si capax es … Se sei capace di accogliere l'infinita misericordia divina, chiedi perdono per i tuoi …”.

Il primo peccato genuino lo confezionarono insieme nell'orto del nonno, all'ombra del melograno, a ridosso del muro del pagliaio: era un settembre mitico: le melagrane si spaccavano mostrando chicchi rosa, Erica Scano già odorava di elicriso.
Lo fecero e basta: lui non chiese, lei non disse. Niente parole: risero, intristirono, risero ancora.
In fine, anche il melograno profumò di elicriso.

Assorto in meditazione, don Peppino Trogu ansima inquieto: non può ignorare il profumo, fatica a scacciare i ricordi. Sottrattosi a un gorgo di pensieri, chiusi gli occhi, tiene il respiro mentre scruta il varco alla Sacra Soglia della Città della Luce: è lei che va, Erica Scano. Sempre a testa alta.



È un racconto concluso, indisponente nel costrutto, breve eppure irritante, ancorché stimolante per le opportunità di sviluppo che lascia aperte. Scritto con i verbi al tempo presente, un presente che si dilata con l'azione che si svolge, lascia ampio e amorevole spazio ai passati e, se servisse, al futuro.
Di lei, della protagonista (al momento), si dice tanto e non si dice niente: è bella, profuma di suo, ha due figlie giovani, titolare di un mestiere antico, è morta, ma non si dice come e perché.
C'è tutto un contorno in via di definizione: un villaggio di provincia, un cugino prete, tanti altri, giovani o meno giovani conoscenti, che aspettano il loro turno per uscire allo scoperto.
Questo post non ha bisogno di commenti, ma di espandersi nelle direzioni che i lettori vorranno scegliere, mettendo a disposizione la loro immaginazione e la loro esperienza.
Si tratta di un gioco che ho fatto a scuola con i bambini: dato un inizio, anche meno significante del presente, ciascuno proponeva uno sviluppo e andava avanti democraticamente nella direzione che veniva scelta a maggioranza fra quelle proposte.
Qualcuno ha paura di mettersi in gioco?

Continua tu.

13 commenti:

  1. Don Peppino, riapre gli occhi, torna al presente, guarda quel viso immutato dal tempo, solo qualche capello infinitamente bianco, nascosto da una marea di capelli infinitamente neri ornano quel viso sereno. Guarda il futuro di Erica Scano Don Peppino, due figlie giovani e belle di lacrime agli occhi; guarda e accenna un sorriso, pensando che avranno un destino diverso… normale.
    La gente si accalca all’uscio di casa, chiede spiegazioni ma nessuno osa entrare, tutti col cappello in mano cercano una spiegazione, convinti e persuasi che nessuno sappia. Solo loro sanno ognuno per proprio conto ma non possono far vedere, le mogli sono lì pure loro, a scrutare, tremendamente arcigne alcune, indifferenti altre, ma tutte in cuor loro, contente.
    Il giorno dopo Don Peppino celebra il rito funebre, davanti all’altare le due figlie guardano il feretro, alle loro spalle la chiesa è vuota, solo il sacrestano, gli occhi bassi e lucidi, risponde al prete. Terminato il rito, Giacomino si avvicina alle ragazze, le bacia in fronte e le benedice, poi fugge via. Il carro parte, lento e silenzioso in quella serata di sole calante, le porte del camposanto si aprono a lasciar passare quella folla di tre persone, Mario il becchino aspetta da un po’, con gli occhi lucidi si avvicina alle ragazze, le bacia in fronte e le benedice, poi ad un cenno di Don Peppino inizia il suo lavoro. Alla spicciolata arriva Guglielmo, il macellaio, gli occhi lucidi, si avvicina alle ragazze, le bacia in fronte e le benedice. Poi arriva Anselmo, il postino, gli occhi lucidi, si avvicina alle ragazze, le bacia in fronte e le benedice e così Rinaldo il lattoniere, Rimedio il maniscalco, don Luigi il notaro, don Virgilio il farmacista, accompagnato dal medico condotto e poi Enrico il pastore, Antonicu agricoltore ed in fine pure lui, che fu sindaco e in cuor suo porta ancora la fascia tricolore, pure lui, gli occhi lucidi, si avvicina alle ragazze, le bacia in fronte e le benedice.
    Tutti portano rispetto alle due ragazze, perché Erica Scano lo ha portato via con se il suo segreto. Diede amore e gioia a tutti in paese, nessuno escluso, e tutti eran contenti, le mogli all’oscuro di tutto sicure del proprio marito, le madri lo stesso, i padri non chiedevano ai figli ed i figli non si permettevano di chiedere ai padri. Tutti contenti, tutti in pace e tutti padri di quelle due figlie, che avrebbero potuto girar per il paese di giorno e di notte (ma non lo facevano), e nessuno avrebbe osato sfiorarle con un dito, perché troppi padri sarebbero stati lì a guardare ed in silenzio, proteggere.

    RispondiElimina
  2. Erica Scano è distesa nel suo letto, una coperta leggera di piuma d'oca, la stufa a radiatore ancora accesa. Don Peppino Trogu si prostra in ginocchio, mormora giaculatorie senza senso, non trova il coraggio di accarezzarle la fronte, di metterle il palmo della mano davanti al viso perché quella donna sembra ancora viva. Potrebbe cercare il battito del polso sul braccio disteso, potrebbe sentire la pulsazione premendo con due dita sul bel collo, potrebbe spostare la coperta e posare l'orecchio sul petto per avvertire un battito.
    Indistintamente gli si presentano alla mente tre ipotesi come causa del decesso: suicidio, morte naturale, omicidio, non avendo la lucidità per escluderne alcuno, senza propendere per la probabilità di un evento rispetto all'altro. Le lancia uno sguardo di sfida, come a chiedere cosa ti è successo?, ma non resiste, non attende risposta, perché si sente come se gli occhi chiari di Erica Scano lo stiano fissando. Ecco, allunga la mano sul quel viso, con un gesto solo le abbassa le palpebre, quindi si mette faticosamente in piedi sostenendosi con una mano sul materasso. Pesca nella tasca della sottana il cellulare e compone il numero del comandante della stazione. Il maresciallo Lampis arriva in meno di un minuto, dato che si trova in auto proprio nei pressi. Poche parole, nessuno tocca niente, potendo essere quella camera la possibile scena di un delitto. Parte quindi la chiamata al medico di turno, essendo la giornata una festività riconosciuta.
    Linda Pionca, laurea in medicina e specializzazione in psichiatria, un lungo tirocinio a combattere coi matti, come dice il padre, ha sangue freddo e sa come comportarsi.
    Solleva la coperta, scopre una deceduta tutta nuda, la ricopre. Invita i due uomini a uscire, inizia l'ispezione, verificando innanzi tutto la temperatura corporea, per avere una prima idea sull'ora del decesso. La donna è calda, anzi abbastanza calda, manco fosse morta da dieci minuti. Linda Pionca sbircia l'orologio e acquisisce come sia trascorsa oltre mezz'ora da quando l'hanno avvisata. È vero, constata, che nella camera c'è un gran caldo, la stufa ancora accesa e per di più regolata al massimo, ma quei 35 gradi e mezzo di temperatura corporea appartengono più a un vivo che a un morto.
    segue

    RispondiElimina
  3. Se don Peppino le ha abbassato le palpebre, lei glile solleva per osservarne le pupille. Ora è il turno delle braccia, del ventre, delle gambe per eventuali ferite o segni di puntura, la rivolta di spalle, controlla in mezzo alle gambe per un esito di rapporto sessuale, cercato e rubato. Niente, nessun indizio.
    Però a causa di qualcosa è pur morta, visto che è morta, pensa pragmaticamente la dottoressa.
    Si siede, prende la borsa, ne estrae un blocchetto, la penna, lo stetoscopio. Comincia a scrivere: La sottoscritta ecc. ecc. constata in data odierna il decesso di Erica Scano, nubile, di anni 35, visitata alle ore 11,30 del giorno 1 febbraio 2016 nella sua abitazione di proprietà sita in via Cagliari numero civico 6, dovuto ad arresto cardiocircolatorio. Sul cadavere non si riscontrano ferite, lesioni, graffi o qualsiasi esito di violenza, tipo tumefazioni o abrasioni. Il decesso presunto è avvenuto fra le ore 7 e le ore 9 di questo giorno. Le esequie permesse dopo 24 ore dal presente, salvo diversa disposizione dell'autorità giudiziaria.
    Poggia il blocchetto sul comodino, prende lo stetoscopio e l'adagia sul petto della donna con movimento un po' brusco. La morta tossisce. Anzi, tossicchia. O forse rutta lievemente a bocca chiusa. Niente di strano, pensa Linda Pionca, al suo paese meglio nota come “sa neta”, vale a dire la nipote, trenta e lode in Medicina legale: è l'effetto dell'aria rimasta nello stomaco che, non più trattenuta dal cardias, cerca sfogo verso l'alto e origina il tipico gorgoglio che, sì, può sembrare un colpo di tosse represso. Per suffragare con una prova l'intuizione, stringe le narici della morta con due dita, impedendo all'aria di fuoriuscire o entrare dal naso, poi le poggia la mano sullo stomaco, premendo progressivamente. Nessuna reazione uditiva, bensì una sorpresa visibile: la morta spalanca i suoi occhioni chiari.

    (dovrebbe andare davanti al seguito di Sandro e manca anche qualcosa per incollarli)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Non c'è alcun problema. quando il racconto sarà terminato, chissà quando, lo aggiusteremo e lo limeremo per pubblicarlo in modo definitivo.

      Elimina
  4. Linda Pionca, Ermelinda per l'anagrafe, Ermelinda Maria Bonaria nel registro parrocchiale dei Battesimi, era Sa neta di altra Ermelinda, Frau questa volta, sorella della nonna di sua madre, vissuta a lungo e morta a centodue anni nel suo villaggio fra i monti, qual è appunto Burcei.
    Un giorno, quando Linda aveva quindici anni e pigliava ogni giorno la corriera per recarsi a scuola nell'hinterland di Cagliari, la prozia della madre le chiese il motivo di tanta fatica. La ragazzina rispose che da grande voleva fare un mestiere a favore dei malati, per salvare la gente dalla morte.
    La vecchia fu divertita e si offrì di trasmetterle tutti i suoi saperi e i saper fare per curare il malocchio per bambini e bestie, i vomiti da ulcera, i porri, le vene varicose, le unghie incarnite, i dispiaceri per uno spavento e altri malanni femminili di cui le avrebbe rivelato la diagnosi e la cura, ma a suo tempo, quando fosse stata una donna matura, preferibilmente sposata e introdotta ai misteri dell'attività sessuale. La vecchia non disse proprio “attività sessuale”, perché non conosceva il vocabolo, ma era certamente consapevole della sostanza del significato, avendo essa “interrato tre mariti”, dopo di che si era messa con un quarto uomo, ma senza ricevere la benedizione. Ciò, disse convinta la vecchia, lo salvò dalla bara, anche se le premorì di vent'anni.
    – Se vuoi, oltre che salvare dalla morte, ti inizierò alle pratiche per salvare qualcuno dalla vita – le disse, attendendo un diniego o una reazione di stupore.
    – E cioè? – chiese solamente la ragazza.
    La vecchia le spiegò che a volta la vita diventa dolorosa, terribilmente complicata per poter essere continuata, quando si sa per esperienza che comunque a una persona rimane poco da vedere il sole.
    – E allora, perché far soffrire la persona e i suoi parenti, quando si può anticipare quello che è comunque previsto? – concluse col tono di chi è sicuro delle ragioni che ha portato e non ammette altro se non il consenso.
    – Questa cosa, nonna bella, si chiama e-u-ta-na-sìa.
    – Mai sentito! – chiuse il discorso nonna bella – Non ti sbaglierai?

    Ecco, per l'appunto, decifrato il nomignolo con cui la dottoressa è conosciuta in paese: Sa neta.
    Ma la nipote di chi?
    Questo è implicito e risaputo, nessuno pone mai la domanda.
    Il retroterra culturale di Linda Pionca, come si vede, le consente di avere una freccia in più al suo arco, anche per parare situazioni divenute improvvisamente insostenibili, ma non imbarazzanti.
    Allora abbassa le palpebre al morta, preme di nuovo sullo stomaco, la morta dice solamente “Ohi!” e gira la testa di lato. Lei le sfila il cuscino, il certificato di morte è già scritto – così ragiona in un attimo in tutta calma – le riporta il viso verso l'alto, le pone il cuscino dritto in faccia e le si stende con tutto il peso sul petto. Come previsto, nessuna reazione. Controlla l'orologio, tre minuti sono sufficienti.
    Rimette a posto il cuscino, le pettina i capelli con le dita, l'accarezza la guancia col dorso della mano. Ciao, bella!, la saluta. Gira di spalle, stacca il foglio dal taccuino, risistema lo stesso e lo stetoscopio in borsa ed esce dalla camera.
    – A che ora è morta? Pressapoco… – chiede il maresciallo Lampis.
    – Accidenti, spegnete quella stufa, altrimenti non si raffredda e continua a sembrare viva.
    – Certo che fa impressione! – mormora don Peppino Trogu a mani giunte.
    – A lei forse! – ribatte spavalda Linda Pionca, sbandierando per aria il certificato, a chi lo prende fra i due – Addio.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. (mi sono accorto solo ora che manca l’inizio dell’episodio che porta a Cagliari dal notaio. Rimedio subito)
      Passa una settimana dal giorno dell’addio ad Erica, quando a Don Peppino arriva una lettera da Cagliari, legge l’indirizzo. La apre con un fremito in corpo Don Peppino, quella busta sigillata, dentro un foglio di carta pergamenata, roba sopraffina, d’alto rango e d’altri tempi, dove fronzoli serpentiformi alcuni, a mo’ d’edera altri, s’arrampicano l’un sull’altro in gara a chi più goffa e pesante costruisce il nome Ildebrando Borsetti Notaro in Cagliari. Subito nella mente di Don Peppino si fa strada una certa idea ed un profumo di elicriso pervade la memoria. Apre il foglio piegato in tre e legge: Colla presente io sottoscritto Dottor Ildebrando Borsetti, notaro in Cagliari, avendo colà ricevuto dalla ormai dipartita Signora Scano Erica le proprie disposizioni testamentarie, invito la Signoria Vostra Illustrissima a voler proferir parole verso ognun delli vostri concittadini di sesso maschile di certa leva, che Ella sa, al ché vogliano assistere, ella compreso, all’apertura del testamento quivi detenuto nel mio studio notarile. Il rito sarà celebrato il giorno 15 del mese entrante nella casa notarile medesima.
      Don Peppino, suda freddo a quel “ella compreso”, tant’è che si deve sedere nel primo scranno che trova in canonica. Accigliato cerca risposte a quell’invito globale, e man mano che quelle sopraggiungono, si sente sempre più agitato. Pensa: “Perché ha convocato pure me, che c’entro io?” … “Beh, certo che c’entro!”, pensa l’altro Lui. “Potrei stracciare la lettera e far finta di nulla!…No, tanto quello, il notaio tornerebbe alla carica, magari inviando la lettera in caserma e il Maresciallo, ligio com’è al dovere… no, no, no, è meglio che parli con tutti quelli di “certa leva”, mannaggia a me e al giorno che….!”
      Don Peppino chiama il sacrestano “Giacomino vieni a confessarti!”. Giacomino capisce, butta gli occhi al cielo e si porta al confessionale. Don Peppino spiega al sacrestano l’accaduto e quel che deve fare. Giacomino, finita la “confessione” si fa il segno della croce e si allontana, passa in sacrestia, entra in casa, dove abita con Don Peppino, s’infila la giacca ed esce in piazza.
      Un’ora dopo, si presenta in chiesa il primo cittadino, o meglio l’ex Primo cittadino, che grigio in volto si avvicina al confessionale. Mezz’ora dopo arriva un secondo cittadino, che viene intrattenuto da Giacomino con qualche scusa alla porta magna socchiusa. Evidentemente chi altri dov’esse passar di lì, vendendo Giacomino in compagnia tirerebbe dritto. Per tanto a ritmo di mezz’ora arriva un terzo, un quarto e così via per tutta la sera, fino al tramonto, quando arriva Antonicu il contadino, quello che lavora dall’alba al calar del sole e che Giacomino aspettatolo all’ingresso del paese, lo informa del da farsi.
      Il giorno dopo in paese aleggia una certa aria pesante, quelli di una “certa leva”, sono tutti nervosi e non si sa perché, visto che nulla in paese é successo da destare tal conseguenza. Ognuno di quella “tal leva” cerca, come Don Peppino il giorno prima, risposte a certi dubbi che possano tappar la bocca a chicchessia su una certa somiglianza tra certe persone ed altre e ad ognuno di loro vengono in mente i propri figli e le figlie di Erica Spano. Qualcuno pensa “Fortuna che le figlie di Erica hanno i cappelli nerissimi come quelli che lei aveva, i miei figli sono castani e Carletto li ha addirittura ricci.” Altri pensano al taglio e colore degli occhi. Altri ancora alla statura sua e dei propri figli che, d’altezza di bottiglia son tappo. Cert’altri addirittura paragonano, sbirciando le mani delle due ragazze, l’unghie, se possano somigliar alle proprie e quelle dei figli suoi.

      Elimina
  5. Arriva infine il giorno del raduno in Cagliari. Tutti si presentano, Don Peppino compreso, la qual cosa da patente di normalità agli occhi delle mogli e madri che in paese rimangono, adducendo quest’ultimo (peccando grandemente agli occhi del Signore), una non meglio precisata convocazione del Vescovo di Cagliari, per un’altrettanta non meglio precisata questione di carattere ecumenico che il Vescovo ha indetto per capi famiglia presenti e futuri. Bah!
    La comitiva, sale sull’autobus noleggiato per l’occasione, nessuno apre bocca durante il viaggio, non si sa mai, l’autista potrebbe avere orecchio fino e lingua lunga. Arrivati a Cagliari, tutti scendono, senza prestar ognuno ai fatti dell’altro. Arrivati all’indirizzo dello studio notarile, i riuniti entrano nell’enorme anticamera dello studio del Dottor Ildebrando Borsetti notaro. Qualcuno pensa in verità che egli si chiami in effetti così, tant’è che chiede alla segretaria “Il Dottor Notaro è già arrivato?” Tanto che Don Peppino a tal sproposito rifila un micidiale calcio agli stinchi dello sprovveduto. “Ma che ho detto?!” Replica quello dolorante.
    Cinque minuti dopo, un ritmare di tacchi a spillo annuncia l’ingresso in pompa magna della segretaria ufficiale (Non perché ella sia la più alta in grado, me perché le altre sono assunte in nero), che manco avesse un megafono strilla: “Il Dottor Ildebrando Borsetti è lieto di ricevere le vostre gentilissime signorie nella sua casa notarile e v’invita ad accomodarvi nella sala dei rogiti!” La maggior parte degli astanti non ha capito una sola parola di quello che la segretaria ha proferito, tant’è che Don Peppino trascina Giacomino per il bavero dicendo “Ha detto di entrare nello studio del notaio.” La mandria entra nella sala dei rogiti; dietro la scrivania di radica di noce nessuno si intravede, tant’è che Reginaldo il meccanico pensa “Dev’essere un nano”. Due secondi dopo, anticipata dai tacchi a spillo, l’Ufficiale esulta: “Entra il Dottor Ilbebrando Borsetti notaro” e manco fosse giudice di tribunale, tutti gli astanti ammutoliscono, qualcuno con reminiscenze militari scatta sull’attenti, ad altri tremano le ginocchia.
    Il notaio Ilebrando Borsetti è un canuto vecchietto che, se non fosse per la pompa magna, sarebbe un perfetto pensionato ad uso: trastullo nipoti al parco. L’uomo guarda tutti, fa un sorriso di compiacenza e con le due braccia protese in avanti, fa su e giù con le mani. Tutti si girano a cerca sedie e alla fine tutti stanno in piedi.
    Il notaio siede e presa una cartella, la apre, rompe il sigillo di una grossa busta lì infilata ed estratto il contenuto inizia a leggere “Il giorno ventuno del mese di giugno…
    … Lascio alle mie due figlie, assieme alla casa, quei pochi beni terreni che in vita il mio lavoro mi ha concesso, bastante al loro studio presso le suore Orsoline, ma non bastante ad altro bisogno. Lascio a tutti coloro qui presenti, che sentiranno quanto scritto e letto dal notaro, l’impegno di vigilare sulle mie due figlie, che auspico debbano maritarsi e a tal ragione informo loro, chi potrà ad esse unirsi in matrimonio, della qual cosa nessuno possa aver dubbi di sorta.” Al che il notaio elenca alcune famiglie che tutti in paese naturalmente conoscono; ed ognuno degli astanti guardandosi attorno pensa “Dove sono Matteo, Giuseppino e Gavino?!” Don Peppino, lungimirante, per non sollevare sospetti in paese, a suo tempo disse a Giuseppino, Matteo e Gavino, che si presentarono pur’essi al confessionale, di andar pur loro a Cagliari il giorno convenuto, convincendoli a ciò paventando loro gran peccato nei confronti del paese, che avrebbe per loro colpa fatto la fine di Sodomia e Gomorra, se si fosse saputo del fattaccio nel circondario. Al che i tre timorosi di Dio, accettarono ad andar pur loro a Cagliari il giorno convenuto a bighellonar per i vicoli di Castello.

    RispondiElimina
  6. Tornando all’oggi: Davanti al notaio gli astanti si guardano l’un l’altro, e scoppiando in una sonora risata e urla di gioia, si abbracciano saltellando come bambini. Il pericolo è scampato, il segreto rimane celato ed ognuno di essi potrà guardar quelle fanciulle come le proprie figlie, da dare in sposa a dei bravi ragazzi senza che ciò possa cagionare peccato, e quell’altro peccato che essi fecero nei confronti delle proprie famiglie, Erica Spano, di fatto lo rimette loro in un ultimo slancio d’amore per le proprie figlie.
    Il sole inizia a calare quando il pullman si ferma in piazza. Tutti scendono gioiosi e scherzanti, i più seri sono “i tre perditempo nei vicoli di castello”, che scesi dalla corriera si avviano di proprio conto ognuno per la loro casa. Gli altri festeggianti vanno al bar tirandosi dietro Don Peppino, benché egli voglia andare a dir messa “No, non posso devo rispettare il mio ufficio religioso!” In effetti le comari sono lì, davanti alla chiesa ancora chiusa e sbuffando aspettano impazienti, al che Don Peppino esclama “Giacomino, apri la chiesa arrivo subito”. Giacomino, un po’ contrariato per quella mancata bevuta “a gratis”, da un calcio ad un ciottolo e s’incammina.
    Entrati al bar l’ex primo cittadino chiede agli astanti “Cosa beviamo?!” Al che Don Peppino esclama “Io veramente non bevo,devo dir messa…” “Oggi Don Peppino la vernaccia la beve prima… vernaccia per tutti!”
    Nel frattempo tra un sorso e l’altro Don Peppino rimugina sul da farsi e soprattutto sul “da dirsi” al momento della predica domenicale, perché le comari, saranno bigotte, ma non stupide.
    Arriva “finalmente” la domenica, almeno per le comari e le mogli e le madri di mariti e figli “di certa leva”. Don Peppino, inizia l’omelia partendo da lontano, ricorrendo, manco farlo apposta, il trigesimo della dipartita di Erica Spano. Sorvola leggermente sul suo passato di peccatrice (ma chi è senza peccato?!), per poi mirare il discorso sulle due giovani orfanelle, sole ed inesperte, affidate si, alle amorevoli cure delle suore Orsoline, ma che al compimento dell’ultimo anno minorile sarebbero state catapultate nel viver civile. In ragion di ciò, facendo affidamento sulla bontà dei propri concittadini pensa bene Don Peppino, di chieder quel poco che quelli possano offrire del loro “di più” per sostenere la canonica che si farà carico di aiutare le povere orfanelle, battendo sul tasto novotestamentario che auspica la remissione dei peccati, di non fare agli altri quel che non vuoi sia fatto a te stesso, la bontà del Signore che già da un bel pezzo ha perdonato i peccati di Erica Spano etc. etc. Inciampando ogni tanto Don Peppino, in declinazioni al femminile nel suo discorso, tant’è che alcune mogli pare aver mangiato la foglia, per le occhiatacce rivolte ai rispettivi mariti; tornando però in carreggiata nel lanciare dardi misericordiosi verso quei poveretti, ormai con le mutande in mano “… e voli lavoratori, aiuterete le vostre mogli risparmiatrici, lavorando quel che basti ad onorare l’impegno di elargir elemosina settimanale a questa povera canonica.”
    Finita l’omelia Don Peppino completa il suo ufficio religioso licenziando gli astanti con la solita formula rimaneggiata per l’occasione “La messa è finita, andate in pace… pensando a quel che vi ho detto.” Alla qual formula i partecipanti non poterono esimersi dal rispondere, benché i modo automatico “Amen!”

    RispondiElimina
  7. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina
  8. Don Peppino Trogu siede in un angolo della cucina, vicino al caminetto col fuoco spento, e non ha alcuna voglia di accenderlo, sebbene basti infilare il fiammifero acceso sotto il letto di erba secca e foglie che sua sorella ha preparato sin dalla prima mattina.
    E sì, sua sorella, Elvira Trogu, gli fa da perpetua: a lui ha dedicato la sua vita, immolando sull'altare della devozione per il fratello prete ogni altra sua aspirazione. Sulla soglia dei cinquanta, è ancora bella e non le sono mancate, negli anni, incoraggianti proposte di matrimonio, qualcuna delle quali pervenutale per il tramite il fratello medesimo il quale, per la verità, non ha mai mancto di prospettarle i molti lati positivi del matrimonio, compresa la maternità e l'allevamento dei bambini, ai quali Elvira è appassionata sin dalla più tenera età.
    Era questo che diceva e ripeteva la loro madre, Emerenziana Farci, le sia gloria in cielo, dato che Elvira, di cinque anni più anziana del fratello, è stata una vera tata per suo fratello, in quanto la madre fu costretta a lasciar casa per andare al lavoro, in conseguenza della morte del marito Giuseppe Trogu, loro padre. Giuseppe Trogu, che morì per incidente stradale sei mesi prima della nascita del figlio, non ebbe la sorte di vederlo, ma gli lasciò in eredità, insieme al cognome, anche il nome, solamente vezzeggiato come usa per i bambini.
    Don Peppino è ancora contrariato per la discussione avuta con Elvira prima di pranzo, allorché la sorella, accennando alla sfortuna della loro cugina, morta non si sa esattamente per quale causa, ma certamente per mano de Signore, aveva aggiunto con un tono che non è sembrato pieno solamente di rassegnazione alla volontà di Dio, ma abbinato a un sottofondo di giustizialismo che implicitamente può significare che, in fondo, se l'era meritata pur una morte così, a causa del tipo di vita che andava conducendo da sempre.
    – Ti vuoi ergere tu, santa vergine Elvira, a giudice delle figlie di Dio? - le ha sibilato don Peppino, poco incline alla santificazione delle mormorazioni.
    – Non ho detto nulla che possa assomigliare alle tue insinuazioni e non ho inteso dire cose che non ho mai pensato! - ha ribattuto la sorella, colta di sorpresa dalla reazione del fratello, francamente apparsale abbastanza spropositata.
    – Bene, sorella: se sei senza peccato, scaglia pure la prima pietra! - ha chiuso la disputa il prete, preoccupato che le figlie di Erica Scano, arrivate per il funerale della madre e alloggiate in casa loro perché sono i parenti più prossimi oltre che quelli di riferimento, sentano qualche tratto della discussione e fiutino pure l'argomento della diatriba.
    Ora don Peppino si sente svuotato, fisicamente e moralmente, dagli ultimi avvenimenti. Né gli hanno sollevato il morale le visite a casa di alcuni parrocchiani e di parecchie fra le parrocchiane, che si sono presentati a casa a rilasciare una testimonianza di partecipazione al dolore, a lui, alla sorella e alle due figlie di Erica Scano. Gli è sembrato di leggere, non nelle parole, ma nei toni velati e nella luce degli occhi di alcune di quelle donne un senso di liberazione, se non proprio di soddisfazione per la dipartita di Erica Scano che, con tutte le sue manchevolezze, valeva più di una piazza del mercato gremita delle sue compaesane. Una donna, Erica Scano, che era meglio di tutte queste messe insieme. Certo, gli uomini sono stati più prudenti, di poche parole di fronte alle loro donne di casa, ma senz'altro anche più sinceri, sia chi l'ha conosciuta più direttamente, sia chi la conosceva solamente per sentito dire.

    RispondiElimina
  9. Una di quelle donne, ora il prete rumina a una a una le parole ascoltate, pareva essersi presentata soprattutto per dare contezza delle sue passioni: è svenuta scendendo le scale che dalla camera portano al tinello, battendo la testa contro l'armadio.
    L'hanno portata dal medico di turno quando ormai era tornata pienamente in sé e mostrava solamente un bernoccolo che non era certo quello dell'intelligenza. Ha raccontato che, mentre aspettavano per entrare per la visita, nella piccola sala d'attesa dell'ambulatorio pubblico le si è presentato un gattone tigrato, giallo e bianco, che le si è strusciato contro i polpacci, finendo per morderla proprio nel tallone. A parte l'astrusità della faccenda con la circostanza e col proposito della visita, la signora Bice, così si chiama, tira giù tutta la calza della gamba sinistra per mostrare due feritine già nascoste da un cerotto che poi ha fatto fatica a riattaccare. “Dio mio, quanta pazienza con queste mezze anime!” suole dire don Peppino, questa volta limitandosi a pensarlo solamente. “Poteva quel gatto, visto che c'era, …”
    – Dio mio, il gatto! - esclama il prete, alzandosi in piedi – Elvira, hai per caso visto o sentito il gatto in casa di Erica?
    – No! E infatti mi chiedevo dove sia …
    – La dottoressa! -– dice a fior di labbra don Peppino – Possibile che se lo sia preso la dottoressa quando è venuta per il certificato di morte? Devo chiedere al maresciallo! - conclude, dandosi il compito da fare subito.

    RispondiElimina
  10. Giacomino entra in sacrestia “don Peppino, la cassetta delle elemosine è buia” don Peppino si volta e risponde “Sarà che siamo quasi all’equinozio?!” “No, Don Peppino, a mezzogiorno la luce è sempre entrata nella cassetta” Risponde Giacomino “E’ da un po’ di tempo prima che morisse Erica che la cassetta è buia”. Don Peppino entra in chiesa, si fa dare le chiavi della cassetta, guarda dall’alto la larga fessura dalla quale introdurre le elemosine, apre la cassetta, infila una mano dentro, c’è qualcosa incastrato, tira strappando, una busta sigillata. La guarda, avvicina il viso a quel plico, un lieve profumo di elicriso turba il suo olfatto. Senza proferir parola velocemente corre via, lasciando Giacomino a bocca aperta, interdetto.
    Entra in casa, in camera da letto, dove sa che Giacomino non lo disturba mai, il cuore in gola, apre con le mani tremanti quella busta… un foglio piegato in quattro, lo dispiega, la grafia elementare di Erica lo fa sobbalzare, la conosce benissimo quella scrittura… legge “ Caro Peppino, ho bisogno di parlarti ma, non in confessione e non potendo entrare in chiesa a sentir messa per la ragione che sai, ti scrivo, mi è difficile farlo, avrai pazienza se non lo faccio come te. L’altro giorno è venuto da me il farmacista, voleva sapere se le bambine, o almeno una delle due, erano le sue. L’ho mandato a quel paese dicendogli che non lo avrebbe mai saputo. Mi ha minacciato, mi ha detto che avrebbe ucciso me e le bambine. Non lo so, gli ho detto alla fine, ma non preoccuparti nessuno saprà mai chi è il padre delle mie figlie, fidati. Lui mi ha risposto, mi fido solo di me e delle mie medicine; poi è andato via sbattendo la porta. Ho paura Peppino, aiutami. Erica”
    Due grosse lacrime cadono giù come macigni su quel foglio che profuma di elicriso. “Maledizione!” Esclama Don Peppino in cuor suo, poi si fa il segno della croce e chiede perdono.
    Non sa che fare Don Peppino, vorrebbe andare dal farmacista e costringerlo a costituirsi, ma poi ripensandoci si domanda “Perché dovrebbe costituirsi, che prove ci sono! Solo la lettera di Erica, poi se veramente è stato lui ad ucciderla, potrebbe farlo pure con me… poco male, ma rimarrebbe impunito. No devo andare dai Carabinieri, denunciare l’accaduto e chi s’è visto s’è visto… no, metterei in subbuglio tutto il paese e se non si riesce ad appurare che è stato veramente lui, quelli indagano e salta fuori tutta la questione dei “padri” delle orfanelle, sai che casino salta fuori” Si fa nuovamente il segno della croce “Le famiglie, quasi tutte si disgregherebbero in un attimo. No, devo trovare un altro modo”.
    Don Peppino quella notte la trascorre pensando, gli occhi rivolti al crocifisso, sperando in un segno, poi verso l’alba si assopisce.
    “Don Peppino, è ora di cantar messa” Lo sveglia Giacomino. Gli occhi gonfi, la lingua impastata, alza lo sguardo al crocifisso “Chiedo perdono e dispensa o mio Signore, ma stamani non dirò messa.”
    Si alza dal letto, i piedi scalzi, prende in mano la lettera, la rilegge “Caro Peppino, ho bisogno di parlarti ma non in confessione, e non potendo entrare in chiesa a sentir messa per la ragione che sai, ti scrivo, mi è difficile farlo, avrai pazienza se non lo faccio come te. L’altro giorno è venuto da me il…” Non riesce a proseguire, la parola “farmacista” non si leggere, una lacrima il giorno prima ha colpito il foglio bagnandola, diluendo l’inchiostro e trasformandola in uno scarabocchio incomprensibile. “Ecco il segno. Gesù ti ringrazio!” Esulta Don Peppino, facendosi il segno della croce. Senza quella parola la lettera di Erica allarga la cerchia dei sospettati, al medico condotto in pensione e al veterinario, ma né l’uno, né l’altro hanno famiglia e una volta scagionati non dovranno rendere conto a nessuno, tutti gli altri non saranno presi in considerazione. “E’ fatta! Vado dai Carabinieri.”

    RispondiElimina
  11. E’ un fulmine nel vestirsi Don Peppino, come mai aveva fatto, lui che deve dispensare pacatezza e buon esempio. Ma oggi non era il caso di stare calmi, ci sarebbero state tantissime altre occasioni per esserlo, dopo.
    “Devo parlare col Maresciallo… è importante, molto importante!” Dice Don Peppino al carabiniere di guardia “Prego si accomodi, lo chiamo subito” Risponde quello.
    Cinque secondi dopo si presenta il Maresciallo Lampis, Benito Lamapis: reminiscenze paterne di un tempo che fu. “Don Peppino, qual buon vento!” Don Peppino estrae la lettera da sotto la tonaca “Legga!” Quello lo guarda negli occhi, ha intuito, estrae il foglio dalla busta e legge, poi fa una smorfia, continua a leggere. “E’ una denuncia bella e buona di una persona che si sente minacciata. Peccato che non si riesca a leggere questa parola, e tutta macchiata, ma che è successo?” Don Peppino per un attimo si sente a disagio non sa che rispondere, non può di certo dire al Maresciallo che l’ha macchiata lui la lettera con le lacrime, perché comunque sia l’ha letta e quello mica è stupido. “Mah, forse Erica piangeva mentre scriveva e non si è accorta di aver bagnato il foglio.” “Mhm, può essere” Disse il Maresciallo. “Comunque ci sono degli indizi… ma venga andiamo nel mio ufficio, prego. Le dicevo che comunque ci sono degli indizi nel testo, che restringono la cerchia di possibili assassini, se di assassinio possiamo parlare, a due, tre persone al massimo, se rimaniamo in paese, naturalmente. Il medico condotto, ex medico condotto, il farmacista e il veterinario. Chiederò al Procuratore di aprire le indagini per presunto omicidio. La ringrazio e… le farò sapere.”
    Don Peppino si sente più leggero benché il rimorso di non aver letto in tempo la lettera, lo divori “Avrei potuto salvarla, avrei messo alle strette quel delinquente, gli avrei fatto capire che sapevo e non da una confessione. Ma ora è tutto inutile, devo pensare a difendere la memoria di Erica, proteggere le bambine e la mia comunità.”

    RispondiElimina