sabato 20 settembre 2025

Una recensione post mortem

 



DANILO SCINTU

LA MISURA DELLE OMBRE

L'unità di misura e il significato delle forme nell'architettura

e nell'arte ipogeica e megalitica del periodo Neolitico

2023 - PTM Editrice


UNA RECENSIONE

di Sandro Angei

La scomparsa di uno studioso incute rispetto nell'animo di chi lo ha conosciuto e letto i suoi studi. Sono stati sporadici momenti quelli di reale dialogo personale tra lui e me. E benché condividessi ben poche idee da lui abbracciate, lo stimavo per la sua viva passione nella ricerca.

Oggi mi trovo ad assolvere un compito psicologicamente non facile, ma che ritengo necessario. La ricerca e lo studio, talvolta crudeli nei confronti dell’animo umano, impongono rigore. E benché si debba trattare del pensiero di una persona recentemente scomparsa, la scienza impone di discernere le pene interiori che accompagnano questo incarico da ciò che la verità richiede.

Per tanto mi accingo a esaminare l'ultimo libro di Danilo Scintu, con tristezza per il vuoto lasciato, il gran timore di dover obiettare, ma conscio di cercare la verità.

Le teorie che tutti gli studiosi espongono devono passare, prima o poi, al vaglio critico della scienza. Il tempo non modifica questo stato di cose, tant'è che teorie che hanno resistito per anni o decenni, per non dire secoli, sono state confutate, lì dove la verità è emersa alla luce di nuovi studi o semplici deduzioni. Dalla pubblicazione del libro di D. Scintu sono passati pochissimi anni (finito di stampare a dicembre 2023) e quando in una occasione conviviale ebbi modo di incontrarlo a casa di un amico comune, alla mia richiesta di chiarimenti circa il titolo del libro mi rispose: leggilo. Fu l'ultima volta che lo vidi.

Non ho titoli accademici, ma ho ricevuto la richiesta di esaminare questo libro da una persona a me cara. L'ho farò con rispetto, cercando di offrire uno sguardo tecnico e sincero, senza pretese di autorità.

Esame dei capitoli.

Il libro, pur affrontato con sincera partecipazione emotiva, presenta tratti di superficialità in alcune sezioni. Divaga nell'imponderabile in altre. L'autore asserisce ma non mette alla prova le sue conclusioni - orientate più a evidenziare lo stile del dato1 piuttosto che il rigore metodologico.

Iniziamo dal 2° Capitolo

L'unità di misura

L'ipotesi dello studioso circa l'esistenza in periodo neolitico di una unità di misura della lunghezza non è nuova - come lui stesso asserisce - già altri studiosi hanno tentato di attribuire una specifica unità di misura a popolazioni di quel periodo.

La novità - intrigate e originale - sarebbe la suddivisione in sottomultipli della unità di misura che lui scopre nelle Domus de janas (d'ora in poi Ddj).

Lo studioso suddivide la iarda o stiba (sic!) in 14 sottomultipli, ciascuno corrispondente ad una frazione di iarda in progressione armonica: da 1/2 per il cubito fino a 1/12 per la misura di quattro dita. Aggiunge inoltre la frazione di 1/16 (tre dita), 1/24 (due dita), 1/36 (un pollice).

Questa suddivisione così estrema fa sorgere il dubbio che fosse davvero necessario avere un’unità di misura tanto precisa. Tant'è che tra quattro dita e dito indice, ad esempio, vi è uno scarto di soli 0.63 cm, poco più di mezzo centimetro (si veda la tabella A sotto riportata).

Tabella A

La suddivisione appare a prima vista del tutto speculativa; sembra mirata ad assegnare una misura reale ad un rapporto frazionario anche quando il sottomultiplo risulta banalmente irrilevante.

Nella Tabella A si possono osservare gli scarti tra una unità di misura e quella precedente o quella successiva, alcuni dei quali risultano del tutto tracurabili.2

Risulta pertanto infondata la definizione di medio maggiorato, di dito medio, dito indice quali unità autonome utilizzabili nella misurazione.3

In sintesi, si ha la percezione che alcune unità di misura servano solo a colmare dei vuoti nella tabella delle frazioni di iarda.4

Inoltre risulta del tutto inutile l'introduzione di: due dita, tre dita e quattro dita, essendo queste riferibili tutte a multipli di 1.73 cm (quattro dita pari a 6.9 cm diviso 4 = 1.73 cm. Tre dita pari a 5.2 cm diviso 3 = 1.73 cm. Due dita pari a 3.5 cm diviso 2 = 1.73 cm).

In ragione di queste considerazioni le unità di misura che abbia senso conservare sono solo 5: cubito, piede, spanna, mano* o, in alternativa, la mano maggiorata* e pollice.

* riferita alla classificazione Scintu

Lo studioso ha comunque evidenziato che alcune di queste misure siano utili a definire le dimensioni della piccola statuaria raffigurante la dea steatopigia neolitica (pag. 30).

In ragione di ciò possiamo scindere in due sottogruppi le misure proposte dall'Autore, assegnando quelle della Tab. A1 in funzione delle Ddj, quelle della Tab. A2 in funzione della piccola statuaria.

Si tratta di un mero esercizio interpretativo, volto alla ricerca del principio che potrebbe aver guidato quelle antiche popolazioni sarde nell’individuazione di un sistema di misura efficace e funzionale, o se, al contrario, non sia una semplice interpretazione dello studioso.5 Benché il sottoscritto sia dell'avviso che se unità di misura fu utilizzata nella Sardegna neolitica, difficilmente rientrava in quei rigidi canoni matematici espressi nell'ipotesi di lavoro di Scintu (ne parleremo più avanti).

Per ora vediamo nei particolari le due tabelle:

Tabella A1

Nella Tabella A1 si osserva una sostanziale riduzione dello scarto tra una misura e la successiva, soprattutto nell’ultima sezione compresa tra 1/16 e 1/36 di iarda, dove le misure risultano inferiori alla soglia minima del pollice, pari a 2,3 cm. Inoltre, si nota una sorta di duplicazione relativa alla spanna, individuabile sia nel palmo maggiorato che nel palmo semplice, poiché entrambi derivano dal medesimo gesto di misurazione (si vedano figure a pag. 29 del testo). Questa sovrapposizione solleva dubbi sull’effettiva necessità di distinguere fra le tre unità, considerando la loro origine gestuale comune.


Tabella A2

relativa ali sottomultipli di iarda per il confezionamento della piccola statuaria


Nella Tabella A2 si rileva, anche in questo caso, una sorta di duplicazione delle misure comprese tra 1/7 e 1/11 di iarda.

Come anticipato, le unità effettivamente adottabili sarebbero: cubito, piede, spanna, mano o, in alternativa, la mano maggiorata e infine il pollice.

L’utilizzo pratico del dito indice risulta infatti poco agevole, e ancor meno quello del dito medio, mentre il “medio maggiorato” appare una forzatura.

Il motivo per l'esclusione di gran parte delle unità definite da D. Scintu non è solo di ordine numerico ma anche pratico. Vediamo perché.

La iarda di per se è una unità di misura utilizzabile in pochi contesti.

La si può usare nella misura di stoffe, ad esempio, o cordame; non certo per misurare ambienti, per i quali sarebbe più facile l'utilizzo della doppia iarda, ossia la misura che intercorre tra la punta delle dita medie, con braccia e mani estese in orizzontale. Ma anche in questo caso si potrebbe utilizzare questa particolare unità di misura stando in piedi e aderenti ad una parete da misurare. In altri casi è poco o per nulla utilizzabile.

Possiamo escludere il dito indice, il medio e il medio maggiorato; perché il gesto misuratorio è poco preciso; non sarebbe possibile una misurazione per così dire “per contiguità”, come invece è possibile nella misura del piede (un piede dopo l'altro, col calcagno di un piede che tocca l'alluce dell'altro), della spanna e del palmo e della mano, per gesto simile. Lo stesso principio vale per il pollice. Così come è definita dallo studioso - che individua la lunghezza della falange, anziché la sua larghezza - l'unità di misura è poco precisa. Il pollice è utilizzabile proficuamente se usato in larghezza, per misurazioni singole o multiple, affiancando il destro al sinistro contrapposto, e così via.

Si intuisce però una sorta di refuso a carico dell'immagine pubblicata dallo studioso, nella quale viene indicata la lunghezza della falange, anziché la sua larghezza.

A conferma di ciò, la misurazione effettuata dal sottoscritto sul proprio pollice restituisce una larghezza di circa 2,3 cm, in accordo con quanto riportato dallo studioso. Per contro, la lunghezza della falange del mio pollice è pari a 3.5 cm.6

Queste osservazioni suggeriscono che alcune delle misure proposte possano essere inutilizzabili nel contesto specifico delle Ddj, altre sovrapponibili, e che la selezione delle unità, in antico, potrebbe aver seguito criteri più funzionali che puramente frazionari come ritiene lo studioso.

Tanto da poter pensare che anche altre misure, come ad esempio la mano maggiorata, potrebbe non essere annoverata tra quelle effettivamente utilizzate in età neolitica. Riesaminando la tabella A, questa unità di misura potrebbe rientrare tra le misure della mano; essendoci tra le due un divario di soli 1.2 cm.

La regola matematica a tutti i costi

Il sentore del modo di procedere dello studioso, sfociato nella individuazione di sottomultipli di iarda in progressione armonica delle frazioni, lo si intuisce già quando lo studioso asserisce in prima battuta del secondo capitolo che: “L'essere umano [...] ha sempre dovuto tener conto delle dimensioni dell'oggetto meglio rispondenti alle necessità, con forme ergonomiche stabilite. Dalle dimensioni del piccone e degli scalpelli sino agli ambienti e ai decori scolpiti al loro interno, tutto era preventivamente dimensionato con precise regole matematiche.

L'affermazione potrebbe trovarmi d'accordo per quanto riguarda gli ambienti e i decori al loro interno; non certo per quanto riguarda la dimensione del piccone e degli scalpelli.

Gli arnesi, piuttosto, erano, come tutt'oggi lo sono, dimensionati in base al fisico e la potenza del loro utilizzatore. Di certo un operaio alto 1.60 m e del peso di 65 kg, a fatica potrà utilizzare una mazza da demolizione o una mazzetta da muratore che un uomo alto 1.90 m e pesante 90 kg maneggia con facilità. D'altro canto l'uomo di stazza maggiore si troverebbe a disagio nell'usare una mazza o una mazzetta troppo leggera7. Per tanto l'utensile non segue leggi matematiche ma è in funzione del soggetto che lo utilizzerà, secondo un concetto ergonomico.

Per lo studioso, invece, la regola matematica sembra estendersi in ogni ambito. Impone la regola laddove le misure rilevate sono riconducibili alla frazione di unità di misura, anche se tra queste vi siano minimi scarti. Creando così sottomultipli ad hoc. E all'interno di questi, ma in modo inconscio presumo, altri sottomultipli: quattro dita, tre dita, due dita (tutti multipli di 1.73 cm) come abbiamo avuto modo di mettere in evidenza sopra.

L'ipotesi avanzata, inoltre, presume il confezionamento di misure campione: 14 per l'esattezza.

È utile ricordare che solo in periodi relativamente recenti si è addivenuti alla standardizzazione delle unità di misura. Lo studioso, tuttavia, avanza l'ipotesi che una prima forma di standardizzazione sia avvenuta proprio nel neolitico.

Se così fosse, quel sistema si sarebbe poi perduto nei secoli e nei millenni, dato che anche in età romana la standardizzazione non aveva la precisione che ci si potrebbe aspettare. Basti pensare alla misurazione delle distanze in passus - la doppia falcata - pari a 1.48 m. Sebbene derivasse dall'addestramento del legionario romano alla marcia regolare, non poteva garantire una precisione come quella che oggi attribuiamo alle misure metriche.

La falcata era influenzata da vari fattori: la lunghezza delle gambe del legionario, giacitura del terreno (in piano, in salita o in discesa), condizioni del suolo (asciutto o fangoso), che inevitabilmente ne alteravano l'ampiezza.

Anche in tempi più recenti — e vi sono ancora anziani agricoltori che lo ricordano — le vigne venivano impiantate e assestate “a passi”. E benché il passo fosse ben calibrato, rimaneva pur sempre un passo personale.

Per questo motivo, mi riesce difficile immaginare che in età neolitica si fosse giunti a una standardizzazione così precisa ed efficace. Tuttavia, nulla può essere escluso con certezza. Perciò, “facciamo finta che” questa standardizzazione sia effettivamente esistita in epoca neolitica, e proseguiamo nella nostra esposizione.

Liberando il campo da questo affastellamento di sottomultipli matematici, e di conseguenti arnesi per misurare (o una complicata barra misuratrice densa di tacche), è più plausibile (ma siamo ancora nel campo delle ipotesi) che le unità di misura adottate fossero solo alcune di quelle individuate dallo studioso, ossia: cubito, piede, spanna, pollice.

Mi spingo ancora oltre, però, ipotizzando che le misure adottate fossero basate su riferimenti personali o corporei, piuttosto che su sistemi metrici astratti e universalmente condivisi. Il singolo individuo misurava le distanze in cubiti, piedi, spanne, pollici, utilizzando il proprio avambraccio, il proprio piede, la propria spanna, il proprio pollice - misure ad personam - quindi. Da questo fatto nascerebbe la diversità di cubiti, spanne, mano etc., fraintese dallo studioso per unità specifiche.

Eliminiamo le unità ridondanti. Stabiliamo un metodo

Abbiamo individuato alcune delle unità di misura effettivamente utilizzabili: il cubito, il piede, la spanna e il pollice, come già detto.

E se fosse vero che le misure utilizzate fossero quelle ad personam, ognuna di queste unità si presume non fosse usata casualmente, ma fosse impiegata in funzione del tipo di misurazione da effettuare.

Immaginiamo una persona che utilizzi il proprio corpo per misurare: la vedremo misurare con la iarda solo manufatti di una certa tipologia (cordame, ad esempio), farebbe uso della doppia iarda (perché insita nel proprio corpo) per misurare parti rigide poste all’altezza del torace come, ad esempio, una parete, dove poter puntare l'estremo del dito medio. Non certo la distanza tra due alberi o un pavimento, per evidenti motivi pratici.

Per misure a terra, potrebbe ricorrere al cubito. Al passo per misurazioni rapide su lunghe distanze, (unità non contemplata dallo studioso per evidenti ragioni intrinseche al tema trattato). Per distanze medie userebbe il piede. Per quelle brevi la spanna. Il palmo o le quattro dita sarebbero impiegati in contesti dove la sequenza di misurazione e la lunghezza da rilevare non sono eccessive. Infine, il pollice troverebbe impiego nelle misurazioni più fini e dettagliate.

Questa logica, basata sull’ergonomia e sull’efficienza, suggerisce che le unità di misura corporee siano profondamente legate alla funzionalità e alla gestualità quotidiana.

L'abbaglio

Alla luce delle considerazioni fin qui esposte, e tenendo conto del fatto che lo studioso ha effettuato centinaia di misurazioni, emerge il sospetto che le frazioni di iarda da lui individuate non rappresentino necessariamente sottomultipli funzionali, ma piuttosto misure riferibili alla stessa articolazione — braccio, mano, o parte di essa — di individui diversi.

In quest’ottica, i sottomultipli corrispondenti a 1/5 (palmo maggiorato), 1/7 (dito medio maggiorato), 1/8 (mano maggiorata), 1/10 (dito medio), 1/11 (dito indice), 1/12 (quattro dita), 1/16 (tre dita) e 1/24 (due dita) potrebbero essere conciliabili tra loro se considerati come variazioni antropometriche legate alla diversità fisica dei soggetti che usarono quelle misure.


Questa ipotesi non nega la validità del lavoro svolto dallo studioso, ma suggerisce che la molteplicità delle unità proposte possa derivare più da una variabilità biologica che da una volontà sistematica di suddivisione frazionaria.

Facciamo un esempio concreto.

La mia altezza, guarda il caso, è 1.66 m. La mia iarda è, in effetti, 83 cm, ma le restanti misure, prese secondo il metodo utilizzato da D. Scintu, sono le seguenti:


Tabella B


Si noti la differenza sostanziale nella misura del cubito e del piede.

In ragione di ciò le frazioni di iarda “vanno a farsi benedire”, per così dire. Tuttavia si nota anche uno scarto irrisorio tra le altre unità.

Questo sta a indicare che, man mano che il denominatore frazionario aumenta, le misure tendono a ravvicinarsi, rendendo alcune distinzioni quasi impercettibili.

Ad esempio, la misura della mia mano maggiorata — pari a 10 cm — potrebbe coincidere con quella della “mano” definita da D. Scintu, pari a 9,2 cm. Una differenza di 8 mm che, in termini pratici, rientra nella normale variabilità antropometrica tra soggetti diversi.

Il sospetto viene confrontando lo scarto tra le varie misure rilasciate dallo studioso.

Come già accennato in precedenza, è opportuno ribadire che tra il pollice e le due dita vi è uno scarto di 1.2 cm, e 1.7 cm tra due dita e tre dita. Ma risulta macroscopicamente piccolo tra quattro dita e dito indice, con uno scarto di soli 0.6 cm.

Nella tabella A, che nuovamente riportiamo qui sotto per comodità espositiva, si possono vedere gli scarti, espressi in centimetri tra una misura e la successiva.

Tabella A

La scelta del campione

Lo studioso ha scelto di misurare le componenti del corpo umano odierno utilizzando come riferimento un soggetto proporzionato: un fantino. Ma così facendo, rischia di proiettare su epoche remote un criterio moderno di proporzione, pregiudicando ciò che i nostri progenitori potrebbero aver fatto in modo del tutto diverso. E mi domando: secondo quale canone estetico avrebbero scelto il loro “campione” quelle genti?

L'Autore asserisce che l'altezza media nel neolitico fosse di 166 cm. L'affermazione la si accetta senza remora alcuna, ma non perché il dato sia corretto, ma per il semplice motivo che esso è ininfluente, come dimostreremo tra poco.

Influenza dell'altezza dell'individuo rispetto all'unità di misura

Gli scarti tra le misure dei sottomultipli tra un individuo alto 166 cm e uno di diversa altezza sono minimi. La sottostante tabella C dimostra vero questo dato.

Solo esasperando i dati relativi all'altezza dell'individuo -  scarto di 30 cm d'altezza tra un individuo alto 180 cm e uno alto 150 cm - si nota una macroscopica differenza a carico dell'unità di misura principale - la iarda -; per il cubito e il piede gli scarti sono molto inferiori; per i restanti sottomultipli vanno a scemare.

Tabella C

La lettura dei dati della tabella C dimostra infondata l'ipotesi di una unità di misura volutamente standardizzata. È la natura stessa a standardizzare le misure.
In ragione di questa considerazione ritengo ammissibile che le unità di misura utilizzate nelle singole Ddj siano in funzione delle misure corporee di chi realizzò ciascun ipogeo. In sostanza si tratterebbe di misure ad personammodellate non su uno standard collettivo, ma insite nell’individuo stesso, come già detto.

Questo induce a pensare, anche, che nella stessa Ddj vi siano stati, con buona probabilità, diversi lavoratori, ognuno con le proprie unità di misura.

A questo punto è utile fare un esempio pratico relativo al possibile uso di misure ad personam, secondo il criterio di discrezionalità. Useremo termini e modi di fare moderni.

Il committente la tomba di Serruggiu (Cuglieri) chiede di scavare un'anticella primaria, la cui pianta sia di forma semiovale. Il semiasse maggiore dovrà essere lungo 14 piedi (3.88 m), la parete frontale (asse minore dell'ovale ipotetico) 22 piedi (6.09 m) e l'altezza pari a 15 spanne (3.12 m). Poi chiede ancora di scavare una anticella secondaria delle dimensioni in pianta di 15 piedi (4.15 m) per 26 piedi (7.20 m) alta nella parete di fondo 15 spanne (3.12 m) e nella parete d'ingresso 11 spanne (2.29 m). Poi ancora chiede di scavare la cella di deposizione larga 10 spanne (2.08 m), profonda 7 spanne (1.46 m) e alta 5 spanne (1.04 m).

Perché il committente, o chi per lui, progetta le dimensioni in pianta dell'anticella primaria e di quella secondaria in piedi e la sua altezza in spanne?

Perché la cella di deposizione la misura tutta in spanne, e non usa il piede per le dimensioni in pianta?

Le ragioni sono di carattere funzionale: il piede, utile per misurazioni orizzontali su ampie superfici, si presta bene alla definizione della superficie calpestabile dell'ambiente; la spanna, più adatta a misurazioni verticali o ravvicinate, diventa lo strumento ideale per definire l’altezza o locali angusti.

Nel caso della cella di deposizione, alta poco più di un metro, lo scavatore non può stare in piedi, quindi non può misurare con il piede — né in senso letterale né come unità simbolica. È costretto a piegarsi, inginocchiarsi, o lavorare da seduto, e in quella posizione la spanna diventa la misura più naturale, più ergonomica, più immediata.

Questo prassi apparentemente “banale” è in realtà rivelatrice: ci dice che le unità di misura erano scelte in funzione del corpo in azione, non in base a un sistema astratto. E quindi, ogni ambiente scavato porta con sé le tracce del gesto che lo ha generato.

La confusione

Lo studioso,  eludendo la contestualizzazione (forse, forte del fatto che per lui le misure erano fisse e tangibili), attribuisce unità di misura diverse — spanne per una dimensione, palmi per un’altra — all’interno della stessa pianta del locale da lui indagato (pag. 49). Rimane vincolato alle misure derivate dal campione di 166 cm di altezza e alle rigide frazioni imposte dalla suddivisione della iarda.

Accecato da questo schema, non si avvede che non vi è alcuna necessità di adottare unità diverse per misurare la pianta di uno stesso ambiente. Se avesse considerato l’obiezione (ahimè a posteriori) sull’eccessiva frammentazione frazionaria della iarda, avrebbe compreso che individui di diversa statura — pur con variazioni minime — avrebbero comunque utilizzato unità corporee simili per la stessa tipologia di misurazione.

Anche usando i rigidi rapporti frazionari, lo studioso si sarebbe accorto che la spanna di un individuo alto 166 cm può differire solo di pochi millimetri da quella di un altro alto 170 cm.

Togliamo il vincolo proporzionale

Prendiamo le misure rilasciate dallo studioso a pag. 49 : 186 cm tradotti in 9 spanne da 20,8 cm, e 138 cm tradotti in palmi da 13,8 cm. Se liberiamo la spanna e il palmo dal vincolo proporzionale imposto dal campione rigidamente vincolato al rapporto matematico, possiamo reinterpretare le stesse misure come 8 spanne per 6 spanne da 23,2 cm8. Oppure le stesse misure come 12 palmi per 9 palmi da 15.4 cm. Oppure, ancora, 20 mani per 15 mani da 9.3 cm.

Questo dimostra che, anche in assenza di un sistema standardizzato, la coerenza delle misure di un ambiente poteva essere garantita dall’uso di una sola unità di misura, compatibile con le condizioni operative e con il gesto del lavoratore.

In definitiva, la misura non e da considerare quale valore astratto, ma un’estensione del corpo in azione. E ogni ambiente rifletteva non un sistema, ma una pratica. Non misure in mutuo e rigido rapporto matematico, ma misure ognuna utile allo scopo prefissato.

Quale unità di misura?

L’elaborazione dei dati rilasciati dallo studioso ha spinto il sottoscritto a interrogarsi su quale fosse il metodo da standardizzare più efficace per individuare la reale — o quantomeno ipotetica — unità di misura utilizzata.

D. Scintu imposta il proprio sistema partendo dalla iarda, da cui ricava una serie di sottomultipli.

Ora proveremo, ragionando anche noi in termini matematici, ossia “facendo finta che” vi sia stata una standardizzazione - e per tanto abbandonando per un attimo l'idea di unità di misura ad personam - a ribaltare l'assunto dello studioso, assumendo come unità di riferimento principale il pollice: misura più fine, concreta e direttamente rilevabile. Dall'esperimento emergono subito delle incongruenze nel sistema adottato dallo studioso: molti dei sottomultipli della iarda non corrispondono a multipli interi del pollice.

Questo dato è evidente nella Tabella D, dove alcune misure risultano incompatibili con una suddivisione regolare in pollici. Le discrepanze — evidenziate in rosso su campo giallo — mostrano che il sistema frazionario proposto da D. Scintu non regge alla verifica metrica più elementare.

In altre parole, il sistema costruito a partire dalla iarda appare come una sovrastruttura teorica, non come una derivazione naturale dalle misure corporee. Se invece si parte dal gesto, dal corpo, dal pollice come unità minima, si ottiene una lettura più coerente e funzionale delle misure rilevate.

Questa riflessione apre la strada a una conclusione importante: la misura non nasce dalla frazione, ma dal corpo e dal gesto che la genera.


Tabella D

relativa al pollice


In ragione di quanto esposto, si ritiene che non si dovrebbe utilizzare quale unità di misura principale la iarda, bensì il pollice, il quale ammette tutte le misure che risultano suoi multipli interi.

Al contrario, le misure intermedie proposte come unità di riferimento — derivate dalla suddivisione della iarda — non accettano multipli o sottomultipli interi in modo sistematico, come si evince dalla Tabella E, relativa alla spanna quale unità principale con multipli e sottomultipli e dalla tabella F relativa al palmo.

Tabella E

relativa alla spanna

Tabella F

relativa al palmo


L’analisi condotta dimostra che l’impianto teorico proposto dallo studioso, fondato sulla ipotetica iarda e sulle sue frazioni, risulta metodologicamente fragile. Al contrario l'impianto teorico fondato sull'ipotetico pollice, ammette multipli interi e si radica nel corpo umano, nel gesto, nella postura.

Sta il fatto, comunque, che stiamo navigando nel mare delle ipotesi, che potrebbero non trovare riscontro, né l'una, né l'altra, nella pratica costruttiva come vedremo più avanti.


Misure ad personam
Tornando alla nostra ipotesi di misure ad personam, dall'analisi dei dati e dal ragionamento esplicato, appare chiaro che le unità di misura, se veramente furono utilizzate, non rispondevano a un principio di standardizzazione, ma a una logica situazionale e personale. Ogni scalpellino misurava con il proprio corpo, adattando il gesto alla funzione e allo spazio. La misura non era un numero, ma un’estensione del sé. E ciò che oggi cerchiamo di classificare, forse non era mai stato pensato per essere classificato.

Capitolo 3°

Nel terzo capitolo lo studioso affronta in prima battura il tema relativo alla geometria sacra e scrive: “In Sardegna e nel Mediterraneo intorno, le forme geometriche più antiche, amalgamate con l'architettura delle origini, sono l'ovale o l'ellisse come rappresentato nei primi ipogei ritrovati nella necropoli di Curruru is Arrius a Cabras...” Propone, in sostanza, sia l'una che l'altra figura geometrica quali risultato delle conoscenze geometriche nel lontano neolitico.

La consultazione della pubblicazione dell'archeologa G. Tanda “Le domus de janas decorate con motivi scolpiti” Volume I Ed. Condaghes, restituisce ben diversamente le piante delle Ddj studiate sia dall'archeologa che dall'architetto Scintu. Quelle presentate dalla Tanda risultano morfologicamente più grezze rispetto a quelle presentate dallo Scintu che le realizza con linee perfettamente rettilinee.

Non conosco il metodo di misurazione adottato dalla Dr. Tanda, o di chi per lei, né quello dell'architetto Scintu. Sta il fatto che il sottoscritto si fida solo dei rilievi che esegue in prima persona.9

Per tanto sospendiamo per il momento il discorso e “facciamo finta che” le planimetrie rilasciate dall'Architetto siano quelle reali, perché lo scopo è quello di sfrondare la sua teoria da tutte quelle parti che risultano teoricamente del tutto infondate.

In ragione di ciò possiamo ammettere, ma non concedere, che in età neolitica vi fossero sufficienti conoscenze da consentire la costruzione di una forma complessa come quella dell'ellisse. Ma è necessaria cautela nell'accogliere questa l'ipotesi.

Occorre la dimostrazione. E in questo lo studioso ha peccato di presunzione, a mio avviso, dato che non ha dimostrato la sua ipotesi con un modello geometrico calato sull'oggetto concreto, così come lui lo ha confezionato.

La sua affermazione rischia, in sintesi, di essere smentita dai fatti, ancor prima delle verifiche in situ. Vediamo perché.

Costruzione dell'ellisse

La forma ellittica, in pratica è ben facile da tracciare10: bastano due paletti infissi a terra e una corda più lunga della distanza tra i due paletti. Con un terzo paletto (punteruolo) che scorre libero sulla corda, si traccia la linea curva, l'ellisse appunto.

Vediamo come sia possibile ricavare un vano ellittico asportando il materiale per ricavare  una grotticella come quella di Cuccuru is arrius di Cabras. Naturalmente in questo esercizio non terremo conto di eventuali altri problemi che possano intralciare il metodo proposto, quali lo spazio angusto, anche in altezza, in cui si opera.

Si da inizio allo scavo e si ricava un vano che possa contenere due pioli da infiggere a terra. Si fissano i capi della corda lunga quanto sia necessario quindi, si tenta di tendere la corda solidale al punteruolo in essa scorrevole. Si continua a scavare fin quando la corda non si tende liberamente. Proseguendo in tal modo si riesce a delimitare un vano di forma perfettamente ellittica.

Quindi abbiamo dimostrato che in effetti era possibile per le genti neolitiche (fossero state a conoscenza del sistema) creare siffatto ambiente.

Nasce però un problema dovuto ad ambienti, sempre ipogeici, che non sono ellittici, ma sono proposte dallo studioso come delle semi ellissi: nello specifico le Ddj di Sant'Andrea Priu (Bonorva), quella di Serruggiu (Cuglieri) e quella di Noeddale I (Ossi). In questi tre casi non è possibile realizzare ambienti semiellittici, perché uno dei fuochi della figura geometrica ricade nell'ambiente attiguo11, che benché si possa ipotizzare fosse già scavato o semplicemente abbozzato come l'anticella d'ingresso (ma solo nel caso di Sant'Andrea Priu e di Serruggiu), non avrebbe comunque consentito di tendere la fune per delimitare l'anticella secondo la figura della semi ellisse (si veda la Fig. 1). Il caso di Noeddale I, però, taglia la testa al toro - come si suol dire - perché oltre la parete rettilinea della cosiddetta “semiellisse” vi è solo un “bacino” posto a quota superiore a quella di calpestio della ”cappella votiva” - così la definisce lo studioso.



Fig. 1

Se lungo l'asse minore c-d vi è una parete, benché provvista di ingresso, il tratto F1-P della fune è ostacolato dalla presenza della parete stessa.

Quindi, in questi tre casi dobbiamo necessariamente ricorrere ad altra soluzione, ossia la costruzione di un semi ovale.

La seconda soluzione, però, non è del tutto scontata. È necessario verificare se in effetti si possa definire un ambiente di forma ovale o semi ovale (in questo caso è ininfluente la scelta dell'intera figura o della sua metà), dato che questa figura geometrica soggiace a regole non tanto rigide come quelle che regolano l'ellisse, ma è necessario mettere alla prova la conformazione dell'anticella di Sant'Andrea Priu, di Serruggiu e di Noeddale I per approvarne l'uso.

Le anticelle di Sant'Andrea Priu e di Serruggiu, sarebbero conformate secondo un semi ovale piuttosto schiacciato, ossia i centri dei due semiarchi opposti lungo l'asse maggiore sono piuttosto ravvicinati, quindi l'arco di raccordo tra quei due, è descrivibile da un punto interno posto lungo l'asse minore dell'ovale (si veda la Fig. 2).

Fig. 2

L'immagine è stata ricostruita secondo le specifiche tecniche del disegno di pag 156 del libro. Nella figura è stato sovrapposto il perimetro del semi ovoide (archi neri e blu) a quello dell'ellisse (magenta). Si noti che l'arco C-D ha origine in O2, mentre l'arco B-C ha origine in  O1

Ciò non vale, però per la “cappella votiva” di Noeddale I, per la quale, la costruzione del semiovale richiede il centro dell'arco di congiunzione tra gli altri due archi, fuori dal perimetro della camera, quindi all'interno del corpo roccioso (si veda la Fig. 3).

Fig. 3

L'immagine è stata ricostruita secondo le specifiche tecniche del disegno di pag 139 del libro. Anche in questa figura è stato sovrapposto il perimetro del semi ovoide (archi neri e blu) a quello dell'ellisse (magenta). Si noti che l'arco C-D ha origine in O2, interno al vano, ma  l'arco B-C ha origine in  O1, luogo inaccessibile posto nella viva roccia. 

Pertanto possiamo affermare, con tutta tranquillità (se le planimetrie di D. Scintu sono fedeli alla realtà), che uno degli esempi sconfessa la teoria dell'Autore (Popper insegna). A meno che non vi sia un metodo alternativo. E a tal proposito basterà rilevare in modo preciso uno solo degli ambienti "semiellittici" per verificare vera o falsa l'ipotesi avanzata dallo studioso.

Nel caso in cui il rilievo desse ragione a D. Scintu (e lo spero profondamente), dovrò trovare un sistema capace di ripetere quella forma. Potrei cercarlo a prescindere dalla verifica – si potrà obiettare – ma in tal caso sarebbe un mero esercizio ipotetico, nulla di più.

Le misure

Alla luce di quanto fin qui appurato, passiamo all'analisi dei rilievi eseguiti da D. Scintu.

Ma prima urge una riflessione.

Venisse a mancare il sostegno della costruzione geometrica degli ambienti di forma semi ellissoidica o semiovale, l'ipotesi sull'unità di misura standardizzata perderebbe un importante sostegno. Dato che lo stesso Autore scrive a pag. 35: Se la geometria racchiude in sé i fondamenti delle proporzioni diffuse in tutto il mondo naturale, nella geometria sacra si è sviluppata una particolare tradizione che ha posto l'accento su specifiche relazioni numeriche e proporzioni matematiche, ritenute più gradevoli e apportatrici di emozioni. Queste sono percettibilmente rilevabili nelle forme dinamiche  anziché statiche. Un esempio lo forniscono gli ambienti all'interno degli ipogei a pianta ellittica o semiellittica , nonché gli ambienti di forma trapezia  poiché, rispetto a quella quadrata, rendono possibile una maggiore percezione prospettica dello spazio. 

Ma non è questo assunto dell'Autore che invalida la sua stessa teoria alla luce delle mie deduzioni. Perché ellissi o semiellissi, o se vogliamo: ovali e semiovali potrebbero essere stati realizzati "ad occhio" - diciamo così - rispettando misure imposte sui due parametri fondamentali: asse minore e asse maggiore/semi asse maggiore.

Per contro è più invalidante ciò che andremo a scrivere sugli ambienti creati secondo forme quadrilatere.

Quindi ora analizzeremo il "peso" delle misure rilevate da D. Scintu, utilizzate per la individuazione dell'unità di misura.

Esaminando attentamente tutte le planimetrie e sezioni pubblicate nel libro, ci si accorge che gli ambienti, sebbene siano composti da quadrilateri irregolari, recano generalmente solo due misure ortogonali tra loro. Anche quelle palesemente assimilabili alla figura trapezoidale recano comunque solo due misure. Quindi, quale criterio fu adottato dallo studioso per prediligere una misura anziché l'altra? Perché non ha indicato e preso in considerazione tutte le misure di ogni ambiente?

E lì dove gli ambienti presentano pianta molto irregolare, delle svariate misure che si possono prendere, perché fu scelta una specifica misura e non altra?

Nessuna risposta voglio dare a questa domanda. Nessuna.

Ma una considerazione mi permetto di formulare.

La consapevolezza della figura geometrica complessa, riconducibile all'uso del compasso (ellisse od ovoide), va di pari passo alla consapevolezza di una armoniosa forma quadrangolare. Invece la pianta di quegli ambienti non è dettata né dalla rigida costruzione geometrica, né dalla simmetria, tantomeno dall'armonia e ancor meno dall'uso dell'angolo retto, che invece riscontriamo nei portelli; che siamo essi reali o fittizi.

In sostanza: se l'intento di quei "costruttori" fosse stato quello di privilegiare il numero sacro (come vedremo tra non molto) nella realizzazione degli ambienti, avrebbero di certo utilizzato l'unità di misura scelta per dimensionare ogni lato dell'ambiente quadrangolare secondo quel numero. Invece notiamo ambienti scavati senza questo tipo di disciplina.12

 L'unica certezza che abbiamo, sull'operato di quelle genti, è che fecero uso del compasso. Ne sono prova i numerosi bacili risparmiati nei pavimenti. Per quanto riguarda l'ellisse o l'ovoide, sarà necessaria la puntuale verifica sperimentale per sciogliere ogni dubbio a favore o contro la loro costruzione geometrica. Verifica che D. Scintu avrebbe dovuto fare per dare un risvolto inopinabilmente scientifico al suo lavoro.

In conclusione: l'irregolarità della forma quadrangolare pregiudica l'assunzione di una misura privilegiata. Per tanto: quale unità usare tra una moltitudine di esse per definire l'unità di misura?

Geometria sacra, numero sacro

Sulla base dell'assunto che vuole quella geometria legata al sacro, quindi anch'essa sacra, lo studioso ritiene che quelle forme siano state realizzate secondo i canoni della geometria così come noi oggi la intendiamo. Quindi geometria sacra, proporzionale al numero sacro ad essa legato in modo inscindibile. Scrive infatti a pag. 37: “Le conoscenze della matematica e della geometria hanno influenzato l'arte e l'architettura e, poiché si usarono proporzioni basate in larga misura sulla geometria sacra e sui numeri primi, possiamo risalire alle radici della civiltà architettonica anche percorrendo la strada della numerologia simbolica”.

Con questo abbrivio lo studioso affronta l'aspetto numerologico, descrivendo in termini cabalistici il significato dei numeri che sono il nerbo della geometria. Li descrive tutti dall'1 al 9, salta il 10 e l'11 a piè pari - “numeri riconducibili all'1 e al 2” - dichiara, per passare e terminare col numero 12 (pag. 38).

Tralasciamo i numeri dall'1 al 5 per dedicarci al numero 6, per il quale ritengo del tutto speculativa la dimostrazione proposta da D. Scintu circa la presunta proprietà di quel numero.

A pagina 40, egli scrive: “altrettanto ricco di valori simbolici, il sei è un numero tutto ‘femminile’ […] Sant’Agostino poneva in rilievo che il sei è la somma dei primi tre numeri, 1+2+3=6. Ampliando la riflessione, la bellezza del sei può essere considerata come la radice della realtà. Sommando di tre in tre la serie infinita dei numeri successivi, otteniamo sempre un risultato riconducibile al 6: 4+5+6=15 e 1+5=6, oppure 7+8+9=24 e 2+4=6, e così all’infinito.

La riflessione di Sant’Agostino, già di per sé speculativa, si limita alla somma dei primi tre numeri, e va contestualizzata nel sistema di numerazione romano, privo del concetto di zero e della notazione posizionale.

D. Scintu, invece, estende arbitrariamente quella logica, prefigurando una regola che si proietta verso l’infinito, basata sulla somma di terne numeriche successive e sulla riduzione numerologica (o teosofica).

Tuttavia, tale estensione risulta metodologicamente infondata.

Sant’Agostino scriveva e deduceva in numeri romani I+II+III=VI, attribuendo al 6 qualità sacre. Risulta evidente che, proseguendo con IV+V+VI=XV, non avrebbe potuto estrapolare il numero VI dal numero XV, né applicare una riduzione numerologica come 1+5=6, concetto estraneo alla logica numerica del suo tempo.

Non si intende qui approfondire ulteriormente la questione, ma si rimanda il lettore curioso alla nota dedicata, dove si dimostra l’infondatezza della suggestiva sequenza numerologica proposta. 
13

Lo studioso introduce nel suo lavoro una serie di numeri considerati “sacri” o simbolicamente rilevanti: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 12. Tuttavia, nel prosieguo dell’analisi, il filo numerologico viene smarrito, lasciando emergere una certa discontinuità tra l’intento simbolico alla base del concetto introdotto e l’applicazione concreta. In sintesi deve scegliere tra valorizzazione del numero sacro o computo basato sui multipli dell'unità campione selezionata, che più si avvicina alla misura rilevata.

Nel capitolo § la necropoli ipogeica di Curruru is arrius, lo studioso scrive della tomba 387, le cui dimensioni sono:
186 cm in lunghezza → interpretati come 9 spanne
138 cm in larghezza → interpretati come 10 palmi
83 cm in altezza → corrispondenti a 4 spanne o 6 palmi

Se si accetta — ma non si concede — la coesistenza di spanne e palmi nello stesso ambiente, emerge una discrepanza numerologica:
Il numero 9, associato alle spanne, rientra nella sacralità numerologica proposta dallo studioso.
Il numero 10, associato ai palmi, viene invece esplicitamente escluso: “Tralasciamo il dieci e l’undici – numeri riconducibili all’uno e al due…” scrive nel capitolo 3°.

Questa contraddizione mina la coerenza del sistema proposto. Se la numerologia è criterio interpretativo, non può essere applicata selettivamente. E se il numero 10 viene ridotto a 1 per convenzione numerologica, allora si perde la specificità del dato misurativo.

Quello proposto non è il solo esempio contraddittorio, ancora a pagina 49 scrive: “Una successione numerica significativa la riscontriamo anche nella seconda tomba, dove alla cella di pianta subquadrangolare e con angoli arrotondati furono date le dimensioni di 193 x 120 cm (14 x 8 palmi megalitici)”, (mio il sottolineato ndr).

A pagina 63: dromos arcaico delle dimensioni in palmi megalitici pari a 21, 8 e 6 unità.

Pag. 71: 10 x 9 x 8 palmi.

Pag. 74: 36 x 12 + 5 x 11 palmi.

Pag. 75: 39 x 10 spanne.

Pag. 76: 39 x 2 x 4 piedi, e ancora un'altra: 42 x 16 x 11 palmi megalitici.

Pag. 77: 38 x 6 x 8 spanne.

Pag. 78: 34 x 5 e 10 x 5 cubiti

Pag. 81: “... Essendo ricavato sulla superficie rocciosa è progettato in piedi megalitici di 27.6 cm e ci fornisce i significativi valori di 34, 17 e 34 unità, (mio il sottolineato ndr).


Quale significato attribuisce a questi numeri, lo studioso non lo scrive. Pensiamo, per tanto, che i “significativi valori” siano quelli di riduzione numerologica del 34 in 3+4=7 e del 17 in 1+7=8. Altro non mi riesce di estrapolare se non che il 34, scomposto in fattori, restituisce il numero 2 e il 17, che è numero primo. Ma entrare nel mondo dei numeri primi è altrettanto aleatorio quanto il riscontro delle terne di cui si è disquisito in nota 12.

Ancora a pag. 83: 25 x 20 x 16 piedi. E continua scrivendo a proposito di un'altra tomba – la tomba X - “Le dimensioni dell'atrio della tomba X risulterebbero caratterizzate dalle cifre 12 e 4 palmi nelle altezze e 9 x 6 x 6 palmi i pianta. Tali dimensioni, per quanto piccole e all'apparenza insignificanti, indicano quale fu la prosodia impiegata nella progettazione del sepolcro riferita ai valori simbolici del 4, del 6 e del 9.

In questo passo lo studioso chiarisce la sua posizione, mettendo in evidenza i valori simbolici insiti nelle quantità di unità di misura utilizzate per dimensionare l'ambiente. Quindi ritiene in qualche modo simbolici, e quindi sacri, anche i numeri: 10, 11, 14 16, 20, 25, 34, 36, 38, 39, espressi per altre Ddj.

A questo punto tutti i numeri sarebbero sacri perché riconducibili per riduzione numerologica. Quindi il 10 si riduce a 1+0=1, l'11 a 1+1=2, il 34 a 3+4=7, il 36 a 3+6=9, il 38 a 3+8=11 e quindi 1+1=2, il 39 a 3+9=12... e quindi 1+2=3?

Tutto estremamente aleatorio alla luce della nota 13.

Nota 13 che ci impone di dubitare che nel neolitico esistesse una consapevolezza numerologica strutturata come quella proposta. Il sistema decimale stesso, fondato sulla base 10 per via delle dita delle mani, è una costruzione culturale, non una verità universale.

D. Scintu ha indagato le Domus de Janas seguendo un criterio apparentemente rigoroso nella ricerca dell'unità di misura; un criterio per nulla scientifico nel trattare di numerologia, rigoroso e puntuale nella descrizione dei monumenti dal punto di vista architettonico, gravato di forre perplessità il metodo di misurazione degli ambienti. Uno studio siffatto conduce inevitabilmente a un vicolo cieco. Al termine del quale, sorge, inevitabile, la domanda: quale via dobbiamo intraprendere per comprendere il messaggio custodito in queste tombe?

A parere del sottoscritto occorre abbandonare il sentiero intrapreso da D. Scintu. Occorre visitare le Domus de Janas, osservarle con attenzione, ascoltarle nel silenzio che le avvolge. Ogni dettaglio - ogni incisione, ogni variazione di luce, ogni imperfezione - può essere una traccia del pensiero costruttivo delle genti neolitiche. Ma non basta misurare. Bisogna inquadrare quei particolari nel loro contesto culturale. Girare su se stessi a 360°, poi alzare lo sguardo verso il cielo. Verso il sole venerato come divinità, che penetra il mondo ctonio con il suo raggio, come un messaggio, come una presenza.

Le Domus de Janas non parlano solo di morte. Parlano di passaggio, di relazione tra sopra e sotto, tra luce e ombra, tra gesto umano e ordine cosmico. E forse, per comprenderle, dobbiamo smettere di cercare la regola e iniziare a cercare il ritmo.

Se vogliamo davvero comprendere il messaggio custodito nelle Domus de Janas, non possiamo limitarci a misure, numeri o simboli astratti. Dobbiamo osservare il loro orientamento, la luce, il ciclo solare, e usare le dimensioni in funzione di quelli. Dobbiamo chiederci: quando e come il sole entra in queste tombe. Perché il sole non è solo fonte di vita: nelle Ddj è agente rituale, divinità penetrante che collega il mondo dei vivi con quello dei morti.

Il sole e la sua luce potrebbero spiegare il significato dei simboli graffiti sulle pareti e sui soffitti di quegli ipogei – non tutti forse – ma alcuni probabilmente. Ma non è questo il luogo per parlarne. Finiamo quindi qui la nostra disquisizione. Certi di aver contribuito a togliere un po' di quella nebbia che il tempo ha calato su una cultura distante millenni dal nostro tempo.

Note e riferimenti bibliografici

1 "Lo stile del dato" è inteso quale estetica del dato matematico fine a se stesso. Si percepisce, quindi, la volontà di impressionare più che quella di illuminare.

2 L'esiguità dello scarto è man mano sempre inferiore lì dove le frazioni hanno il denominatore in progressione armonica. Tant'è che in seguito, quando salta da 1/12 a 1/16, 1/24 e 1/36 lo scarto cresce nuovamente.

3 Benché le misure possano trovare, singolarmente, fondamento storico, è infondata l'attribuzione di tutte quelle ad un  unico sistema di misura.

4 Anche la nomenclatura sembra arbitraria, non trovando riscontro in altri studi. Il palmo per lo studioso sarebbe la distanza tra pollice e indice divaricati; per altri è quella che lo stesso studioso definisce mano. Mentre la mano è quella che lo studioso definisce mano maggiorata.

Fatta questa puntualizzazione, avvertiamo il lettore che, per non creare confusione, continueremo a riferire le nostre considerazioni usando la nomenclatura proposta dallo studioso.

5 Le unità di misura e i loro sottomultipli vengono utilizzati in maniera selettiva a seconda del caso. Nella progettazione di una strada l'unità di misura più piccola è il metro. Per gli edifici è il centimetro, per il meccanico è il millimetro, per l'orologiaio si ricorre a frazioni di millimetro.

6 È interessante notare che la standardizzazione delle unità di misura condurrà, in epoca moderna, alla definizione del pollice inglese pari a 2,54 cm, valore oggi universalmente riconosciuto, che di poco si discosta dalla misura indicata dallo studioso e che, in fin dei conti, è quella rilevabile in un soggetto di media corporatura.

7 Le mazze e le mazzette, recano impresso il loro peso.

8 Nessun impedimento ad accettare una misura di 23.2 cm per la spanna, dato che il sottoscritto, alto 1.66 m, ha una spanna di 22 cm, contro i 18.8 cm della spanna codificata da D. Scintu.

9 In troppe occasioni ho avuto modo di confutare rilievi, misure e numeri per utilizzarli senza timore.

10 Lo stesso non si può dire dal punto di vista concettuale. La costruzione dell'ellisse, benché facilmente realizzabile con tre pioli e una fune, richiede una comprensione profonda della nozione di distanza e di vincolo geometrico, non immediatamente intuitiva. L’idea che la somma delle distanze da due punti fissi (i fuochi) sia costante non è intuitiva. Serve una visione astratta del “luogo geometrico” - concetto che non era immediatamente disponibile nel pensiero pre-euclideo. Quindi dobbiamo domandarci se sia nata prima la forma empirica o quella concettuale.

Possiamo ben dire che la forma nasce dall’azione, la teoria dalla riflessione. In altre parole, l’umanità ha spesso agito geometricamente prima di pensare geometricamente. La codifica concettuale arriva dopo, quando si cerca di spiegare, trasmettere o rendere sistematico ciò che si è già fatto. Quindi è verosimile che l’ellisse sia stata “vissuta” prima di essere “pensata”.

Capire che una cordicella tesa fra tre pioli possa generare un particolare forma geometrica -l’ellisse  -richiede un pensiero analogico sofisticato.

Forse la curiosità diede l'impulso a chi tracciava cerchi.
Non è necessario pensare che ogni posizione del punteruolo, mantenendo la corda tesa, soddisfi la condizione geometrica, basta seguire la mano che sostiene e spinge il punteruolo. 

Il costruttore deve tenere conto di:
La lunghezza della corda (più lunga dell’asse maggiore)
La posizione dei pioli (che determinano l’eccentricità)
La tensione costante della corda
Coordinare questi elementi implica una forma di pensiero sistemico e spaziale, ma risolvibile empiricamente.

Il cerchio era la figura geometrica “perfetta” e più intuitiva. Pensare a una curva simile ma non circolare, e trovare un modo per tracciarla, significava uscire da un paradigma consolidato.

In sintesi, la costruzione dell'ellisse è un piccolo capolavoro di pensiero concreto e astratto insieme. È la dimostrazione che la geometria non è solo teoria, ma anche manualità intelligente. Quindi una costruzione geometrica empirica all'altezza delle capacità delle genti neolitiche. Ciò non significa che vi arrivarono a quella capacità.

Benché ancora non possiamo affermare se sia vera l'ipotesi di D. Scintu circa questo problema, ho in mente però una ipotesi circa il motivo che spinse quelle genti a definire, non tanto la forma ovoidale, per la quale è condivisibile il pensiero dell'Autore che vuole quella forma legata all'uovo quale involucro (pag. 36), ma la forma semiovale, per la quale il riferimento all'uovo non ha alcun appiglio. Cosa rappresenta allora quella mezza forma? Difficile dirlo con sicurezza e nulla azzardiamo per ora. Sta il fatto che quelle antiche genti non facevano niente per niente.

11 I fuochi che generano la figura ellittica giacciono sempre sull'asse maggiore, mai su quello minore.

12 Facciamo un esempio. La camera dalla quale si accede alla "cappella votiva" di Noeddale I, reca le misure in pianta di 3,44 m di larghezza sulla parete d'ingresso e 2.90 m di profondità lungo la parete di sinistra. Mettendo in scala il disegno ci si accorge che la parete di fondo rientra nei limiti del franco d'errore adottato dallo studioso (3.46 m), mentre quella di destra misura 3.78 m. ossia 12 cm in meno di quella opposta. Quello scarto corrisponde al medio maggiorato (11.9 cm) ma l'unità di misura che più si avvicina, quale multiplo, alle misure appena indicate è il palmo di 13.8 cm e le misure sarebbero espresse in: 25 palmi (344 cm), 21 palmi (290 cm), 20 palmi (278 cm). Numeri 25, 21 e 20 che nulla hanno di rilevante, se non operando la cosiddetta riduzione numerologica. Ma, per quanto scriveremo in nota 13, la riduzione numerologica è un artificio traballante.

In considerazione della nota 13, si può affermare che nessuna delle unità di misura potrebbe essere utilizzata per comporre numeri sacri. Perché tutti, a parte la iarda e il cubito, andrebbero oltre il numero 9 o corrispondere al numero 12.

Scavando tra i numeri della Tabella C, potremmo trovare una unità di misura che faccia al caso nostro. Ma il tutto si risolverebbe quale gioco probabilistico.

13 In riferimento a quanto citato dallo studioso circa i numeri in sequenze di 3, la cui somma restituisce sempre il 6, ciò vale se iniziamo dal numero 1. Ma se iniziamo dal numero 2, avremmo serie di tre la cui somma restituisce un numero che, se composto da numeri superiori alla decina, restituiscono in somma il numero 9: 2+3+4=9, 5+6+7=18, quindi la riduzione 1+8= 9, 8+9+10=27, quindi la riduzione 2+7=9 e così via all'infinito.

Lo stesso vale se iniziamo dal numero 3: 3+4+5= 12 quindi 1+2=3; ancora: 6+7+8=21 quindi 2+1=3; e ancora: 9+10+11=30 quindi 3+0=3, 12+13+14=39 quindi 3+9=12 e 1+2=3 e così via all'infinito.

Poi, volendo continuare con questo giochino, potremmo pure dire che il risultato della riduzione numerologica di quelle terne, che man mano hanno origine dall'uno la prima, dal due la seconda e dal tre la terza: 6+9+3=18 e 1+8=9. Quindi?! Quale altro significato metafisico e metagrafico, metasignificante, o meglio metainsignificante, vogliamo estrapolare da questi risultati?!

Questo giochino, che all'apparenza sembra sconcertante per la sua eleganza; è invece del tutto banale, dato che, ad esempio, la terna 1+2+3 ha il suo fulcro nel 2 con una unità antecedente sottratta di una unità e una unità conseguente incrementata di una unità; ciò vale a dire che quel che si sottrae al 2 per definire lo 1, incrementa il 2 per definire il 3 ossia, la terna può esser scritta in tal modo: (2-1)+2+(2+1); se sommiamo algebricamente -1+1 si annullano e quindi la terna 1+2+3 equivale a 2x3=6. Questo vale per tutte le terne successive che vengono composte allo stesso modo: 4+5+6 è come dire (5-1)+5+(5+1)=3x5=15 e quindi 1+5=6. Quindi pura speculazione.

Volendo insistere con questo giochino potremmo pure prendere in considerazione la sestina numerica: 1+2+3+4+5+6=21 e quindi 2+1=3

7+8+9+10+11+12=57 e quindi 5+7=12 e 1+2=3

13+14+15+16+17+18=93 e quindi 9+3=12 e 1+2=3

19+20+21+22+23+24=129 e quindi 1+2+9= 12 e 1+2=3

e se prendiamo la sestina con origine in 2 avremmo:

2+3+4+5+6+7=27 e quindi 2+7=9

8+9+10+11+12+13=63 e quindi 6+3=9

Quale è, quindi, la regola che sottostà a questi risultati?

Prediamo il numero 1270, che sottoposto alla riduzione numerologica sarà 1+2+7+0=10, quindi 1+0=1

il 1271 sarà 1+2+7+1= 11, quindi 1+1=2

il 1272 sarà 1+2+7+2=12, quindi 1+2=3

il 1273 sarà 1+2+7+3=13, quindi 1+3=4

il 1274, sarà 1+2+7+4= 14 quindi 1+4=5

il 1275, sarà 1+2+7+5= 15 quindi 1+5=6

il 1276, sarà 1+2+7+6= 16 quindi 1+6=7

il 1277 sarà 1+2+7+7= 17 quindi 1+7=8

il 1278 sarà 1+2+7+8= 18 quindi 1+8=9

il 1279 sarà 1+2+7+9= 19 quindi 1+9=10 e 1+0=1

Da questo risultato finale si desume che il ciclo è rigidamente impostato sul numero 9; e questo, se diamo reta alla valenza esoterica della numerologia, sarebbe l'archetipo che regola i numeri - bene inteso - nel sistema decimale, che a quanto pare è basato in origine sul fatto che le mani contano, sommate, 10 dita. Se avessimo avuto solo quattro dita per mano avremmo un sistema ottale, e se ne avessimo avuto 3 sulla sinistra e 4 sulla destra avremmo sviluppato un sistema in base 7; il che avrebbe vanificato il ripetersi all'infinito delle triadi numeriche sopra esposte. Vediamo quindi un esempio nel sistema in base 7.

Prendiamo il numero settenario 1344 (corrispondente al numero decimale 725). Nel sistema settenario la sua riduzione numerologica non sarebbe 1+3+4+4=12 e quindi 1+2=3 ma sarebbe 1+3+4+4=15 secondo la regola che ammette i seguenti numeri: 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6:

e quindi 1+5=6. Questa soluzione è vera se introduciamo il numero 0 - la qual cosa non è del tutto scontata – se invece il numero zero non viene preso in considerazione, come succedeva nei sistemi di numerazione arcaici, tra i quali quello romano, il numero 1344 è ancora riducibile al numero 15 e quindi al 6?

Vediamo la serie secondo il sistema settenario privo del numero zero iniziale. In tal caso la serie sarà composta dai numeri: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7.


per tanto il numero 12 decimale equivale ancora al 15 in base 7 e quindi 1+5=6

Continuando, il numero successivo 1345 non sarebbe 1+3+4+5= 13 ma sarebbe stato 1+3+4+5= 16 e quindi 1+6=7

Ma il numero 1346, non sarebbe 1+3+4+6=14 e quindi 1+4=5, ma sarebbe 1+3+4+6=17, la cui riduzione è 1+7=11, che dovrà essere ancora ridotto: 1+1=2.

Alla luce di queste considerazioni, non possiamo dare per scontato che il sistema fosse valido in antico.

Quindi la riduzione numerologica è del tutto anacronistica, a meno di prove che la attestino in periodo neolitico. In ragione di ciò possiamo accogliere l'ipotesi che vuole sacri i numeri, non in funzione del sistema di riferimento: decimale, ottale, settenario o binario o quant'altro, ma in funzione dell'esigenza di quantificare ciò che ci sta attorno. Il numero è un astratto che quantifica: risponde alla domanda “quanti?”.
E nasce in principio dall'esigenza di contare oggetti concreti. In quell'ambito, è probabile, sia nata anche l'esigenza di dare al numero un valore non solo materiale, ma filosofico, nel momento in cui osservando la natura l'uomo attribuì un significato ad ognuno di quelli. Foss'anche il 12, che va oltre il numero delle dita delle mani, ma in natura scandisce il ciclo solare e lunare assieme. Si noti che i 12 mesi nel ciclo dell'anno solare sono scanditi dalla presenza della luna. Senza la luna il sole potrebbe scandire solo i suoi 4 periodi scanditi da solstizi ed equinozi.

Per tanto, abbandoniamo l'idea di numerologie legate alla riduzione numerologia e manteniamo per quanto possibile, il valore logografico del numero. Questo perché La riduzione numerologica e la valenza logografica appartengono a due concetti molto diversi e incompatibili.

La riduzione numerologica è il processo con cui si semplifica un numero composto per ottenere una cifra singola da interpretare simbolicamente. Si basa sull’idea che ogni cifra da 1 a 9 abbia una vibrazione archetipica. È una tecnica essenzialmente esoterica e simbolica, usata per interpretare nomi, date di nascita, ecc.

La valenza logografica di un numero è la capacità di un numero di rappresentare direttamente un concetto o un oggetto.
In questo contesto, il numero non è ridotto, ma mantiene la sua forma intera perché è portatore di significato autonomo.

Perché sono incompatibili i due sistemi?

La riduzione cancella la struttura. Un numero come il 12 può avere una valenza storica o simbolica. Ridurlo a 1+2 = 3 elimina ogni riferimento alla sua composizione.

La logografia richiede integrità. I numeri con valenza logografica sono segni pieni, non interpretabili come somma di cifre. Sono come ideogrammi. Ridurli è come smontare un ideogramma cinese per analizzarne i tratti, perdendo il significato globale.

La numerologia cerca archetipi, non contesti. La riduzione numerologica punta a trovare un archetipo universale. Il numero, quale logogramma, invece, rappresenta un concetto, è indipendente dalla fonetica, è condiviso tra lingue, ma nel contempo è contestuale e culturale: il significato di un numero dipende dalla tradizione che lo usa.

Quindi che valore logografico può avere ridurre un numero di spanne che definisce la dimensione di una Ddj? Nessuno.

Che valore può avere, invece, il numero inteso quale logogramma? Immenso. Il numero come misura è muto. Il numero come logogramma è parlante. Uno quantifica, l’altro significa.

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