mercoledì 29 giugno 2016

8 - GENTI E COSTUMI ROSSO PORPORA

SEMIOTICA NELL’ABBIGLIAMENTO  
VEDOVA CHE SI RISPOSA


di Giancarlo Casula

pè de pudda, pubusas e piccios de arranna,
mannuncheddas, carronadeddas e trincigeddas
traigeddos, ischinette lisu e ischinette prenu……..

Quando una donna si risposava non indossava più l’abito nero da vedova, ma neppure quello sgargiante del primo matrimonio. Aveva i colori che la contraddistinguevano per i segni di gioia e di luto, caratteristico del costume delle vedove che decidevano di risposarsi. Il suo vestito seguiva, infatti, il codice che definiva questa nuova condizione
sociale. Il colore, da nero, si era ravvivato, come il suo stato d’animo, senza però raggiungere la luce e quindi la felicità del primo matrimonio. L’abito, mai come in questa occasione, era un autentico documento con segnali e concetti chiarificatori. Doveva trasmettere, a distanza, il suo stato d’animo, i rapporti con i parenti del suo primo marito, il nuovo stato sociale conseguente a questo evento. Dolore e felicità, rispetto per il passato, gioia per il presente, speranza per il futuro. Doveva essere una sintesi di mille discorsi e di mille problemi e, nel giorno più importante, chiarire e notificare, in chiesa, la nuova posizione civile e sociale. Per la donna il segno sull’abito era la forma più espressiva, superiore, per precisione, a qualsiasi linguaggio. Più universale di quanto fosse la lingua parlata nell’esprimere i concetti ma soprattutto era un “documento indossato” che dichiarava, attestava e giurava la sua scelta in chiesa davanti a Dio ed a tutta la comunità. Tutti dovevano vedere quanto certificava il suo vestito-documento.
Nelle tinte e nei ricami del suo abito c’era tutta la diplomazia politica conseguente a quel momento. La seta verde, nei ricami, attenuava l’effetto luce del binomio  giallo limone e giallo oro. Le bordature col nastro in raso non erano piu’ di color turchino ma diventarono di una tintura viola, elegante e senza eccessi. Grembiule (saùcciu) e gonna (cammisedda) non ripresero l’esuberanza e l’allegria del color porpora dei tempi giovanili ma divennero di un sobrio ma significativo color vinaccia. Solo nella parte piu’ in basso della gonna (farradura) il vestito ritrovava il vivace e festoso rosso scarlato.
I ricami, le bordature ed i tagli di colore venivano eseguiti con disegni geometrici, essenziali e solenni. 
La donna che si risposa non doveva dimostrare troppa esultanza, perché avrebbe colpito la suscettibilità de s’arèu del primo marito (del quale aveva ereditato casa e beni). Ma non doveva neppure mostrarsi triste o incupita per non suscitare il risentimento del nuovo parentado (al quale doveva dimostrare di essere felice e onorata di poterne far parte). Poteva anche ricordare, con ulteriori segni, avvenimenti collaterali positivi o negativi, accaduti nelle famiglie coinvolte nel matrimonio, e questa sensibilità sarebbe molto apprezzata da tutti. Ma la donna doveva sopratutto ribadire, in chiesa, di fronte a Dio e nel paese di fronte a s’arèu, il suo ruolo, responsabile, di mamma, quello di donna libera da ogni paura, emancipata e religiosa.  

Oggi, come nelle pagine di un libro, ai colori felici e spensierati che avevano contraddistinto il vestiario nel giorno del primo matrimonio, doveva aggiungere quei toni che nei momenti bui hanno segnato, tristemente, la sua esistenza. Il riassunto deve contenere i riferimenti emotivi verso le tre famiglie di cui comunque fa parte (quella materna, quella del primo e quella del secondo matrimonio). E lo fecce con tinture, materiali e ricami rigorosi ed eleganti, misurati e prestigiosi. Il suo abito doveva rappresentare la celebrazione solenne di queste vite.
Le tinte dei tessuti, la composizione dei ricami e la scelta dei nastri dovevano descrivere, inoltre, lo stato d’animo della sposa. Una nuova felicità espressa attraverso il linguaggio del vestito doveva indicare con emotività del momento, il rispetto del passato e l’impegno ai vincoli che, per sempre, la manterranno unita al parentado del primo marito. Ogni particolare segue le linee codificate per il vestito da vedova che si risposa. Sono infatti pochissime le variabili concesse alle scelte individuali nella rappresentazione del costume. Il dizionario linguistico non ammette un lessico personale. Il codice e’ unico per tutta la comunità non essendoci varianti dovute a differenze sociali, di professione o di ruolo.

11 commenti:

  1. Ed io son costretto a chiedermi!
    Ma, quante decine di millenni dovettero essere incisi, nella loro variabile diversità soggetta ai terremoti del vivere nel mondo tutto, quello proprio, ove si aggregava e veniva composto questo naturalmente sentito e provato (ancorché limitato alla sola sfera del vestire, ch’era appunto una davvero complessa immagine di sé) programma sociale, nonché quello esterno ed universale che veniva anch’esso influenzato carpendone le più confacenti, sostanziose note, perché all’oggi vi sia alcuno in grado di decodificare un passato, sì grandemente pregno di tal duratura forza del bel vivere appieno, appartenuto ad una Società Sarda che vi parrebbe aver raggiunto il più alto livello evolutivo nella coltivazione del bello e nell’esprimerlo (non per il banale mezzo di segni grafici, chiamati scrittura, ch’è ciò che tutti indistintamente sepper fare) attraverso una sapiente miscellanea d’elementi che traduconsi in così sofisticata codifica cromatica?
    mikkelj
    I.A.- spero anche stavolta, le mie parole non asciughino la vena d’intervento di tutti color che davvero sanno!

    RispondiElimina
  2. Nell'attesa della vena generosa di quanti davvero sappiano, per parte mia (naturalmente) solo altre riflessive domande.
    Nello scoprire la ricchezza semantica specificamente del vestiario di Desulo è inevitabile chiedere (da perfetti ignoranti in materia) circa i rapporti, in primo luogo, tra il linguaggio degli abiti di Desulo e il linguaggio degli abiti (altrettanto ricco o meno che sia) degli altri paesi della Sardegna; e, in secondo luogo, circa i rapporti eventualmente rintracciabili tra il linguaggio o i linguaggi dei vestiti della Sardegna e quelli delle genti altre, con particolare riguardo a quelle con le quali le nostre impronte storiche e protostoriche ci suggeriscono possibili nessi.
    Trovare con queste genti "imputate" (tra le altre) rapporti certificabili anche su questo piano sarebbe un altro gran bell'indizio (come per legami quanto alla cultura materiale, ai pani, agli strumenti musicali, alla musica, al canto, al ballo e chi più ne ha più ne metta). Non trovarne, per converso, dovrebbe sottrarre forza alle ipotesi di legami che andiamo costruendo, a meno di giungere invece a capire che le radici di tali codici siano intrecciate in rapporti storici più recenti.
    Non piccola impresa per i pochi che davvero sappiamo o per quei sempre pochi che abbiano comunque la capacità di andare a fondo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Non piccola impresa per i pochi che davvero "sappiano" ... (ecc.)

      Elimina
  3. Mi chiedo se apparteneva a tutti I ceti sociali questo presentarsi "au paize" in codice o variava a secondo dell'appartenenza?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Thor, la risposta (di cui al solito mi fido, qui, finché almeno qualcuno non la metta in dubbio) è nell'ultima frase dell'articolo e mi pare abbastanza chiara:
      "Il codice è unico per tutta la comunità, non essendoci varianti dovute a differenze sociali, di professione o di ruolo."

      Elimina
    2. Grazie Francesco,avevo letto,ma quando non so,sono sempre un po diffidente.....e lo sono ancora

      Elimina
  4. Come premesso nel primo degli articoli pubblicati, tutte le descrizioni sono tratte dal mio libro Desula in cui si raccontano le vite reali di donne della mia famiglia attraverso l’esegesi e la decodificazione dei loro vestiti. Il costume è il filo conduttore che lega la descrizione di questa comunità di donne che vive nelle condizioni più estreme per la Sardegna. Infatti alla povertà comune in tutta la regione si somma il l’isolamento anche dai paesi limitrofi, una natura ostile, impervia ed il clima che allontana la popolazione dalla campagna per gran parte dell’anno. Le donne in inverno si ritrovano sole con i loro bambini ad affrontare oltre la povertà anche la rigidità del freddo, della pioggia e della neve. Infatti per gran parte dell’anno vivono senza i loro uomini che con un lenta transumanza seguono le greggi nelle lontane pianure del campidano.
    Nel periodo a cavallo fra il 1820 e il 1939 che io descrivo nel libro non ci sono strade di transito poichè la Desulo Fonni viene realizzata nel 1960 e collegherà due paesi confinanti che non si conoscono, parlano due lingue diverse, fra di loro incomprensibili e che durante i secoli si sono combattuti per accaparrarsi le terre tra i versanti del Gennargentu. Queste donne alle difficoltà e alle sofferenze rispondono con il lavoro e la solidarietà. Si muovono in paese e in campagna per lo più scalze (fino alla seconda guerra mondiale si potevano vedere donne andare scalze sulla neve). Si moriva anziani e consumati a sessant’anni, solo una trentina di donne su quasi 900 erano riuscite a superare questa soglia
    ............In questa realtà così difficile e senza tante gratificazioni l’elemento che rappresenta una risposta alla fatiche della vita era il costume. E’ l’abito con cui ti presenti la domenica alla messa al cospetto di Dio e che stabilisce l’uguaglianza culturale e sociale all’interno della comunità. Quello che ti segnala all’occhio degli uomini e che ti segue, in tutti i sacramenti, rappresentandoti dal battesimo sino alla morte. La sua bellezza e’ tale che, nonostante le difficoltà quotidiane, riesce ad elevare l’importanza esistenziale. Con il costume la donna assume il coraggio filosofico della metafisica. Supera l’instabilità, l’incertezza e la precarietà degli elementi mutevoli e gravosi per cogliere ciò che considera autentico, universale, necessario ed assoluto................

    RispondiElimina
  5. Gentile Giancarlo, viva impressione (riguardo a questo suo commento) pensare che ancora nel 1960 le confinanti Desulo e Fonni (addirittura combattutesi durante i secoli per accaparrarsi le terre tra i versanti del Gennargentu) non si conoscono e parlano due lingue così diverse da risultare ciascuna per i vicini incomprensibile. Viva impressione riguardo al nostro idealizzare (se così posso dire) una identità sarda accomunante più di oggi le nostre antiche genti (per quanto non ignoriamo appunto campanilismi tra paesi vicini e tra capoluoghi lontani).
    Come poi mi sono permesso di rispondere a Thor citando passi dal suo articolo, potrei allo stesso modo provare a rispondere a me stesso: quando chiedo circa i rapporti eventualmente rintracciabili tra il linguaggio o i linguaggi dei vestiti della Sardegna e quelli delle genti altre (con particolare riguardo a quelle con le quali le nostre impronte storiche e protostoriche ci suggeriscono possibili nessi) so che nei primi estratti dal suo “Desula” qui pubblicati si guarda a Cretesi, Fenici, Etruschi, Berberi e Kirgisi; ma auspicavo appunto di poter rintracciare rapporti al livello del sistema sintattico dei vestiti (che sembra così peculiare) e non solo (più genericamente e quindi meno specificamente) al livello di somiglianze in qualche colore, in qualche forma e in qualche tessuto (benché anche tali elementi non siano privi di interesse).
    Sempre rifacendomi al testo qui pubblicato (Genti e costumi rosso porpora – Creta; 21-05-16) mi piace allora, a proposito dei rapporti con altre genti sulle cui tracce il nostro Mikkely in particolare si impegna, citare (con minime licenze) un suo passaggio.
    “La donna cretese, così come quella desulese, indossava un’ampia gonna a campana (camisedda), un corsetto aderente aperto davanti (palettas) ed un grembiule (saucciu), con sulle braccia un giacchino (a mezzo braccio: cippone). Il colore rosso sgargiante veniva abbinato al blu disegnando le fantasie che hanno da sempre colpito gli studiosi. Gli Egizi, i Greci ed i Romani non seguirono, tuttavia, nella storia occidentale, l’impronta sartoriale di questo costume. Il vestito con la gonna a campana affiora invece in alcune culture balcaniche dell’età del bronzo e del ferro ed in particolare in Bulgaria ed in Serbia. Emergono anche evidenti affinità, nel taglio e nelle decorazioni geometriche, con la rappresentazione di una statuina femminile in argilla trovata in Romania (a Cirna), risalente all’età del Bronzo. Ma è il riferimento al culto della dea madre come simbolo di fertilità e fonte di vita che, a mio parere, collega la donna e la cultura cretese alle culture più arcaiche dell’Europa orientale. La società neolitica era matrilineare e venerava la potente dea della fertilità; questa impronta aveva resistito in diverse aree alla dominazione degli aggressivi Indoeuropei (guerrieri a cavallo che conquistando i territori impiantarono, quasi dappertutto, una cultura patrilineare); le donne, abili artigiane, in alcuni villaggi montani e in alcune aree isolate continuarono a mantenere, nei loro costumi, i canoni che dovevano rappresentare la continuazione di quel sistema sociale nato dalla venerazione della divinità protettrice. È così che la cultura di Cucuteni (che precede di qualche centinaio d’anni tutti gli insediamenti umani Sumerici e dell’Antico Egitto) lega i costumi dei villaggi montani dei Carpazi a quelli slovacchi, rumeni, siberiani, moldavi, ungheresi, macedoni ecc.”
    Provo dunque a chiederle, gentile Giancarlo, se le licenze che mi sono permesso tra queste virgolette tradiscano o meno il suo pensiero. E ancora se una qualche bibliografia possa illuminare oltre queste succinte frasi (mi riferisco in particolare ai costumi) o se queste (come una prima navigazione in rete indurrebbe a credere) siano a oggi tutto quel che si può appena congetturare.

    RispondiElimina
  6. Vi ringrazio moltissimo per le vostre osservazioni. Ho voluto scrivere su questo sito proprio per questo motivo: è qui che si rimette in discussione ciò che appare ovvio, catalogato e .. ..sepolto. .....
    Quanti segni trovati nei muri, sulle rocce, nelle ceramiche a volte esposte nei musei archeologici vengono rimessi in discussione dagli studiosi che intervengono su questo sito. Quello che appare scontato, attraverso lo studio e la ricerca, viene rivisto, analizzato e spiegato.
    Gli studiosi che hanno liquidato la nascita dei costumi sardi come risalenti al “600 -“700 devono, a mio parere, rivedere le proprie teorie. Se e’ indiscutibile, infatti, la similitudine di questi con una parte di quelli presenti in Sardegna, appare evidente che costumi come quello di Desulo non hanno niente a che fare con questa teoria per buona pace delle donne delle Asturie, della Navarra, dell’Aragona e di Aleste in Zamora.
    Si fanno paragoni di tipo sartoriale ma, come ho descritto nel mio libro Desula, le differenze stanno nei “contenuti”. Io sono infatti partito da un’analisi semiotica. Ai colori e ad i segni sono abbinati i relativi significati fino a raggiungere un quadro organico, complesso e raffinato.
    Un po’ come il prof. Sanna ha fatto con le tavole di Tzricotu di Cabras dove altri“studiosi” cercano una rassomiglianza estetica senza capire che i segni non sono semplicemente coreografici ma rappresentano precisi significati epigrafici.
    Il mio paese, proprio per il suo isolamento, ha tenuto più a lungo l’uso del costume. Questo mi ha permesso uno studio “vissuto” del fenomeno. Mia mamma ancora oggi a novant’anni lo indossa difendendo, con un rigore sacrale, la complessità dei segni e la coerenza dei loro significati. Il libro serve come una testimonianza, perché il periodo che stiamo vivendo è un vero e proprio spartiacque storico e il cambiamento è sempre più veloce. È un mio dovere, non un aspirazione personale: è una testimonianza e un grido di allarme di un mondo che sta sparendo senza che la nostra generazione di laureati abbia neppure saputo capirlo.
    Io spero con questo libro e con questi articoli di provocare nei lettori una nuova rivisitazione, una accurata ricerca e le conseguenti spiegazione dei costumi dei paesi della Sardegna.

    RispondiElimina
  7. Signor Casula,lei ha fatto un lavoro stupendo e la mia preoccupazione è proprio che questi valori,conquistati con grande fatica, di cui lei parla, possano andare persi in breve tempo.L'isolamento e le difficoltà di comunicazione,tra i vari paesi,per certi aspetti,è stata una ricchezza.Come sarebbe bello se si riuscisse a mantenere vive tutte le tradizioni dei singoli paesi,oggi facilmente raggiungibili e nei tempi passati ogni paese era un piccolo mondo a sé.

    RispondiElimina