mercoledì 25 ottobre 2017

(II) Il sardo latino? Sì. ma 'romano' no. Parola di Documenti


Gianfranco Pintore Blog


2010 (13 ottobre)

di Gigi Sanna 

  
Nuraghe Ardasai della Barbagia di Seui

    Abbiamo visto dunque, nel precedente articolo, che sia l'Angius sia l'Alinei si sono sforzati, ciascuno con le proprie forze e capacità linguistiche, ma con identità di vedute, per invalidare la tesi che la lingua sarda possa aver avuto origine da quella romana e che quindi ci fosse, tra i due codici espressivi e comunicativi, un rapporto, strettissimo (e nobilissimo per ‘purezza’), tra ‘mamma’ e ‘fiza’ (come dicevano il Madao nel Settecento e lo stesso lessicografo Spano, contemporaneo dell’Angius, nel secolo successivo) .
    Particolarmente importante, quasi fondamentale,  l'obbiezione avanzata da entrambi che la Sardegna dell' interno (Barbagie), quella resistente della 'riserva indiana'  e mai domata dalla colonizzazione di Roma, avrebbe dovuto mantenere la sua lingua arcaica preromana e non, al  contrario, presentarsi come la zona con romanità linguistica più radicata di tutte le altre. Spia evidente questa che il sardo 'latino'  era da ritenersi precedente e che le due lingue, quella chiamata da Alinei 'italide' e quella sarda, appartenevano allo stesso ceppo linguistico, per quanto indipendenti.
    Si capisce subito però da ciò le conseguenze che si determinano sul piano della ricerca scientifica sull'origine della lingua sarda: le tesi, che hanno fatto ormai scuola da tantissimo tempo, sulla lingua romana che sarebbe la 'madre' di quella sarda ( e di quelle franco -iberiche) andrebbero totalmente riviste. E a farne le spese sarebbero, per quanto riguarda il sardo ‘romano, gli studi di mostri sacri come W. Meyer - Lübke e soprattutto come Max Leopold Wagner,  autore del famoso DES (Dizionario Etimologico Sardo), uno studioso benemerito che con le citatissime  sue 'etimologie' e l’esame profondo assieme  della società e dell'anima sarda, ha dato, tra gli altri contributi , statuto di 'lingua' al linguaggio usato dai Sardi. Tante, tantissime parole, andrebbero alla luce della TdC ricalcolate e riviste quanto ad 'ascendenza'  e bisognerebbe, di conseguenza,  ridisegnare un confine tra il sardo 'latino' anteriore a quello della data della conquista romana dell'Isola (fine del III secolo a.C.) e il sardo inevitabilmente influenzato (così come –qundo più quando meno - da altre lingue nel passato) dopo la conquista, a partire soprattutto dai secoli dell'età imperiale.
   Ora io non intendo minimamente metter becco in ampie e articolate discussioni di natura linguistica, perché non ne avrei le forze e soprattutto i mezzi, mentre entro nel merito, con un mio contributo, delle obbiezioni specifiche formulate dall'Angius e dall'Alinei;  ma solo perché oggi  il panorama delle conoscenze sulla lingua sarda arcaica, ovvero sulla lingua parlata  dalle popolazioni dell'Isola durante l'età del bronzo (e certamente anche in periodo neolitico-eneolitico stante una certa continuità culturale isolana acclarata  anche dall’archeologia) mi sembra notevolmente mutato
  

Infatti, la ormai cospicua documentazione rinvenuta in Sardegna sulla scrittura dei sardi dell'età del bronzo, formata sia dai documenti rinvenuti tra il 1995 ed il 2004 sia da quelli successivi (dal 2004 sino ad oggi), ha ormai reso chiaro:
°  1 Che i sardi dell'età del bronzo medio e finale conoscevano ed usavano diffusamente (cioè in quasi tutte le zone dell'Isola) la scrittura.
° 2 Che detta scrittura è di origine orientale siro -palestinese (realizzata con alfabeti di natura consonantica: protosinaitico, ugaritico, protocananaico e gublitico).
°  3 Che detta scrittura ricorre il più delle volte al mix dei segni (addirittura, aspetto non rintracciabile altrove, con mix di simboli ugaritici!) e cioè ad un 'modus scribendi'  (assai attestato in area orientale) che è noto con il nome di 'protocananaico'.
° 4 Che detta scrittura non prescinde quasi mai (aspetto questo che sino a prova contraria, sembrerebbe del tutto nuovo e del tutto originale del codice)  dalla simbologia numerica cioè dalla realizzazione nel testo  anche dei numeri 'sacri' della divinità ( tre, cinque, sette, nove, dodici, ecc.)
° 5 Che detta scrittura è di natura sempre religiosa; serviva cioè  al culto e alla glorificazione della divinità androgina e 'manifesta' ('El/Il /Ili yh/yhh/yhw/ yhwh) sarda, dio anch'esso di chiara origine orientale  cananea e palestinese (paleo ebraica).
° 6 Che detta scrittura riguarda anche e soprattutto i divini ‘figli del cuore’ (Sanna 2009. La stele di Nora. 3.4. p. 101, cioè gli ‘abay’ (padri venerandi) tori (Tzricotu: A1, A3, A4, A5) e ‘piccoli giganti’ che dominavano nell’Isola.  
°  7 Che detta scrittura o comunicazione per simboli fonetici è ottenuta a tutto campo (aspetto questo che fa innalzare enormemente la stessa quantità di essa se non considerata pregiudizialmente solo dal punto di vista epigrafico) attraverso la realizzazione degli oggetti stessi e dei monumenti (pittogrammi ed ideogrammi monumentali). Tipologia scrittoria questa che abbiamo chiamato 'con', di sicura provenienza egiziana.
°  8 Che detta scrittura alfabetica, consonantica e pittografico –ideografica,  presenta due tipi di lingue: una di ceppo chiaramente semitico (di gran lunga la più attestata, essendo in pratica presente in tutti i documenti) e una seconda di ceppo chiaramente indoeuropeo.
    Le cartine (v. tab.1 e 2) possono  far comprendere, attraverso il riporto delle non poche località interessate alla documentazione della scrittura 'nuragica' (anche di quella dei primissimi secoli del primo Millennio a.C.), l'ampiezza territoriale del fenomeno (un ‘alfabetismo diffuso’ anche se non ‘popolare’, davvero inimmaginabile fino a qualche anno fa !) della scrittura sarda dell'età del bronzo; ampiezza già riconoscibile e che non può che stupire se si pensa che praticamente le ricerche 'effettive' (quasi solitarie tutt'altro che agevolate, generalmente parlando, da archeologi e linguisti) sono condotte da meno di dieci anni. Possono far comprendere inoltre che gli ultimi documenti (quelli dal 2004 in poi) confermano il dato (Sanna 2004, Sardoa Grammata, 6. p. 332, tab.6) della maggiore presenza documentaria in territorio 'arborense' (cioè il ‘logu’ dell’Antico Giudicato di Arborea),  agevolando la formulazione dell'ipotesi, già da noi avanzata nel 2004, ,  che fosse il Sinis e particolarmente la città di Tharros (Tharshish) il luogo d' irradiazione scribale -sacerdotale  del sistema di scrittura sacro, composto di determinate norme e convenzioni (impostazione a ‘rebus’, mix alfabetico, agglutinamento, direzione della scrittura, 'matres lectionis', ecc.)    
           
    Le seguenti tabelle invece (tab.3 e 4) intendono spiegare il fenomeno del 'bilinguismo' arcaico del Secondo e del Primo Millennio a.C.  (lingua sarda indoeuropea e lingua sarda semitica), con il mostrare da un lato le voci semitiche (ebraiche ,in particolar modo) e dall'altro le voci non semitiche ma indoeuropee; parole chiaramente leggibili ed in genere indiscutibili, per sussistenza - avvertiamo subito -  perché, per somma fortuna, la scrittura sarda si è manifestata  da subito per essere di natura alfabetica fonetica consonantica, come si è detto,  e mai (stando almeno agli attuali documenti) di natura sillabica. In alcuni casi essa è chiarita ancor di più, dal punto di vista delle pronuncia,  dall’accorgimento e dal ricorso  degli scribi alle cosiddette ''matres  lectionis', cioè ai segni solo formalmente consonantici  perché attinenti alla necessità d’espressione  delle vocali ed estranei in genere, come si sa, al codice di scrittura semitico.  Le stesse lettere di tipologia gublitica che si trovano in alcuni dei documenti ( 'nuraghetto' di Uras, tavolette del nuraghe Tzricotu di Cabras , pietra del Nuraghe  Pitzinnu di Abbasanta) fanno comprendere che la lettura è 'consonantica' e non sillabica; aspetto importantissimo questo –come si è detto altre volte, anche in questo blog -  per la decifrazione dei misteriosi documenti siriani e palestinesi con l'alfabeto (il cosiddetto ‘pseudogeroglifico’) di Biblo.
   
Ora, a meno che non si vogliano inficiare dati documentari così abbondanti e, diremmo, qusi ‘esuberanti’, e la stessa lettura dei segni ( si vedano gli esempi alle figg. 1 -2 -3 -4 ), dalle tabelle suesposte appare un dato che ci sembra  certo: che in un arco di tempo compreso tra il XIX secolo a.C. (bidente di Is Locci Santus) ed il IX -VIII secolo a.C. (Stele di Nora e coccio di Orani) in Sardegna si adoperava un lessico che ancora oggi si mantiene, pressochè intatto, nella lingua e che soprattutto mantiene, confermando gli spunti teorici dell'Alinei, nel linguaggio dialettale.





Fig.1
Fig.2
     






Fig.3
Fig.4

Parole come ‘AK, Bi-D(e)NTe/i, KoR(R)ASh, GiGaHaLOY, GaWaHuLO, H(o)GY'ANO, MaG(u), N(o)N(N) -Y, suffissi/prefissi  come Y, preposizioni come 'dhe/Z,  nomi propri, non semitici,  come NGR, B(o)IQO, L(e) Ph(e) S-Y , BAR'ASON-Y, Y 'AGO, riteniamo che non lascino adito a dubbio alcuno. Ci troviamo quindi davanti a qualcosa di straordinario e del tutto insospettabile:  che il sardo ‘romano’ romano non è  che in un periodo (ovviamente ben più a monte degli inizi della seconda metà del secondo Millennio a.C.!) molto precedente (di più di mille anni!), quello della conquista romana dell'Isola, in questa  si parlava una lingua (e perché no? Forse anche 'romana': ma Roma che era allora?) di ceppo 'italide' per dirla con Mario Alinei o  'germoglio della stirpe dei latini' per dirla con l'Angius.
   Naturalmente si noterà che ci siamo astenuti dall'entrare nel merito delle parole attestate nei documenti: ma l'abbiamo fatto per non appesantire troppo il testo (che ha, come sempre,  fini prevalentemente comunicativi) e anche perché le parole sarde  'latine' (latine e non romane), così comuni, possono essere tranquillamente controllate nei repertori etimologici lessicali.
    Diciamo però qualcosa riguardo a quattro  voci nuragiche: G(a)W(a) H(u)LO, NoN(N)o-Y , DH(E) e Y'AGO .
   La parola campidanesa 'gaurru' (per il significato originario di 'cantore' e quello successivo in periodo cristiano si veda Sanna 2004, pp. 511 -512) non risulta attestata nel lessico del Wagner né in quello del Pittau mentre risulta attestato in quello del Puddu con il significato preciso corrente: nadu de unu po sa manera de faghere, chi est fattu a sa russa ( DitzLcs 748). A Cabras però esiste ancora oggi attestata la voce 'gawaurru'  (è il nomignolo di una famiglia assai nota nel paese per la dedizione alla musica e al canto), cioè quella esatta (tranne il normale mutamento della liquida interna ‘L’ < ‘R’) della tavoletta A5 (v. figg 2 e 2B.) di Tzricotu (di Cabras!); a conferma cioè di quello che sostiene Mario Alinei che è la lingua dialettale quella che preserva meglio  le forme più antiche del linguaggio di un popolo. E' abbastanza facile ricavare allora che, se è vero che tra l'appellativo (riferito all'abay defunto ’rhg ggh[n]loy defunto citato nel sigillo: Sanna, 2004, Sardōa Grammata,12, doc.4, pp. 508 -510) riportato nel documento di Tzricotu ed il giorno d'oggi intercorrono tremila e trecento (3300) anni, con ogni probabilità la parola esisteva da molto, molto tempo prima, almeno dal neolitico-eneolitico, se non da prima ancora (mesolitico). Quindi, sempre come sostiene l'Alinei (e l'Angius), una voce di una popolazione da tempo ben radicata nel territorio e che va ben al di là, in termini cronologici, della famosa ipotetica  'invasione' calcolitica teorizzata dagli indoeuropeisti.
  Stesso discorso vale, naturalmente, e forse di più,  per la parola 'N(o)N(N)o-Y della stele nuragica di Nora (Sanna 2009, 3.4, p.104 e n. 204) in caratteri cosiddetti  'fenici arcaici' ma 'modus scribendi' ancora cananaico a rebus. Nonnoy/nonnay sono, come si sa, termini del linguaggio popolare dialettale, ma al contrario di 'gaurru, gavaurru' (che ha un'area di diffusione molto più limitata) diffusi in tutta l'Isola. La parola, di quasi tremila anni fa, dato che pare che la stele norense risalga al IX-VIII secolo a.C., è ascrivibile dunque ad un periodo ben più antico di quello supposto dal Wagner (DES p. 552, ed. a cura di G. Paulis) che la ritiene, sulla scorta del Meyer -Lubke (REW , 5817) di derivazione latino-romana. E’ dunque anch'essa dell'età neolitica se non mesolitica.
   Circa la parola 'preposizione'  'dhe', attestata per ben sette volte ( 2 volte in Tzricotu di  Cabras, due volte nella barchetta di Teti, due volte nell'anello di Pallosu di San Vero Milis e una volta nella scritta del Nuraghe Zuras di Abbasanta: v. per quest’ultima fig. 5) il suo valore documentario consiste nel fatto che possediamo una prova, inconfutabile,  che nella seconda metà del secondo Millennio a.C. la morfologia e la sintassi erano ancora quelle del sardo corrente.



Fig.5 Graffito del Nuraghe Zuras di Abbasanta


Come non credere allora alla 'prova' (II, pp. 975 -978)  del futuro perifrastico diffuso in tutta l'area 'neolatina', compresa quella sarda,  addotta dall'Alinei come sicuro indizio di una formazione non 'posteriore romanza' ma di una lingua anteriore a quella romana, che usa (‘forse’ però: Alinei, 2000, XXI, pp. 976 -978) la forma sintetica? E che dire allora di ‘ipse’ e dell’articolo sardo ? Che delle forme plurali in ‘s’?
E allora? Che si fa da questo?  
Riprendiamo le parole dell’Angius (che naturalmente valgono per i concetti espressi dall’Alinei):
Che si fa da questo? Che si possono alterare le opinioni, i costumi, le leggi e tutt'altro, di una nazione, quando viene in comunicazione strettissima con un'altra nazione di differenti opinioni,costumi, leggi, non mai la lingua''.

Io non so se questo ‘non mai’, l’espressione perentoria del canonico sardo, vada bene in tutti i casi. Ma per la Sardegna mi pare proprio di sì.
       

7 commenti:

  1. Grazie,Gigi,questo articolo non l'avevo letto nel blog di Gianfranco.Che emozione !

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  2. Sono riuscito a 'ripescarlo' e, ti dirò, a comporlo in qualche modo. Foto e cartine erano ben disposte da Gianfranco. Io mandavo soltanto lo scritto con le indicazioni di massima sul posizionamento di esse. Ho fatto di tutto per trovarlo perché ritengo di una certa importanza far capire che Sergio Frau avrebbe avuto più possibilità di aiutare le sue 'domande' sia attraverso le considerazioni dell'Angius linguista sia, soprattutto, attraverso la non certo trascurabile documentazione sulle voci (poche purtroppo, ma assai illuminanti) indoeuropee latine preromane (e di tanto tempo lontane da Roma!).

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  3. Gigi,sapesi come sono contenta della scelta di Gianfranco,di ritornare,perlomeno lui,nella nostra terra,credo che il suo contributo sia stato molto importante,e,non a caso,è nata la vostra amicizia.

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  4. Gigi, ci hai mostrato in tantissimi documenti che la scrittura nuragica sia sempre a rebus e un mix, non solo di alfabeti, ma anche di lingue o ceppi di lingua. Accanto a numerose parole semite, se ne rintracciano anche di indoeuropee, o italide per dirla con Alinei.
    Ormai pare anche serto che la scrittura nuragica sinora documentata sia di tipo religioso, e non sicuramente popolare, ma riservata a pochi, a una casta, diremmo oggi.
    Se nella prima metà del II millennio a. C., la popolazione dell'isola usava una parlata indoeuropea - e la usava da tanto tempo, come dici tu, dal neolitico e forse anche dal mesolitico - i Shardana dei Popoli del Mare che portarono la scrittura e gli alfabeti, evidentemente parlavano una lingua semitica, tipica della Terra di Canaan?
    Sarà stato allora per questo motivo che usassero per 15 secoli soprattutto il semitico nelle loro iscrizioni, per tenere la scrittura ancora più nascosta a un popolo che parlava italide, riservata solamente a alla casta degli ultimi arrivati?
    Forse pensavano anche che il loro unico dio Yh, anch'esso di provenienza cananaica, comprendesse meglio lodi e devozioni, se espresse nella lingua identitaria per il dio e per se stessi.

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  5. No Franco, gli stessi sacerdoti che portarono la scrittura e la lingua non portarono quella popolare 'semitica' di qualche luogo di Cananan, ma quella, con ogni probabilità' delle Sacre scritture ovvero dei testi che precedettero la Bibbia purgata. Ci fu insomma una specie di 'latino' della 'chiesa', una lingua alta e organica alla santità del Dio. Dobbiamo considerare lo sviluppo di quella 'religio' in Sardegna dove i sacerdoti pian piano furono anche sardi di ceppo italide. Penso anche che si parlasse il 'latino' indoeuropeo ma anche il semitico cananaico, ma non quello dei testi delle scritture. Ma forse parlare di queste cose è prematuro: speriamo che la sorte sia benevola e ci faccia rinvenire non 300 ma almeno tremila documenti. Allora forse le cose, dal punto di vista linguistico (non solo epigrafico), si capiranno meglio. Si sussurra che le tavolette (i sigilli dei Giganti) fossero molti di più, diverse decine. Se noi potessimo vederle sono sicuro che vi troveremmo altre parole di ceppo indoeuropeo (soprattutto i nomi di persona e gli appellativi). Insomma GGHLOY BEN e GWHLO BEN non sarebbero, come sono ora, parole rare.

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  6. Vuoi dire che il semitico era probabilmente solamente a uso e consumo della religione?
    Che i sacerdoti, anche quelli sardi-sardi, una volta diventati tali, usassero la lingua antica della religione non fa meraviglia.
    Basta vedere come i cardinali, bianchi, neri, gialli o grigioverde che siano, tra di loro nelle occasioni ufficiali parlano ancora la vecchia lingua di Costantino imperatore, patrono sedilese.

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  7. E' una lingua formulare quella dei documenti. Quella della magia dello scritto che è possibilità di salvezza per i defunti. Anche in Sardegna come in Etruria la scrittura agisce dietro la forma e il simbolo. Puoi in maniera relativamente facile capire questi con gli occhi ma quella te la devi guadagnare con la mente, con il ricorso continuo all'intelligenza. E non di rado è fatica vana.

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