di Francesco Masia
Il 5
Agosto ho seguito almeno parte della conferenza su tonni e Fenici nel
nuovo Museo della Tonnara a Stintino, relatori il Prof. Bartoloni e
il dott. Guirguis (l'accento va sulla prima i). Mi sono perso
l'inizio, credo il primo intervento del Prof. Bartoloni, ma la cosa
per me ha avuto comunque, certamente, un senso. Ero particolarmente
interessato perché l'associazione di tonni e Fenici mi riportava a
uno dei pilastri (così io riassumerei) del primo libro del nostro
Mikkelj (Kirkandesossardos, Sardegna, ricerca dell'origine, di
Mikkelj Tzoroddu), che sostanzialmente appoggiava a un'industria del
tonno sarda e (assai) pre-fenicia (pesca, macellazione,
conservazione, commercio) le conseguenti deduzioni su attività
cantieristica, produzione di sale, reti di traffici come già per
l'ossidiana (e poi i metalli dalle miniere), a sorreggere un'economia
capace di portare fasti tra l'altro architettonici e magari militari
a una civiltà interrelata con i popoli sulle coste del Mediterraneo,
nonché con l'interno e il nord dell'Europa (continentale e
insulare). Avevo perciò ripreso il libro di Mikkely per appuntarmi
le prove/indizi da lui addotti circa quanto sopra (volevo preparami a
citare le sue fonti) e mi si è così chiarito, meglio di quanto
fosse rimasto nel ricordo, che stando a quanto fissato sul libro del
2008 non si tratta di prove da potersi sventolare con la sicurezza
che credevo. Questi indizi di una talassocrazia e, insieme, degli
stretti legami con l'economia legata al tonno risalivano, per
Mikkely, soprattutto a ragionamenti che per esclusione lascerebbero i
Sardi principali indiziati di aver loro trasportato una certa
ossidiana per 73 miglia di navigazione dalle sue cave di provenienza
sull'isola greca di Melos all'insediamento presso la grotta Franchthi
in Argolide (sulla terraferma Greca meridionale), circa nel 9.000
a.C.; insediamento dove è stata documentata (con prove
archeo-zoologiche) l'attività di pesca di "tonnidi" (o di
pesci di grossa taglia, meglio, senza certezze quanto a ulteriori
specificazioni) e la loro lavorazione, risalenti più o meno al 7.500
a.C.. Da lì Mikkelj passa a considerare fonti classiche
sull'apprezzatissimo e rinomato "pesce sardo" o "sardina"
e allo studio di Alfredo Andrews (1949, The "Sardinian Fish"
of the Greeks and Romans) per cui tale "pesce sardo"
era riconducibile anzitutto al tonno (e solo successivamente, per
soddisfare le esigenze di un target commerciale più basso e diffuso,
appunto alla sardina): così Mikkelj attribuisce definitivamente ai
Sardi il ruolo di principali attori nel Mediterraneo quanto alla
pesca, alla lavorazione e al commercio di tonni e sardine; ma queste
fonti classiche paiono tutte (ben) successive alla frequentazione
fenicia perlomeno di Sulki, quindi (al di là di una ammissibile
posizione di preminenza del prodotto effettivamente lavorato in
Sardegna) nulla prova (ancora) che fossero stati i Nuragici ad aver
impiantato questa attività ittica. E la documentazione di vertebre
di "tonnidi" nella grotta Franchthi nel 7.500 a.C. fa
casomai risaltare l'assenza (a oggi) in contesti nuragici di reperti
archeo-zoologici aventi a che fare con i tonni (a precedere quelli
emersi in contesti fenici tra i quali Sulki, documentati appunto
nella conferenza di Stintino insieme ad immagini su un vaso, proprio
da Sulki, che potrebbero essere il racconto della loro pesca).
È per
questo che la mia domanda ai relatori si è dovuta limitare a
chiedere se in contesti nuragici siano mai stati reperiti resti
riconducibili alla macellazione dei tonni: la risposta è stata
negativa; e questo, fin qui, direi sgonfi le ruote alla dottrina su
un fiorente comparto ittico nuragico, primo volano di attività
nell'indotto.
Anche
ad attestarsi sulle posizioni ben argomentate da Mikkelj nel suo
secondo libro (Kircandesossardos duos, i fenici non sono mai
esistiti, Mikkelj Tzoroddu 2010), secondo cui Sulki (al pari di
altri centri “pigramente” ritenuti di fondazione fenicia) è
semplicemente un centro di fondazione nuragica dove circa dall'VIII
secolo a.C. si sarebbero insediati, insieme ai già residenti, dei
“Nuragici di ritorno” (magari provenienti, vorrà concederlo,
proprio dalla cosiddetta area fenicia), resterebbe (al momento) che
la pesca e la lavorazione del tonno in Sardegna risulta documentata
in antico solo in questo centro “fenicizzato”, poiché
evidentemente tali genti (se non Fenici, Nuragici fenicizzati)
avevano appreso dai Fenici l'arte della pesca e della lavorazione del
tonno come praticata in altri centri fenici (a Stintino direi si è
parlato essenzialmente di Cadice, perlomeno dal momento in cui sono
arrivato).
Ora mi
chiedo quanto questo discorso sul commercio del tonno possa
rappresentare, allo stato, un esempio delle puntuali ipotesi che
costruiamo/sosteniamo sulla articolata grandezza della civiltà sarda
genericamente pre-fenicia (anche molto pre-fenicia), una grandezza
che in assoluto (finché si resta nel generico) pare più nessuno
metta in dubbio. Direi che molti cercano apprezzabilmente di uscire
dai limiti del generico (di una civiltà genericamente avanzata per
il suo tempo, senza granché dettagli) e si impegnano a costruire
ipotesi sugli elementi emergenti, sugli indizi, sui dati e sui
reperti che altri si limitano ancora a considerare “isolati”,
quindi non ancora affidabili a sovvertire teorie (apparentemente,
fino a “ulteriori” prove contrarie) meglio consolidate (si
rileggano le conclusioni di Minoja nel terzo volume della Gangemi su
Monte Prama). Molti, quindi, si impegnano a costruire nuovi modelli
esplicativi, in uno sforzo che mi chiedo quanto possa essere
accostato, con tutte le differenze del caso (chiarito che siamo su
tutt'altra scala nonché in diversissima disciplina), all'impresa che
condusse tra gli anni '50 e '70 del secolo scorso alla messa a punto
del modello standard delle particelle elementari; un modello che ha
trovato solo in seguito, una a una, le conferme delle proprie
previsioni (fino alla rivelazione del bosone di Higgs nel 2013 e fino
al buco nell'acqua, giorni fa, della ricerca di una fantomatica
particella 750 GeV che l'avrebbe invalidato, senza peraltro lo
spettacolo di opposte schiere di sostenitori); e un modello che
"nonostante la lunga serie di successi sperimentali"
(prendo dalla quarta delle "Sette brevi lezioni di fisica"
di Carlo Rovelli) "non è mai stato preso completamente sul
serio dai fisici" ("fatto di vari pezzi di equazioni messi
insieme senza un chiaro ordine", "lontano dall'aerea
semplicità delle equazioni della relatività generale e della
meccanica quantistica", un modello che abbisogna di una
"rinormalizzazione" grazie alla quale "funziona nella
pratica, ma lascia in bocca un sapore amaro per chi vorrebbe che la
natura fosse semplice"; semplice, aggiungerei, quanto un flusso
di civiltà "pettinato" nell'antico sempre da oriente a
occidente).
Ecco,
se posso stare su questo accostamento, vi chiedo quanto il percorso
di raccolta di prove e conferme intorno al modello di una Sardegna
protostorica con la sua grandezza definita (fatto di tanti possibili
tasselli: dalla identificazione con gli Shardana; a scrittura e
religione in rapporto con Egitto e Canaan da una parte e poi Etruschi
dall'altra; alle posizioni di preminenza quanto ai comparti agricolo,
estrattivo, di trasformazione, commerciale e militare; fino
eventualmente ad antichi apporti di civiltà "controcorrente",
verso oriente) possa dirsi oggi in un punto grossomodo analogo agli
anni '60 del suddetto modello standard. Le prove e le conferme che
ancora abbisognano, come abbiamo visto, sono anche difficili da
imporre (si pensi alla datazione della navicella di Teti, o a quella
degli inumati di Monte Prama e quindi delle statue dei “giganti”).
Ogni tanto, insomma, avverto il bisogno che si faccia il punto per
orientarci su dove stiamo, su quanti tasselli prendano consistenza e
quanti stiano al palo o, peggio, scricchiolino.
Per
cui sottolineo: resti di tonno in siti nuragici (non
fenicizzati, aggiungiamo) non risulterebbero ancora mai
dimostrati, mentre se ne trovano altrove in contesti più antichi
(coi quali possiamo solo
congetturare di avere avuto a che fare, senza prove concretamente
spendibili) e se ne trovano in Sardegna solo in un contesto
ormai fenicizzato.
Se
vogliamo essere presi sul serio con il modello che alla luce di dati
e indizi ci piace costruire, arricchire, correggere, perfezionare e
continuare a proporre, dobbiamo essere i primi a vagliarlo
severamente.
Infine
mi sembrerebbe ingiusto non riportarvi quella che per me è stata una
perla, nella sua semplicità, regalata dal Prof. Bartoloni (chi
conosce già bene la materia compatisca questo slancio). A proposito
della grandezza della Sardegna pre-fenicia (mi esprimo io così),
assolutamente riconosciuta (“nessuno può credere davvero che i
Sardi non avessero una marineria, perché escluderlo solo per non
averne trovato ancora resti dovrebbe portare a dire che neanche gli
Etruschi ne avevano una, cosa che nessuno si sogna di sostenere”),
Bartoloni ha voluto significare che i Sardi non avevano bisogno del
tonno perché avevano l'argento, argento che scambiavano senz'altro
favorevolmente (anzitutto col rame che serviva loro: “399 miniere
d'argento contro 8 miniere di rame”) soprattutto con i Fenici (che
il rame lo portavano da Cipro). In tutto l'oriente la ricchezza si
misurava in sheqel, pari a 7,2 g di argento; e i Sardi stavano
seduti su un mare di argento (un mare di sheqel), che tra
l'altro interessava loro solo quale favorevolissima merce di scambio
(vedi “siclo”, nome della moneta israeliana ancora in corso:
Wikipedia parla di un peso che poteva variare tra i 10 e i 13 g, per
i pignoli, ma il Prof. Bartoloni ha quasi dettato, più volte, 7,2).