venerdì 12 febbraio 2021

È morto Dante

di Francu Pilloni


Sono forti i cavalli? Forti come il ferro!

Non parlo dei cavalli di Frisia, non parlo dei cavalli purosangue e neppure dei cavallini della Giara che pure amo e ammiro. Al massimo parlo di mezzi cavalli, di centauri, di quei mitici mostri inventati dalla fantasia di uomini antichi, con busto e testa umani e corpo equino.

È di una disfida che voglio parlare, di un gioco che da ragazzino ho praticato assiduamente,

che d’un tratto cadde in disuso così repentinamente, che neanche un’ordinanza avrebbe avuto lo stesso effetto. Generalmente si giocava nel piazzale della chiesa, nel recinto a sinistra della navata, a ridosso del muro della cappella laterale a cui si accedeva da una porta secondaria, riservata agli uomini.

Si facevano due squadre, ciascuna da un minimo di tre a un massimo di cinque. Si faceva a pari o dispari tra i capi gruppo per accordarsi su chi doveva fare il “fantino” e montare in groppa e chi doveva fare il “cavallo”.

Il cavallo era formato da uno che stava in piedi con le spalle al muro (su maseddu), un secondo che si piegava e poggiava la testa sul fianco del maseddu, tenendosi ben stretto con le due braccia. Il terzo si piegava e si teneva stretto al secondo all’altezza delle natiche, il quarto e l’eventuale quinto a seguire, così che formassero la groppa di un supposto cavallo. La testa di quelli chinati veniva protetta dal braccio che girava sopra per agganciarsi al compagno che lo precedeva.

La seconda squadra doveva saltare, uno alla volta, in groppa alla squadra posizionata, senza che nessuno cadesse, si rovesciasse o solamente posasse un piede a terra.

Perché non ci fosse sorpresa, chi aveva preso la rincorsa per saltare gridava appunto “Cuaddus fortis? (cavalli forti?)”, a cui i chinati, se erano pronti, ribattevano con un “Fortis che ferru! (forti come il ferro!)”, perché non volevano farsi impressionare.

Finiti i salti, se i ragazzi della squadra ricevente si accorgevano che gli avversari erano ben posizionati sulle loro groppe, si arrendevano e il gioco ricominciava senza scambio dei ruoli. Diversamente si aspettava che qualcuno scivolasse dal groppone o poggiasse un piede per terra, dato che, a quelle condizioni, si riprendeva il gioco scambiandosi i ruoli.

In verità io ero piccolo, avevo solamente nove anni, ma Dante mi chiamava sempre in squadra per fare su maseddu. Dante aveva cinque anni più di me, era alto e asciutto come tutti i maschi di quella schiatta, correva e saltava in modo impressionante. Quando ci toccava saltare, mi lasciava per penultimo: ultimo saltava lui stesso e, nel salto, mi prendeva per il vestito e mi portava avanti, se mai fossi rimasto pericolante.

Dante era un ragazzo di una sensibilità estrema.

Dopo la quarta elementare – là terminava il corso degli studi nel nostro villaggio: due insegnanti per due classi miste -, andò ad Ales a frequentare la quinta e poi i tre anni della Scuola di Avviamento a indirizzo agrario. In zona, allora, non c’erano altre scuole post-elementari; ne aprì poi una il Vescovo, ma era a pagamento.

Ales dista circa tre chilometri dal nostro villaggio e tutti gli studenti andavano a piedi, quasi in proessione.

L’orario delle scuole era allora dalle otto a mezzogiorno per le elementari, sino all’una per l’Avviamento. Ci si doveva mettere in viaggio alle sette, al massimo alle sette e un quarto, un’ora in cui, in inverno, è ancora piuttosto buio.

Dante però aveva una carta in più da giocarsi: passava allora il Postale, che oggi diremmo corriera o, se si vuole apparire evoluti, pullman. Il mezzo era vecchio e antiquato col motore che sporgeva in avanti come un broncio di animale. Gli eventuali bagagli venivano accomodati sul tetto e, per salirvi, c’era una scaletta fissa sul retro.

Quando il postale ripartiva, l’autista era attento che nessuno si agganciasse alla scaletta; Dante però l’aspettava cento metri più avanti, nascosto nella cunetta dietro uno delle due querce che stavano a bordo strada, usciva veloce come una saetta e si agganciava restando rannicchiato perché il conducente non lo scorgesse dal retrovisore interno.

Era stato l’ultimo figlio di una donna pacifica che fu moglie in prime nozze del padrone dell’osteria locale, col quale ebbe due figli. Rimasta vedova, la donna si risposò ed ebbe altri due figli, fra i quali, come detto, Dante. Il nuovo marito faceva di mestiere il falegname, ma si adattava a fare il muratore, il bottaio e non schivava altri lavoretti estemporanei per i quali veniva chiamato nel villaggio.

Col matrimonio, l’uomo trovò una casa e sopra tutto l’accesso gratuito all’osteria: si ubriacava spesso, qualche volta due volte al giorno, scontava le sbornie seduto sul sedile di pietra della piazza antistante. E che ci fosse il sole o che piovesse, poco se ne curava.

Quando i figliastri diventarono adulti, intimarono alla mamma, e al patrigno suo secondo marito, di lasciar libera la casa con adiacente osteria, di loro esclusiva proprietà per testamento del genitore defunto.

Il padre di Dante allora tirò su una casa nel giro di due anni, costruita in pietrame e disposta su due piani. In effetti c’erano due camere sovrapposte ad altre due, ma poiché quelle di sotto non avevano soffitto, conseguentemente quelle di sopra non avevano pavimento, salvo le travi, distanziate di un metro, su cui avrebbero dovuto poggiare le assi, mai acquistate.

Dante dormiva su un apparato costruito da lui stesso in una delle stanze al piano superiore, ma per arrivarci non c’era una scala, neppure provvisoria o a pioli, né c’erano infissi a tappare le aperture. Vi si arrampicava e via, non ho capito se avesse legato un pezzo di fune o non so in quale altro modo acrobatico.

Per avere l’acqua in casa - non c’era un servizio di acquedotto nel villaggio - il padre volle provvedersi di un pozzo e ne scavò uno profondo tre metri, sebbene per trovare la vena in quel posto ne sarebbero occorsi almeno una ventina, se mai ci fosse stata una falda sul versante di una collina di roccia sedimentaria fatta di sottili strati inclinati.

Quando pioveva, nel pozzo ristagnava un po’ di pioggia e, soprattutto, ci cascavano i rospi che di notte giravano nel cortile, visto che lo scavo non aveva alcun tipo di protezione.

Dante, finito l’Avviamento, restava solo a casa; la madre andava a lavorare come bracciante, il padre chi sa dov’era, il fratello maggiore si era accordato a servizio come servo in un paese vicino.

Spesso andavo a trovarlo e ci divertivamo a infilzare i rospi con la punta di una canna appuntita a mo' d'arpione, di modo che, una volta trafitti, non potessero scappare e li tiravamo su con grande soddisfazione. Erano rospi grossi, di quelli che dicevamo ranas pabeddosas, perché pabedda in sardo è il nome della malattia del vaiolo che lascia il viso butterato, così com’è la pelle del rospo.

A casa non aveva nulla da mangiare e, quando una volta gli chiesi che cosa la mamma gli avesse lasciato di pronto, mi fece vedere un mazzetto di una decina di spaghettini fini fini che noi chiamiamo findeus, in Italia Capelli d’angelo. Ne prendeva uno alla volta e, acceso un fiammifero, lo passava sulla fiamma finché s’indorava. Dante ci soffiava sopra per freddarlo e poi lo mangiava. Non mancava di invitarmi a metterne in bocca un pezzettino, almeno come assaggio.

Quando compì diciassette anni, fece la domanda e fu preso in aeronautica.

Era un ragazzo intelligentissimo e voleva fare il pilota. Fece invece il motorista e arrivò al grado di sergente, ma poi si ammalò: esaurimento nervoso.

Non lo congedarono subito, lo tennero probabilmente perché era troppo buono e servizievole.

Il fratello maggiore si sposò e si sistemò  dalle parti di Oristano; la mamma andò a vivere con lui.

La semi-casa edificata dal padre fu venduta; Dante ereditò la casa della nonna paterna.

Un giorno, saranno passati una dozzina d'anni, vidi una Cinquecento rossa, quella della metà degli anni Sessanta, anteriore al modello L. Mi dissero che era la sua. Alla casa che dava sulla strada stava costruendo porte nuove: era evidente che qualcosa dal padre aveva preso.

Gli lasciai detto con un vicino che un albero di ailanto, che noi chiamiamo linna furistera (legno forestiero), era cresciuto nel suo orto e stava buttando il muretto divisorio col mio cortile: che lo tagliasse.

Due settimane dopo mi ritrovai in cortile alcuni pezzi di tronco e un biglietto: "questa è la parte che ti spetta", ci aveva scritto. Per il vero, a me non spettava nulla; Dante, nel dubbio, non volle passare per profittatore.

Non sono però riuscito a incontrarlo nemmeno una volta. Ormai ha più di ottant’anni.

Questo è stato Dante, il re de Is cuaddus fortis.

P.S.: oggi, 12 febbraio 2021, ho saputo che Dante ormai vive solamente nel cuore e nel ricordo di chi l’ha conosciuto. Un ragazzo mai cresciuto né dentro, né intorno a se stesso: nessuno in paese l'ha mai chiamato ziu Danti.



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