domenica 16 gennaio 2022

Scrittura metagrafica etrusca a rebus. Il ‘Sarcofago dei leoni’ di Cerveteri e i κνώδαλα di Chiusi

di Gigi Sanna


 Si dice che la lingua etrusca è, per svariati motivi, un enigma e un ‘rebus’. Ciò si sostiene, naturalmente, sulla base delle grosse difficoltà che insorgono nel cercare di capire di essa molti degli aspetti lessicali, morfologici e sintattici. In realtà, a mio parere, il ‘rebus’ sussiste e resiste nel tempo non ‘solo’ per motivi di carattere grammaticale e linguistico, ma anche e soprattutto perché si stenta a considerare un aspetto essenziale dell’etrusco: che la scrittura è cripica, cioè organizzata e strutturata di proposito con il rebus. E’ realizzata per non essere capita se non da pochissimi. Per tanto nella misura in cui si comprenderanno i meccanismi, spesso sofisticati, del rebus posti di norma in essere dalle scuole scribali dei santuari, si comprenderà la lingua etrusca. Essi sono simili e spesso gli stessi usati dagli scribi dei templi greci e nuragici. In particolare quelli inventati dagli scribi di questi ultimi.

     Il cosiddetto ‘sarcofago dei leoni’ di Cerveteri (fig.1) è stato rinvenuto nel 1950 in una tomba a inumazione.  Diviso a metà per la resa ottimale della cottura si compone, per quanto riguarda l’aspetto iconografico di quattro parti. Sulla parte superiore del sarcofago insistono accosciati quattro leoncini, raffigurati a tutto tondo, in coppia contrapposta e su quella inferiore, realizzati a bassorilievo, due leoni (un maschio ed una femmina) distesi e contrapposti tra di loro. In tutto quindi sei felini. Per l’originalità del manufatto il sarcofago è ritenuto all’unanimità dagli studiosi un grande capolavoro dell’arte etrusca anche se per la lavorazione della ceramica e per la realizzazione delle figure si pensa all’influsso di maestri greci di Corinto. Descritta accuratamente l’opera funeraria, individuati i possibili influssi e le derivazioni stilistiche di essa (1) nulla però si è detto circa il significato della raffigurazione nel suo complesso se non che i felini sono posti a protezione del sarcofago e quindi dell’inumato . Per chi già conosce però il particolare valore sacro del SEI, ovvero sa che il suddetto numero è sostitutivo in Etrusco, per convenzione ideogrammatica, del nome delle divinità astrali Tin e di Uni (2), l’opera denuncia subito che c’è dell’altro che va capito e che essa va interpretata in chiave acrofonica, ideogrammatica e numerologica. Denuncia quello di cui tante altre volte ormai si è detto: che dietro le scene apparenti si nasconde il vero e profondo significato dell’oggetto realizzato a fini funerari.

Se così è vediamo di analizzare bene i particolari e cercare di afferrare con l’uso della chiave A.I.N (d’ora in poi useremo, per brevità, la sigla) il significato preciso che si cela nel sarcofago. Partiamo dal numero complessivo dei felini che sono sì SEI ma sono realizzati in modo da dare TRE coppie di essi. Entra in gioco nel rebus (e ciò accade spesso) non solo il numero magico del SEI ma anche il TRE. Detto numero sappiamo che per convenzione è simbolo della ‘luce’ e, se il ‘tre’ è la luce, ovviamente il ‘sei’ è la doppia luce. Aggiungiamo ora quello che è stato detto dagli studiosi etruscologi circa la raffigurazione dei leoni e cioè che essi sono a ‘protezione’ del sarcofago e del defunto. Facciamo allora precedere sia il tre (la luce) sia il ‘sei’ (la doppia luce) alla voce 'protezione' e avremo ‘Protezione della luce della doppia luce’. Il senso che si ricava è quello sufficientemente chiaro che il defunto gode, a motivo di quella scrittura magica (che c’è ma che non si vede), della protezione della luce delle divinità astrali sole e luna (Tin e Uni).  Il senso, se si nota, è stato ottenuto e per via ideogrammatica (quella facilmente capita dagli studiosi) e per via numerologica (l’uso dei numeri usati come parole: il tre-luce e il sei -doppia luce). Vediamo però se l’uso della ideografia e della numerologia viene confermato nel resto della raffigurazione e se, come si è detto, si trova un altro aspetto della singolare scrittura che è dato dall’acrofonia (3). Esaminiamo ora i leoncini. Essi sono in numero di ‘quattro’, numero assai significativo questo che (insieme al cinque) è simbolo della ‘forza’ o della ‘potenza’. Otteniamo quindi ‘protezione della forza’. Ovviamente ci dobbiamo chiedere di chi sia quella forza protettiva. La risposta la si ottiene solo per via acrofonica e, quindi per iterazione logografica (4). Vediamo come. Partiamo dall’unico dato ‘certo’ che è quello della ‘protezione’. Se usiamo l’acrofonia dei leoncini non dobbiamo ricorrere a quella del nome ‘leone’ perché essa con la liquida iniziale, sia che si usi il latino sia che si usi il greco (5) non ci porta da nessuna parte’. Dobbiamo invece usare l’acrofonia che ci suggerisce l’animale leone che in greco è κνώδαλον e cioè ‘bestia selvatica’. Sarà bene dire subito che l’uso di questa acrofonia del greco è frequentissima nella scrittura criptata etrusca. La vedremo ancora fra poco, ma la faremo notare ancora più avanti, sia pur brevemente, servendoci come esempio di un altro sarcofago, fra i tantissimi, che fa uso della chiave A.I.N.  Scriviamo allora l’inizio consonantico della voce κνώδαλον e avremo C + C + C + C e cioè ‘C quattro’. La sequenza non vorrebbe dir niente o quasi niente se noi non sapessimo che ‘C’ (oppure ‘CI’) in etrusco vuol dire ‘tre’, vuol dire cioè, per convenzione numerica, anche ‘luce’. Se noi dunque scriviamo ‘protezione + quattro (forza) + C (luce)’ avremo un’espressione simile alla precedente ovvero ‘Protezione della forza della luce’. La differenza consiste nel fatto che nell’una manca la voce ‘forza’ nell’altra la voce ‘doppia’. In ogni caso il senso si è ottenuto sempre con l’impiego dell’ideografia, della numerologia e dell’acrofonia.

Vediamo ora se l’ A.I.N ci consente di capire qualcosa in più da ciò che ci è rimasto da interpretare: i due leoni raffigurati in un certo modo. Osservandoli bene si nota che essi:

a)      Sono raffigurati distesi e contrapposti

b)     Sono raffigurati con la coda sollevata e in forma di ‘C’

c)      Sono raffigurati l’una con la testa ‘girata’, che si ‘volta’, che ‘curva’, l’altro con la lingua che ‘si piega’, ‘curva’.

 

   Ovviamente i felini sono ‘bestie selvatiche’ ovvero κνώδαλα;  quindi otteniamo come primo dato ‘C’ + ‘C’ per via acrofonica. Sempre per via acrofonica otteniamo che la coda dei due felini ci dà ancora ‘C’ + ‘C’ (cauda - cauda).  Invece per via ideogrammatica si ottengono ancora altre due ‘C’ essendo le due code in chiara forma di ‘C’. Quindi e per via ideogrammatica e per via acrofonica si è ottenuto C + C; C + C; C + C. A questo punto uno potrebbe pensare che l’analisi sia completa e che il significato di una eventuale espressione sarebbe da ricercarsi nelle due ‘C’ ripetute tre volte. Ma così non è perché la crittografia funeraria etrusca usa formare le due ‘C’ ricorrendo ad uno degli ideogrammi più geniali (6), secondo noi, della storia della scrittura, tra l’altro uno dei più usati, per indicare il ‘tre’ o ‘C’ che dir si voglia. E’ quello suggerito dal movimento ternario continuo degli astri che ‘spuntano (si sollevano), si ‘distendono’ e quindi’ curvano’ (S.D.C in sigla).

Si osservino ora le posture delle due bestie selvatiche:

Il leone a destra solleva la coda, distende il corpo e piega (curva) la lingua; la leonessa solleva la coda, distende il corpo e piega (curva) la testa. I due ideogrammi ‘astrali’ rendono dunque, con i tre moti, ancora ‘C’ + ‘C’. Ragion per cui la nostra lettura della scritta crittata deve essere questa: ‘Protezione + CC+ CC + CC + CC. Cioè Protezione del ‘sei’ (C + C) ripetuto quattro volte. Il valore del quattro lo conosciamo (forza) per cui, mettendo in atto l’iterazione logografica, possiamo scrivere: Protezione della forza della doppia luce. Riprendiamo ora tutte le sequenze e avremo:   

Protezione della forza della luce

Protezione della luce della doppia luce

Protezione della forza della doppia luce

    L’autore della scritta del sarcofago è riuscito così, con le convenzioni del metagrafico, ad ottenere in un certo modo (uno dei tanti) la formula magica della salvezza che si basa sull’aiuto dell’intervento delle due divinità al fine di far giungere salvo, dopo il viaggio pericolosissimo negli inferi,  il defunto, sino al momento di rivedere nuovamente la luce e quindi di rinascere. L’aiuto del sole e della luna (o di Tin e di Uni) qui è dato dalla sola voce ‘protezione’ resa ideograficamente con la funzione dei felini al di sopra e davanti (frontalmente) al sarcofago. Ma potrebbe esserci al posto di essa la voce ‘sostegno’ o la voce ‘difesa’. Oppure ‘difesa’ e ‘sostegno’ assieme o ‘sostegno’ ‘protezione’ ‘forza’, secondo varie combinazioni che esplicitino l’aiuto delle divinità celesti. L’interessante è che l’aiuto divino sia garantito o dal ‘tre’ (la ‘luce’ in generale) o dal ‘sei (la ‘luce’ espressa analiticamente, composta dalla doppia azione continua del sole e della luna).

   Tutto il system di scrittura funeraria criptato degli Etruschi si basa su questa, in fondo assai semplice, formula apotropaica, cioè la formula della salvezza luminosa; formula semplice sì ma resa assai varia e difficile da ‘vedere’ e quindi da leggere agevolmente. Abbiamo già visto in altri saggi come si ponga formalmente in atto detta formula che trova la sua principale alleata, circa il suo nascondimento, nella variazione continua dei temi o soggetti (mitologici, storici, letterari, paesaggistici, astratti, ecc.)  che spesso sono lontani mille miglia dal far pensare che essi siano la ‘stessa cosa’. Ad esempio, come è possibile capire che la κύλιξ raffigurante il mito di Ercole e di Gerione in qualche modo possa aver a che fare, quanto a significato, con le raffigurazioni erotiche delle κύλικες dei simposi? Come è possibile afferrare che un soggetto così astratto come quello delle casse dei sarcofaghi raffigurante specularmente dei cipressi, delle bende e delle corna con un doppio portone al centro possa riportare una formula scritta, con un significato pressoché uguale a quello della casse raffiguranti invece due pelte con una ‘patna’ al centro? Come è possibile arrivare a comprendere che l’hydria raffigurante la scena omerica dell’accecamento di Polifemo quanto a senso non è granché differente dalla danza raffigurata nell’Hydria del Museo Di Villa Giulia in Roma, con i ballerini danzanti in vigore sessuale?

  Spesso a depistare sono gli stessi motivi in mix presenti nel coperchio e nella cassa, motivi che non fanno capire minimamente che attinenze possano avere tra di loro, dati i temi (le scene) completamente diversi. Per rendercene conto osserviamo il noto cippo di Chiusi (fig.2) e analizziamo le due raffigurazioni: al di sopra si trovano due mostri alati in riposo (o dormienti) disegnati contrapposti e accucciati di fianco. Al di sotto invece c’è una scena di danza. Che relazione mai può esserci? Nessuna sembrerebbe (7). Invece la relazione c’è e macroscopica. Ma non si vede. C’è la scrittura metagrafica a rebus, c’è la crittografia, c’è  la scrittura magica con fini apotropaici che si nascondono dietro la ‘manifesta decorazione’; quella che sembra fondamentale mentre è solo accessoria; quella che subito attira ed inganna circa ciò che si 'deve' leggere. 

Fig.2

 

   Ma per non andare troppo per le lunghe vediamo di ‘tradurle’ subito (8) le due scene raffigurate.

Coperchio: Tranquilla doppia protezione (da parte delle  due ‘bestie’ selvatiche o κνώδαλα) del SEI (doppia luce: 3 +3 ottenuto acrofonicamente) alato.

Cassa: Doppio sostegno (il suonatore con il flauto e il guidatore della danza) della danza del SEI (i due ideogrammi numerici celesti del ritmo ternario (9) del sole e della luna).

  Come si vede dunque l’attinenza tra le due raffigurazioni non sta nel soggetto, nel tema prescelto per ‘ornare’ il sarcofago. Sta nella scrittura nascosta, nel system o codice inventato che si basa sui requisiti dello A.I.N.

   E’ l’acrofonia, la ideografia e la numerologia che ci consente, se si tengono presenti, come si è detto,  certe convenzioni, di comprendere che il sarcofago di Cerveteri possiede lo stesso ‘messaggio’, la stessa espressione di quello che di sopra  abbiamo brevemente commentato e tradotto. E’ l’espressione ‘scritta’ in metagrafico circa l’aiuto (10) delle due divinità (Tin e Uni/Sole e Luna) che interessa, al di là di qualsiasi raffigurazione possa presentarsi o nei coperchi o nella cassa. Al defunto interessa ‘salvarsi’ e, dopo il viaggio periglioso agli inferi, arrivare sano e salvo nel mondo luminoso dove rinascerà. Fatte salve le piccole variazioni osserviamo, dal confronto dei disegni dei due sarcofaghi, che in fondo le espressioni dicono la stessa identica cosa:

Sarcofago di Cerveteri:  

Protezione della forza della luce

Protezione della luce della doppia luce

Protezione della forza della doppia luce

 

Cippo -sarcofago di Chiusi:

 Tranquilla doppia protezione del Sei (doppia luce)

Doppio sostegno continuo della danza continua del Sei (doppia luce).

 

Note e riferimenti bibliografici

 1. E’ il banale metodo descrittivo (al massimo ‘condito’ di simbologia incerta e non verificabile) che ovviamente si dà per scontato. Domanda semplice: ma se si pongono dei felini e delle ‘brutte bestie’ spaventose sui coperchi per ‘protezione’ come si spiegano gli altri numerosissimi coperchi che mostri non hanno a protezione ma le immagini dei defunti stessi? Evidentemente le voci di ‘aiuto’ (protezione, sostegno, certezza, ecc.) della divinità si trovano ‘scritte’ altrove, ovvero negli aspetti, negli atteggiamenti o nelle ‘cose’ che arricchiscono la raffigurazione umana dei trapassati.

2. Il numero tre come ideogramma della luce ed il sei della doppia luce sono il cardine, si può dire, di tutta l’espressione in A.I.N. (acrofonia, ideografia, numerologia).

3. Sull’uso dell’acrofonia ovvero sulla /sulle lingue su cui essa si fonda abbiamo detto. Avvertendo più volte che essa va studiata a fondo alla luce dei tantissimi documenti che possediamo e che contengono l’uso del metagrafico. Comunque sembra che, al momento, si possa sostenere che le lingue impegnate e di riferimento siano, oltre all’etrusco, il greco e il latino. E sembra ancora pressoché certo che l’etrusco prende dal metagrafico sardo moltissimo tranne un aspetto ‘necessario’, quello della lingua semitica. I sacerdoti scribi etruschi acquisiscono lo schema A.I.N e molte delle convenzioni del nuragico, compresa quella della iterazione logografica, ma il system specifico dell’indoeuropeo costringe loro a sfruttare l’acrofonia dalle lingue in uso nel loro territorio o nei territori circostanti (del Lazio e della Magna Grecia). In questo uso plurilingue ci sembra di comprendere che forse le ‘tre’ lingue in uso (l’acrofonia basata su di esse) abbiano una funzione non solo strumentale ma anche magica. Il ‘tre’ ovvero la ‘luce’ continuamente ripetuta contribuisce, nascostamente, a rendere ancora più intraducibile o limitatamente traducibile,  il contenuto complessivo della scritta realizzata per non essere letta pena la perdita del carattere apotropaico di essa.

4. Ripetizione per un certo numero di volte del nome per ottenere il significato convenzionale del numero.

5. V. nota 3.

6. 

7. A meno che non si ricorra a quella, diremmo ‘semplicistica’, che impegna tantissime scene dell’iconografia etrusca dei sarcofaghi (e non solo) e cioè che esse abbiano la funzione decorativa di riprodurre realisticamente parte del rito etrusco di accompagnare il defunto alla tomba con musiche e danze (e le prove?).  

8. Ormai ci sembra del tutto inutile, quasi una ‘perdita di tempo’, dopo non poche nostre presentazioni e commenti di documenti etruschi, di far precedere il tutto con la spiegazione dettagliata dell’uso del metagrafico da parte degli scribi etruschi.  

9. Nella danza della coppia celeste Tin e Uni, rappresentati dai due ballerini (maschio e femmina) si noti, tra l’altro, il fatto che essi si danno le spalle e, con tempi uguali (ritmo eguale), procedono nella stessa direzione (est -ovest). V. per conferma (tra le tante) la fig. seguente (scena di sarcofago da Chiusi). Il ballo etrusco con il ritmo del ‘tre’ (S.D.C.) risulta essere in tutta evidenza un ballo specifico, cioè la danza del sole e della luna.

10. Protezione, difesa, sostegno, forza, abilità, certezza (doppia o no, a seconda che ci si riferisca alla luce o alla doppia luce) delle divinità (o della luce) sono le voci fondamentali nascoste della formula, quelle che in apertura caratterizzano ogni documento funerario etrusco.  Si tratta di saperle individuare, stando attenti soprattutto al fatto che possono trovarsi assieme o singole. Nel ‘sarcofago dei leoni’ di Cerveteri c’è solo la ‘protezione’, ripetuta tre volte; in quello di Chiusi c’è la ‘protezione’ scritta nel coperchio che si unisce al ‘sostegno’ scritto nella cassa. Il ‘sostegno’, in genere ripetuto ideogrammaticamente quattro o cinque volte, è quello che si riscontra, in particolare, nel coperchio dove appaiono sdraiati di fianco e ‘sostenuti’ (cuscino - gomito) nella κλνη i defunti. Si vedano le figg. seguenti con la chiara serie dei ‘sostegni’: 








   






4 commenti:

  1. Addentrandoci nell'intimo delle regole scrittorie riesco a capisce che per la ricerca dell'acrofonia è necessario indagare non tanto il nome dell'oggetto o animale che la esprime (in questo caso il leone) quanto la natura del leone, ossia animale feroce o selvaggio. Per tanto all'interno di questa classe possiamo mettere tutti quegli animali e/o esseri che sono κνώδαλον, voce greca che ha proprio il significato di animale selvaggio, feroce, pericoloso, ma anche di mostro e cosa orrenda.
    In ragione di ciò rientrano in questa categoria anche satiri, sirene, chimere, centauri e tanti altri.
    Per tanto allargando la regola agli oggetti, anche lì mi sembra sia necessario pensare non per oggetti ma per classe di oggetti, individuando la materia prima che li costituisce, ossia l'origine dell'oggetto.
    Prendiamo il caso del “corno”; esso è essenzialmente naturale per tanto sarà Kέρας in greco e Cornu in latino, perché non può essere ricondotto a null'altro di più semplice. Se prendiamo in esame invece i recipienti che spessissimo vengono raffigurati nelle scene di kylix ed anfore, di certo non possiamo utilizzare l'acrofonia dell'oggetto precisamente raffigurato, perché nel caso di una ”kylix” andiamo di lusso, ma nel caso di un'anfora o di una brocca (πίθος oppure οἰνοχόη), di certo l'acrofonia non regge. Per tanto come nel caso del leone che è un κνώδαλον, così pure tutti i recipienti di ceramica raffigurati sono κέραμος, perché il termine li ricomprende tutti.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Non so se proprio se sia così. Potrebbe. Ma è la lettura e l'assiduità nel leggerla, per poter decifrare bene il codice, che ci può dare delle risposte. Bisogna comparare il più possibile e da più documenti a confronto capire le 'regole'. Certo è, come ho detto spesso, che l'acrofonia è la più difficile da comprendere nel suo uso preciso. Ciò che mi sembra abbastanza certo è il fatto che si possa attingere da tre scritture. E ciò a motivo del 'tre' magico. Il mix è del tutto organico al system.

      Elimina
  2. E' certamente vero Professore, e in ragione di questo nel tempo libero mi sto documentando il più possibile; sto scaricando immagini di manufatti tutti riferibili all'Etruria e proprio lo studio di questi manufatti sta iniziando a formare in me una idea in tal senso. Faccio un esempio a riguardo del corno: che l'oggetto sia usato per bere vino o quale strumento musicale, poco importa, la sua essenza è quella di corno e come tale dobbiamo intenderlo e di esso usare l'acrofonia.
    Per quanto riguarda i contenitori di “ceramica” o “terracotta” allo stesso modo dovremmo intenderli tutti come "terrecotte o ceramiche". Penso che non sarebbe altrimenti spiegabile, ad esempio, l'immagine di un ragazzo nudo, con indosso solo un drappo, che sostiene con due mani e tra le gambe un'anfora da trasporto navale con fondo a punta. In quella kylix, a parte la scena sul bordo piuttosto interessante, al centro vi è solo il ragazzo col suo vestito e l'anfora; e l'acrofonia, se questa dobbiamo cercare in quell'immagine, può essere data solo da quei due oggetti.

    RispondiElimina