giovedì 3 marzo 2016

Aspetti dell’elemento igneo nel simbolismo legato alla morte.

di Matteo Corrias
 

Nel IV libro dei Fasti (vv. 681-682), Ovidio informa di una pratica rituale, ai nostri occhi barbaramente bizzarra, inserita nel contesto dei Ludi Ceriales con i quali si concludevano, il 19 aprile, gli otto giorni dei Cerialia, la celebrazione maggiore in onore di Cerere: delle volpi erano lasciate libere nel Circo massimo con il dorso ardente per le fiaccole che vi erano state legate («vinctis ardentia taedis terga»). La notizia è proposta già dal poeta come una curiosità di cui sarebbe interessante individuare la causa, e la cui spiegazione è infatti affidata, nei versi seguenti, al racconto di un vecchio di Carsòli, che riferisce la pratica della corsa delle volpi incendiate all’atto di un giovane contadino che, per punire una volpe colpevole di aver ucciso e divorato alcuni volatili nel cortile di casa sua, le legò della paglia attorno al corpo, le diede fuoco e la lasciò libera per i campi di grano, che ne furono incendiati e completamente distrutti. Ecco dunque quella che dovrebbe essere l’eziologia della cruenta pratica: «utque luat poenas, gens haec Cerialibus ardet, quoque modo segetes perdidit ipsa perit» (vv. 711-712).

Superata l’inutilizzabile spiegazione ovidiana, evidente tentativo di giustificazione razionalistica del fatto cultuale, il significato dell’atto di liberare gli animali, il significato delle volpi e quello del fuoco sono stati molto discussi[1]: si è ad esempio ritenuto di dover collegare questa pratica rituale alla celebrazione dei Robigalia che segue di qualche giorno quella dei Cerialia, attribuendole un significato magico apotropaico (con la funzione di allontanare la robigo, la “ruggine” del grano di cui la volpe, col suo pelo fulvo, sarebbe figura), ovvero si è creduto di poter istituire qualche significativo parallelo con credenze popolari, ancora oggi diffuse in area franco-tedesca, secondo le quali la volpe (e la sua coda in particolare, che alcuni interpreti indicano esplicitamente come simbolo fallico) avrebbe un certo quale legame con la fertilità dei campi. H. Le Bonniec[2], secondo il quale questa singolare consuetudine deriverebbe dal sostrato italico del culto, spiega l’usanza facendo riferimento alla «psicologia del fuoco» in base alla quale tale elemento veniva interpretato dagli antichi come principio creatore e soffio vitale chiamato a «scaldare», per il tramite delle volpi, il suolo così da favorire la nascita e la completa maturazione dei prodotti vegetali. Più apodittico, anche se non meno estroso, Dumézil, che si dichiara certo del fatto che le volpi incendiate «possono riferirsi unicamente alle spighe in formazione, dopo l’uscita dal terreno»[3].

Al di là della maggiore o minore pertinenza degli elementi di esplicazione che sono stati forniti dagli studiosi, è proprio l’astrusità della pratica rituale delle volpi ardenti a renderne alquanto problematica un’interpretazione organica e non completamente aleatoria. Vero è tuttavia che una manifestazione cultuale, per quanto astrusa essa possa apparire, che presenti dei significativi paralleli in differenti tradizioni arcaiche (o in residui tradizionali riconducibili alla fase arcaica di una cultura), si presta ad una lettura nella quale concezioni corrispondenti (e la cui concordia sia evidente e documentabile) si illuminano vicendevolmente, rivelando una sola e la stessa radice archetipica, la cui origine lascia immancabilmente trasparire un sostrato antropologico e culturale comune a ogni civiltà umana.
È questo, per l’appunto, il caso delle nostre volpi, che egualmente trasformate in torce, troviamo inviate, secondo il racconto di Giudici XV 4ss, a devastare i campi di grano dei Filistei dall’eroe nazireo Sansone. Il testo biblico narra che Sansone, invaghitosi di una Filistea, la chiese in sposa al padre, il quale tuttavia, dopo avergliela concessa, gliela negò inspiegabilmente dandola anzi ad un altro uomo: per vendicarsi, Sansone catturò trecento volpi che legò a due a due per la coda, applicandovi una fiaccola ardente con la quale gli animali incendiarono completamente le messi dei Filistei. Limitiamoci per ora a riferire il dato, evidenziandone la palese concomitanza col culto romano di Cerere, e ad esso aggiungiamo una seconda notevole concordanza, in una consuetudine, ridotta oggi ad elemento di folklore, che ebbe in Sardegna una sua vitalità nella tradizione popolare almeno fino a due generazioni fa: mi riferisco alla corsa de «is fracchéras», lunghi fasci di asfodelo secco che, sorretti dai giovani sulle spalle, venivano accesi e condotti di corsa lungo le vie di Gadoni la sera del 2 Novembre, in occasione della commemorazione dei defunti[4]. Collegata al simbolismo sotteso ai riti e all’episodio biblico che abbiamo riferito è forse la festa iranica di Sada – in genere posta in rilievo, a questo riguardo, con grande scrupolo – in cui si trattava, a quanto assicura F. Liebrecht[5], di dar fuoco ad animali di vario tipo (ma pare soprattutto a volatili) per poi rincorrerli per le campagne.
Ritorniamo però ai Ludi Ceriales romani, per osservare, in via preliminare, che il solo dato incontrovertibile di cui disponiamo relativamente alla corsa delle volpi incendiate nel Circo è quello della sua collocazione cultuale nel contesto, per l’appunto, delle celebrazioni rituali in onore della dea Cerere. Ora – come è noto – nel pantheon romano arcaico, Cerere è la personificazione della forza vitale, dell’impulso di crescita delle piante e degli animali[6]: non a caso la sua vittima sacrificale tipica è la scrofa, la più prolifica tra le femmine, immolata alla dea durante la festa dei Cerialia[7]. Il nome Ceres è peraltro riconducibile alla radice indoeuropea *ker-, da cui deriva l’antico verbo latino cereo e la sua evoluzione creo (con l’incoativo cresco). Il significato del verbo è chiaro, e implica il concetto di “crescita”, “spinta evolutiva vitale”. A questa stessa radice si può collegare il sostantivo cerebrum (cervello), che designa propriamente la sostanza vitale e generativa (lo sperma) che, secondo la concezione fisiologica arcaica comune a tutte le civiltà di origine indoeuropea, era contenuta nel cranio (che presso i Romani era, non a caso, la sede specifica del Genius di ogni individuo[8]) e si trovava diffusa in tutto il corpo: nel midollo spinale, nelle ginocchia (che “si sciolgono” quando l’individuo muore), nel grasso addominale (l’omentum, che costituiva la parte sacra della vittima, destinata esclusivamente al dio), e nel sudore[9]. Questa specifica pertinenza di Cerere ne giustifica con tutta evidenza lo stretto legame con la spiga di grano, e con il chicco (il «seme») in particolare, evidentemente assimilato al capo, se è vero che «prima Ceres docuit turgescere semen in agris, | falce colorata subsecuitque comas [...] deciderant longae spicea serta comae»[10].
Quale depositaria della fecondità, Cerere ha anche uno stretto legame con la morte, i riti legati alla quale (intesa come “passaggio di stato”, “ri-generazione”) consentono di osservare un ruolo preponderante della dea: limitiamoci qui ad osservare che dopo ogni decesso era offerta a Cerere, praesente cadavere, una scrofa (detta perciò praesentanea) per purificare la familia[11]. Il rapporto della divinità con il regno infero è tuttavia assai più generale, profondo e pregnante, se ad essa era consacrata quella misteriosa apertura verso il mondo sotterraneo che era il mundus Cereris mundus»[12]), e che si trovava proprio entro il recinto del tempio di Cerere. È vero che secondo Macrobio il mundus era dedicato a Proserpina[13], ma come è stato giustamente osservato[14], prima dell’assimilazione alla greca Demetra, Cerere svolgeva anche le funzioni di Proserpina. È certo inoltre che la dedica del mundus a Dis Pater e Proserpina, entrati nel pantheon romano dopo i ludi Tarentini del 249 a.C., fosse successiva alla dedica del luogo di culto a Cerere.

Proprio a questa speciale competenza “funebre” di Cerere ci pare debba essere riferito il rito delle volpi, similmente a quanto è possibile rilevare nell’analoga pratica gadonese de «is fracchéras», la cui attinenza mortuaria pare incontrovertibile. In particolare, è sul ruolo del fuoco che sarà opportuno fissare l’attenzione, sul suo valore specifico nel contesto dei riti funebri: per farlo, proporremo una comparazione fra il rituale funerario romano e quello vedico (inserito, quest’ultimo, nel contesto più generale del complesso apparato cultuale nel suo insieme), forti della consapevolezza – ormai acquisita su base scientifica a partire dagli studi comparatistici di G. Dumézil – che le caratteristiche più essenziali del sistema cultuale romano arcaico rappresentano una diretta espressione dell’originario sostrato indoeuropeo che i Romani (Latino-Sabini) condividono con le altre civiltà di origine indoeuropea attestate in Europa e in Asia: in particolare è proprio il confronto con la cultura vedica a rivelarsi il più proficuo, stante la monumentale produzione di testi liturgico-dottrinali di questa civiltà, che consente un’esplorazione insperatamente chiara e approfondita di concezioni altrimenti inesplicabili.
Che cosa accadeva durante i funerali romani[15]?
Attraverso un’attenta indagine dei luoghi letterari che più o meno indirettamente vi alludono è possibile farne questa schematica ricostruzione: il primo atto cultuale consisteva nel sacrificio a Cerere di una scrofa (la già menzionata «porca praesentanea»)[16]; se si dà credito a Cicerone[17], si trattava di un momento cruciale nei funerali, poiché fondava la tomba: da quanto abbiamo osservato a proposito delle specifiche competenze di Cerere in quanto dea infera della trasformazione, risulterà ora sufficientemente chiaro il significato di questo rito. Un secondo sacrificio, quello di un montone al Lare, era ugualmente offerto nel contesto dei funerali[18]. Dopo la cerimonia dei banchetti veniva accesa la pira, una volta raffreddatasi la quale, le ossa erano raccolte, lavate e deposte entro il sepolcro all’interno di un’urna. In realtà, sebbene la pratica normalmente attestata in epoca storica fosse la cremazione, è possibile affermare con Plinio il Vecchio che l’uso funerario più arcaico fosse a Roma quello dell’inumazione[19], il che pare bene attestato anche dalla curiosa consuetudine, sempre rispettata, di prelevare dal corpo che doveva essere incinerato un dito, il cosiddetto os resectum (“osso tagliato via”), da seppellire comunque nella nuda terra[20]. Dopo questi riti, si apriva un periodo di otto giorni, che si concludeva con la cosiddetta «novemdialis coena», il “banchetto della novena[21], celebrato presso la tomba e offerto ora non più a una divinità, ma direttamente ai morti («mortuis fit», come annota Porfirio).
Se mettiamo assieme tutte queste informazioni, ne ricaviamo un dato essenziale: il complesso dei riti funebri – che iniziava con un sacrificio a Cerere, la dea della vita e della germinazione (dunque del “passaggio” di stato), e che si concludeva con un sacrificio al defunto stesso – serviva ad accompagnare la trasformazione del morto in qualcos’altro, e cioè in parte degli dei Mani (i tremendi “buoni”, come suggerisce l’antinomica e apotropaica etimologia del nome), la confusa folla degli abitanti divini dell’altro mondo, di cui i Romani non si fecero mai una rappresentazione organica, prima che l’introduzione di Dis pater e Proserpina trasformasse questo caotico e indistinto coacervo d’ombre in un regno ordinato.
Anche nella pratica vedica dei funerali, il fuoco ha un ruolo primario, e questo sia sul piano meramente pratico, sia su quello – sul quale purtroppo i Romani furono sempre ostinatamente reticenti – dottrinale[22]: il rituale funebre ha infatti, in India, il suo momento centrale nella cremazione del corpo, cremazione che costituisce di fatto «un proseguimento del sacrificio quotidiano»[23], nel senso che il defunto, il quale non può più offrire il sacrificio, diventa egli stesso la vittima sacrificale, di modo che tutte le sue impurità possano essere arse prima che egli raggiunga il mondo celeste[24]. Il fuoco del sacrificio funebre non ha tuttavia una funzione esclusivamente strumentale, dal momento che il Fuoco (Agni) è anche la divinità che gioca il ruolo centrale nell’economia del passaggio dalla vita terrena a quella ultraterrena. È proprio Agni, infatti, che introduce il defunto alla compagnia degli dèi[25], e lo presenta ai suoi antenati: per questa ragione il dio viene supplicato affinché «non lo consumi interamente» e «non disperda le sue membra e la sua pelle», ma lo «perfezioni» trasformandolo in corpo spirituale, accettando in cambio l’offerta sacrificale di una capra[26]. Il dio Agni svolge dunque, in qualche misura, la funzione di psicopompo, buono e terribile insieme, che “trasforma” il defunto, per virtù del sacrificio del defunto stesso, da realtà terrena in realtà spirituale, accompagnandolo al mondo uranico dei padri e degli dèi. Osserviamo però fin d’ora un elemento su cui in seguito dovremo tornare: la cremazione rituale descritta dai testi non può in alcun modo essere intesa come un olocausto, quanto piuttosto come una sorta di “essiccazione” ad opera del fuoco, che consuma le parti molli del cadavere, ma che preserva lo scheletro intatto (addirittura con la pelle, che possiamo immaginare indurita per effetto del calore): in sostituzione della vittima umana, Agni è difatti supplicato di accettare – come si è visto – una vittima animale (la capra), e persino di preservare il corpo dal morso degli insetti, degli uccelli rapaci, dei cani e dei vermi.
Si è detto che la cremazione costituisce una prosecuzione del sacrificio quotidiano. In effetti, come mostrano chiaramente i Brahmana, in ogni sacrificio la vittima è una rappresentazione del sacrificante, o – più propriamente – la vittima è il sacrificante stesso: «la vittima è nella sostanza il sacrificante»[27]. Questa concezione discende in linea diretta dall’elemento cardine della dottrina del sacrificio vedico[28], per cui ogni sacrificio non è altro se non la riproduzione del sacrificio primordiale, nel quale i Deva sacrificarono se stessi[29]. Come poi è esplicitamente affermato nei testi, i Deva altro non sono se non le manifestazioni, le forme pneumatiche di Prajapati[30], che in origine sacrificò una parte del proprio corpo per dare esistenza all’universo[31]. La funzione di ogni azione sacrificale umana è dunque quella di ricreare continuamente l’ordine cosmico conservandolo e garantendone la stabilità e la perpetuazione: è proprio la quotidiana celebrazione dell’agnihotra (il sacrificio del Fuoco), al sorgere del sole e al suo tramonto, che rende possibile l’unione, senza soluzione di continuità, dei giorni e delle notti, al punto che – come si legge nel Satapatha Brahmana (II 3, 1, 5) – «se il sacrificante non compisse l’agnihotra al mattino, quel giorno il sole non sorgerebbe». La centralità del sacrificio ad Agni, che costituisce la «quintessenza» di ogni rito vedico nonché l’azione liturgica fondamentale in assoluto, da compiere obbligatoriamente ogni giorno, è affermata a più riprese dai testi[32], che ne ribadiscono altresì la funzione di «rendere immortale» chi lo celebra[33] e, più in generale, il ruolo di «fondamento ultimo di ogni cosa»[34]. Ora, secondo un’altra formulazione, «il sacrificante getta se stesso sotto forma di seme nel Fuoco garhapatya (il fuoco del padrone di casa)»[35], egli che è stato iniziato secondo un complesso rituale che prevede il passaggio simbolico dallo stato dell’inseminazione a quello dello sviluppo embrionale nella matrice e della nascita, a significare la morte dell’uomo vecchio nell’iniziazione e la nascita dell’uomo celeste nella pienezza trascendente del Principio[36]. Per poter crescere e sviluppare la propria nuova esistenza spirituale, il sacrificante-seme (rappresentato da granelli di sabbia gettati sul fuoco[37]) deve tuttavia essere vivificato attraverso l’introduzione del pranah (il «Soffio») sotto forma di Soma, poiché «Soma è il Soffio»[38].
Il «sacrificio di Soma» è una parte essenziale e indispensabile dell’agnihotra: ad esso sono dedicati tutti i 114 inni del IX libro del Rigveda e numerosi inni degli altri libri. In senso proprio, Soma è la bevanda estratta per spremitura dalla pianta di soma (pianta di incerta identificazione botanica, stante la scarsità e la vaghezza delle notizie ricavabili dai testi[39]), che consentirebbe all’uomo che la assume un potenziamento della percezione di sé e in special modo della propria natura “divina” superiore (il che ha fatto supporre ad alcuni interpreti che si tratti di una pianta dagli effetti psicotropi): il Soma è la «bevanda dell’immortalità»[40]; è, anzi, esso stesso immortalità[41]. In quanto tale, esso è anche una vera e propria divinità, “materializzata” – per così dire – nella sua bevanda, l’assunzione della quale comporta ipso facto la partecipazione del sacrificante («somya», “colui che beve il Soma”) della natura divina della pozione stessa. Non sarà ozioso notare, a questo proposito, che il metodo di estrazione del succo di Soma, il torchio utilizzato per la spremitura e gli effetti stessi (fisici e spirituali) della bevanda sono del tutto simili a quelli del vino, il cui impiego rituale appare altresì del tutto analogo a quello del Soma, nel culto ebraico e in quello romano: l’oblazione di vino nel fuoco è prescritta nel Levitico (XXIII 14)[42], e la medesima offerta costituisce obbligatoriamente la praefatio di ogni sacrificio nel culto romano[43].
In senso lato, tuttavia (e ciò risulta per noi di particolare interesse), anche un’altra bevanda può diventare Soma per mezzo di un rito di transustanziazione minuziosamente descritto nel Satapatha Brahmana[44]: si tratta della sura, un liquore fermentato preparato con succo d’orzo spremuto (poiché «gli steli d’orzo sono steli di Soma»[45]). L’orzo ha in effetti, secondo la concezione vedica, uno speciale valore metafisico, dal momento che i suoi chicci contengono l’essenza sacrificale («medha») che era stata di purusha, l’«Uomo cosmico non-manifestato», e da cui, in seguito al sacrificio primordiale, è passata alla Terra, che la restituisce agli uomini che la coltivano[46].
Ci pare quantomeno singolare questo preciso ruolo attribuito al cereale, che costituiva anche la base per la confezione del ciceone, la bevanda rituale che i misti assumevano durante le celebrazioni iniziatiche di Eleusi. Come altrove abbiamo notato[47], la presenza dell’orzo come ingrediente fondamentale del ciceone, ascrive quest’ultimo al corredo simbolico della risurrezione, se è vero che la spiga appare, al culmine della celebrazione del culto di Eleusi come simbolo demetriaco del germe vitale, al punto che Omero definisce la farina d’orzo «midollo degli uomini»[48]; di farina venivano inoltre cosparse le teste degli iniziati ai misteri, per effetto dei quali essi rinascevano alla vita divina[49].
Siamo così ricondotti alla specifica pertinenza della Cerere romana, del cui legame con il grano e i “cereali” in genere si è già detto sopra, così come si è precisato il ruolo essenziale della divinità nella celebrazione dei riti funebri a Roma, che – ribadiamolo – si aprivano appunto con il sacrificio della scrofa «praesentanea» in suo onore e si concludevano, otto giorni dopo, con la novemdialis coena, un sacrificio officiato presso la tomba e offerto al defunto stesso, a significare la sua avvenuta trasformazione in divinità. Ora, dal punto di vista simbolico, tale trasformazione era adombrata segnatamente nel processo di “essiccazione” del cadavere[50], dell’asciugatura dello stesso dai liquidi organici (soprattutto ad opera del fuoco), come sembra di poter desumere da un verso di Accio che recita: «qui neque terrae est nec cineris causa umquam evasit vapos»[51], e come troviamo confermato da Varrone, il quale ci informa che quando un romano bruciava il corpo del padre morto, «appena si imbatteva in un osso, diceva che quello (scil. il morto) era divenuto un dio»[52].
Come si è visto, secondo l’antica concezione fisiologica romana (ma comune anche ai Greci), il principio vitale dell’organismo era identificato con la sostanza liquida chiara presente nel corpo umano, colta come realtà unitaria, e la cui fuoriuscita, anche ad una elementare constatazione empirica, implica effettivamente sempre una “diminuzione” di vitalità: così è del sudore, dello sperma, del liquido sinoviale dalle articolazioni, per non parlare del midollo spinale e del cervello, la cui perdita costituice una causa irrimediabile di morte. Il verbo impiegato da Omero per indicare il funerale è tarcuéein (con la variante tariceuéein), collegato con tutta probabilità con il verbo teérsomai (“asciugo”), che condivide la stessa radice indoeuropea, ad esempio, col latino torreo e con il danese tørke (“asciugo”, “essicco”)[53]. La cremazione, praticata regolarmente da tutte le culture indoeuropee, esplica dunque la precisa funzione di favorire tale processo di essiccazione del cadavere che, privato integralmente del suo liquido vitale, consente la trasformazione del defunto in Manus, entità divina, presumibilmente (come sembra di capire dal citato verso di Accio) attraverso la “vaporizzazione” del Genius, che quindi è libero di partire.
A proposito della pratica della cremazione, è interessante osservare che il particolare uso del fuoco nei riti funerari di età minoico-micenea non era probabilmente destinato all’incinerazione del cadavere, ma precisamente al suo “prosciugamento”, come attestano i fondamentali rinvenimenti delle tombe a pozzo di Micene e delle tombe a tholos minoiche, nelle quali i corpi, sommersi nella cenere dei loro abiti e delle pire, appaiono però integri nelle ossa e nei tessuti, quasi fossero stati fatti intenzionalmente “essiccare” tramite l’azione del fuoco[54]: come si sarà notato, si tratta esattamente dello stesso tipo di pratica che abbiamo registrato nel mondo vedico, nel quale – secondo le indicazioni ricavabili dai testi citati – la preservazione del corpo dall’azione distruttiva di Agni era considerata una necessità primaria. Alla precisa esigenza di prosciugare il cadavere senza distruggerlo integralmente deve certamente essere ricondotta anche la consuetudine romana, cui si è accennato, dell’os resectum, che consisteva nel prelevare e interrare un dito del defunto prima della cremazione dello stesso.

In sintesi, collazionando le differenti informazioni che si sono fin qui raccolte, è possibile affermare che nel mondo greco-romano così come in quello vedico, l’essenza del rito funebre è l’offerta del defunto stesso quale “vittima sacrificale”, perché attraverso l’azione del Fuoco (che, prosciugando il cadavere, ne libera l’essenza pneumatica contenuta nei liquidi corporei garantendone la divinizzazione) egli possa essere trasformato, «ri-creato», e assumere la nuova vita spirituale nel mondo celeste assieme agli dèi e ai padri.
In questa prospettiva lo stravagante sacrificio romano delle volpi trasformate in torce assume il proprio reale significato. L’elemento significativo nel simbolismo della volpe incendiata è infatti quello dell’applicazione del fuoco (e della sua azione prosciugatrice) alla voluminosa coda dell’animale: ora, la coda, prolungamento del rachide che contiene un importante deposito di liquido vitale  (il midollo) e costituita in gran parte di grasso (anch’esso inteso come identico liquido vitale), nella concezione arcaica greco-romana è simbolo primario di fertilità e di vitalità[55]. Ciò spiega l’uso greco di definire la base della colonna vertebrale «i|eroén o\steéon» (lat. os sacrum), e il canale interno della colonna (dunque della coda) «i\eraé su%rigx» (“tubo sacro”) «speérmata e!cousa» (“poiché contiene lo sperma” [= il liquido vitale])[56]. La coda, inoltre, proprio in quanto importante deposito di liquido vitale è ricoperta di lunghi peli, i quali (tanto negli animali quanto nell’uomo, nel quale caso, in particolare, si osservava l’associazione fra il raggiungimento della maturità sessuale e la crescita della barba e dei peli pubici) erano considerati scaturigine diretta del liquido vitale[57]. Non è un caso – diciamolo di passata – che proprio la coda, assieme alla testa del cavallo, fossero le parti impiegate nel sacrificio romano dell’Equus October, che aveva un diretto rapporto con la prosperità dei campi[58].
L’azione crematoria del Fuoco sulla volpe (ma il discorso si può applicare – tramite un simbolismo ancora più immediato – anche agli iuvenes che a Gadoni partecipavano alla corsa de «is fracchéras») simboleggia dunque, con tutta evidenza, il processo attraverso il quale i defunti verrebbero liberati da ogni residuo di vita terrena (rappresentata – lo ribadiamo – dai liquidi chiari contenuti nel corpo), e trasformati nei divini abitanti del regno ultramondano.

L’ampio discorso che si è fin qui proposto consentirà altresì di comprendere il legame, assai più stretto di quanto non si sia finora inteso, fra i Ludi Ceriales e l’episodio delle volpi di Sansone.
Il racconto biblico della vicenda del nazireo (“consacrato”) Sansone[59] (il cui nome «Shimshon» [“piccolo Sole”] lo riferisce immediatamente all’elemento igneo) vale, complessivamente, a caratterizzare il personaggio come incarnazione simbolica della forza virile, che si esplica tanto nelle azioni in cui egli manifesta di possedere una virulenza sovrumana (ad esempio l’uccisione di un leone a mani nude[60], la liberazione del proprio corpo dai vincoli[61] e l’uccisione di mille uomini per mezzo di una mascella d’asino[62]), quanto nell’evidente esuberanza sessuale dell’eroe, che si mostra a più riprese particolarmente sensibile al fascino femminile, al punto da giacere addirittura con prostitute[63]. Proprio la seduzione di una donna filistea, Dalila, alla quale rivela il segreto della propria “vitalità”, sarà la causa della sua rovina: la forza di Sansone risiede, guarda caso, nei suoi lunghi capelli, mai toccati da rasoio in virtù del nazireato assunto fin dalla nascita. Si rammenterà a questo punto quanto già si è spiegato a proposito del significato della peluria del corpo (e dei capelli in particolare) nella concezione greco-romana, che le attribuiva un preciso valore vitalistico-dinamico, al punto che la chioma era considerata «genialis»[64] (il Genius di ogni individuo risiedeva infatti, per i Romani, nel capo[65]), e che nella Grecia antica si usava recidere un ricciolo del giovane entrato nella pubertà per offrirlo ad un fiume[66], analogamente a quanto Achille fa, consegnando i propri capelli a Patroclo affinché li offra al fiume Spercheo[67] (e questo – come spiega lo scoliaste – «poiché è il liquido a permettere la crescita»[68]). Altra fonte informa poi che lo sposo soleva recarsi a fare il bagno nel fiume locale, spruzzandosi d’acqua e così «pregando simbolicamente di poter generare figli. Poiché l’acqua è generatrice di vita e feconda»[69]. Anche gli Ebrei condividevano con tutta evidenza questa convinzione: come si è visto, i nazirei consacrati a Yhwh non si radevano mai il capo poiché la loro chioma era offerta alla divinità[70]; le benedizioni erano invocate sul capo[71]; la vittima sacrificale era consacrata attraverso l’imposizione delle mani del sacerdote sulla testa dell’animale[72]. La letteratura cabalistica esplicita ancora più chiaramente il rapporto fra liquido vitale e chioma: nell’Ha’Idra Rabba Qaddisha (VII 74) si legge ad esempio che «ogni capello è l’erompere delle fontane nascoste che sgorgano dai recessi del cervello».
Come i capelli, così anche la barba è manifestazione, tanto per i Greci e i Romani quanto per gli Ebrei, del liquido vitale generativo: essa è «geneiaév» per i Greci, «gena» per i Romani; secondo Aristotele «i fanciulli mutilati dei loro organi sessuali sono sterili, e così non hanno barba»[73], e a detta del già citato Ha’Idra Rabba Qaddisha (XX 439) «non esiste barba che non scaturisca dal cervello della testa». Questo particolare significato attribuito alla barba illumina sull’analogo valore dinamico-generativo che si trova associato alla mascella («geénuv» e «geéneion» in Greco), dalla quale, secondo una versione del mito, sarebbe nata Atena[74], e i denti (lat.: «genuini») che sono innestati nella quale hanno una diretta correlazione con il seme, come attesta Plinio il Vecchio quando annota che alla perdita dei denti corrisponde la perdita della fertilità[75]. La strage di mille Filistei bizzarramente compiuta da Sansone con il solo ausilio di una mascella d’asino «ancora fresca»[76] sarà dunque da intendere come qualcosa di assai più pregnante di una semplice iperbole: rileviamo ancora che dalla roccia su cui quella stessa mascella fu gettata da Sansone dopo il massacro scaturì miracolosamente una sorgente d’acqua, bevendo alla quale l’eroe, esausto, «si rianimò e riprese vita»[77].
Riletto alla luce di queste considerazioni, di tutto il complesso reticolo delle persuasioni della fisiologia antica nonché del simbolismo comune alle civiltà arcaiche che abbiamo tentato di escutere, l’episodio delle volpi legate a coppie con una torcia applicata alla coda e inviate a devastare le messi dei Filistei, acquisisce un significato dai contorni alquanto precisi. È alla totale consunzione della vita del nemico che il gesto compiuto da Sansone rimanda simbolicamente: egli, il nazireo dai capelli intonsi, virulento e sessualmente esuberante, che usa una mascella d’asino come arma e che recupera «la vita» bevendo a una sorgente miracolosa, lui che è la personificazione della forza vitale-generativa trasforma la coda delle volpi in torce perché il fuoco distruttore-trasformatore privi quelle code dei peli (scaturigine del liquido vitale) e le “prosciughi” del liquido stesso (il grasso e il midollo che contengono), devastando al tempo stesso le messi, che – come si è abbondantemente spiegato – sono il “seme”, il simbolo vegetale del medesimo principio vitale. In altre parole, Sansone celebra simbolicamente il “funerale” dei Filistei, che alla fine dei suoi giorni egli effettivamente sterminerà facendo crollare, in un momento (l’ultimo) di recuperata vitalità, l’edificio in cui essi sono adunati assieme a lui[78].

Consunzione e trasformazione: queste, in ultima analisi, le due funzioni essenziali che l’elemento igneo è deputato ad assolvere nei rituali funebri delle civiltà indoeuropee e, a quanto ci sembra, anche semitiche. Consunzione del principio vitale contenuto nei liquidi chiari presenti nel corpo (ed anzi ad essi identificato) e trasformazione di quella vita in una vita nuova, ormai concretamente “liberata”, attraverso il processo di vaporizzazione, dai vincoli dell’esistenza terrena e proiettata nella dimensione trascendente, il che spiegherà anche sufficientemente bene l’importanza assoluta concordemente attribuita da tutte le culture arcaiche (e non solo) alla celebrazione dei funerali, nei quali il ricco corredo simbolico relativo al processo di essiccazione del corpo occupa sempre un ruolo centrale[79], perché l’anima del defunto trovi riposo nel regno ultramondano e non continui invece a vagare senza pace nel mondo dei viventi.









[1] Cfr. W.W. Fowler, The roman Festivals of the period of the Republic, Londra 1899, pp. 77-79.
[2] Cfr. H. Le Bonniec, Le culte de Cérès à Rome des origines à la fin del la Republique, Parigi 1958, pp. 114-123.
[3] G. Dumézil, La religione romana arcaica, Milano 2001, p. 329.
[4] Cfr. http://www.gadoni.info/is%20frakkeras.html. L’estensore della nota informativa, che si avventura anche in un improbabile quanto avventato tentativo di interpretazione della tradizionale corsa dei morti, riferisce che «la memoria storica del paese non ricorda con precisione quale fosse lo scopo principale [scil. della pratica de “is fracchéras”], ma a questa domanda qualcuno risponde “po n’ci tzuccai is animas” [“per allontanare le anime”]».
[5] Cfr. F. Liebrecht, Zur Volkskunde, Alte und neue Aufsätze, Heilbronn 1879.
[6] Cfr. G.M. Corrias, Dei e religione dell’antica Roma, Cagliari 2015, pp. 50-55.
[7] Cfr. Ov., Fast. IV 413.
[8] Cfr. Corrias, Dei e religione cit., pp. 101-103.
[9] Cfr. Id., Nota sul simbolismo “apollineo” delle corna.
[10] Ov., Amores III 10, 11-36. Si noti ancora che una ghirlanda per il capo formata da spighe di grano intrecciate costituiva l’offerta peculiarmente riservata a Cerere: cfr. Tibull., I 1, 15ss; Ov., Met. X 433; Hor., Carm. saec. 30.
[11] Cfr. Fest., p. 357, ed. Lindsay 1930.
[12] Ibidem p. 273.
[13] Cfr. Macr., I 16, 17.
[14] Cfr. G. Colonna, La disciplina etrusca e la dottrina della città fondata, in «Studi Romani» LII (2004), pp. 303-311.
[15] Sul rituale e il significato delle cerimonie funebri romane si rimanda a Corrias, Dei e religione cit., pp. 104-107.
[16] Cfr. Fest., p. 357, ed. Lindsay 1930.
[17] Cfr. Cic., Leg. II 57.
[18] Ccfr. Cic., Leg. II 55 e 57.
[19] Cfr. Plin., Nat. hist. VII 187.
[20] Cfr. Varr. Ling. Lat. V 23.
[21] Cfr. Hor., Epod. 17, 45-49; Porph., Ad Hor. Epod. 17, 48; Apul., Met. IX 30 ss.
[22] Per la ricostruzione del rituale funebre e della dottrina ad esso sottesa ci siamo giovati di R. Panikkar, I Veda, Milano 2001, pp. 823-838.
[23] Panikkar, I Veda cit., p. 824.
[24] Rigveda-samhita X 14, 8. Questa è anche la ragione per cui i bambini che non avessero raggiunto i due anni di età, e fossero dunque innocenti nelle intenzioni e nelle azioni, non venivano cremati ma inumati (cfr. Paraskara-grhya-sutra III 10, 5).
[25] Cfr. Rigveda-samhita X, 17, 3-4.
[26] Abbiamo qui sintetizzato il contenuto di Rigveda-samhita X, 16, 1-9.
[27] Aitareya Brahmana II 11. Cfr. anche Taittiriya-samhita VI 1, 4, 5; Satapatha Brahmana I 2, 3, 5 e III 3, 4, 21.
[28] Cfr. A.K. Coomaraswami, La dottrina del sacrificio...
[29] Cfr., ad esempio, Rigveda-samhita VI 11, 2: «O Agni, sacrifica il tuo corpo»; Rigveda-samhita X 13, 4: «Yama offrì il proprio corpo amato».
[30] «Tutte queste divinità sono in me» (Jaiminiya Upanishad Brahmana I, 14, 2); «I Deva risiedono in me» (Satapatha Brahmana II 2, 2, 3).
[31] Cfr. Satapatha Brahmana II 2, 4, 1; XI 1, 6, 1; XI 1, 6, 17; XIII 7, 1, 1; III 9, 1, 1; X 4, 2, 2; VI 1, 2, 12-13; Taittiriya Brahmana II 3, 6, 1.
[32] Cfr., ad esempio, Chandogya Upanishad V 24, 5.
[33] Cfr. Katha Upanishad I, 13.
[34] Cfr. Mahanarayana Upanishad 527.
[35] Satapatha Brahmana VII 2, 1, 6. Per la dottrina vedica dei fuochi sacri cfr. Corrias, Dei e religione cit., pp. 59ss e la bibliografia ivi indicata.
[36] Cfr. G.M. Corrias, Simbolismo cosmico della lettera resh.
[37] Cfr. Coomaraswamy, La dottrina del sacrificio cit., p. 189.
[38] Cfr. Satapatha Brahmana VII 3, 1, 12 e 45-46. Si veda altresì Ibid., III 4, 3, 13: «Crescendo, o Soma, nell’immortalità, tu ottieni la tua più alta gloria nel Cielo». Su Soma cfr. Panikkar, I Veda cit., pp. 487-494.
[39] Dai numerosi inni vedici dedicati al Soma si può ricavare che la pianta fosse un arbusto diffuso in area montuosa, alto circa un metro e dagli steli bruno-rossastri. 
[40] Cfr. Rigveda-samhita VIII 48, 3: «Noi abbiamo bevuto Soma e siamo divenuti immortali! Noi abbiamo raggiunto la luce, abbiamo trovato gli Dei!».
[41] Cfr. Satapatha Brahmana IX 5, 1, 8.
[42] Ma cfr. anche Deut. IV 24: «Noster Deus consumens».
[43] Cfr. Corrias, Dei e religione cit., pp. 112-113.
[44] Cfr. Satapatha Brahmana XII 7, 3, 11.
[45] Ibid. XII 7, 3, 13.
[46] Cfr. Rigveda-samhita X 90.
[47] Cfr. G.M. Corrias, Il tipo iconografico del gastrocefalo, in «Monti Prama», 66 (2013), pp. 27-45, spec. p. 40 n. 9.
[48] Cfr. Od. II 290 e XX 108
[49] Cfr. Aristoph., Nub. 260-268; Demosth., De cor., 259.
[50] Per queste riflessioni e per il loro fondamento documentario cfr. Onians, Le origini cit., pp. 305-320.
[51] Fr. 112 Ribbeck [= 92 Warm].
[52] Cfr. Plut., Quaest. Rom. XIV. Cfr. anche Cic., De leg. II 9, 22: «Bonos leto datos divos habento».
[53] Anche la Suida (t 122) offre, tra i significati del verbo, quello di “seccare”: «shmaiénei deè kaiè toè xeraiénein».
[54] Cfr. le notevoli osservazioni che poterono esser fatte già da H. Schliemann, Mycene. A narrative of researches and discoveries at Mycenæ and Tiryns, New York 1878, pp. 155, 164, 214, 291, 294. Molto esplicito anche L. Caliò, L’archeologia delle pratiche funerarie. Mondo egeo (leggibile online all’indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/l-archeologia-delle-pratiche-funerarie-mondo-egeo_(Il-Mondo-dell'Archeologia)/): «Esistono evidenze archeologiche di riti successivi alla deposizione, come alcuni segni di combustione sulle ossa e sul corredo, che provano l’uso di fuochi. [...]». Cfr. anche  C.B. Mee - W.G. Cavanagh, Micenean Tombs as Evidence for Social and Political Organisation, in «Oxford Journal of Archaeology», 3 (1984), pp. 45-64; Thanatos. Les Coutumes funéraires en Égée à l'âge du Bronze, a c. di R. Laffineur, Liège 1987; Celebration of Death and Divinity in the Bronze Age Argolid, a c. di R. Hägg - G.C. Nordquist, Stockholm 1990.
[55] Cfr. Onians, Le origini cit., pp. 154 n. 2; pp. 157-158; 281ss; p. 210 n. 9; pp. 222ss.
[56] Cfr. Schol. Aesch., Prom. 497.
[57] Cfr. Ps.-Arist.: Problemata 867a: «La testa sembra essere la sorgente del liquido, da cui a crescita dei capelli, in virtù dell’abbondanza di liquido»; Plaut., Truc. 288: «cincinnos [...] usque ex cerebro evellam»; Tertull., Anim. 51: «comae quoque alimenta ex cerebro».
[58] Cfr. Corrias, Dei e religione cit., pp. 31-33.
[59] Cfr. Giudici XIII-XVI. Del tutto inefficace ci pare l’analisi del personaggio proposta da G. de Santillana e H. von Dechend nel celebre studio Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo (Milano 2003, pp. 199-213) nel quale, conformemente all’assunto di fondo del saggio, che pretende di individuare nell’elemento cosmologico il principio unificante di ogni manifestazione culturale (e cultuale) delle civiltà arcaiche, ne fa un’epifania del tipo divino-eroico dell’Amleto norreno che «riveste la figura del gigante cieco Orione», «che brandisce le Iadi e muove il Mulino delle Stelle». Ci limitiamo ad osservare che, in generale, una tale prospettiva presenta il doppio limite di ignorare da un lato le più profonde e universali certezze della fisiologia antica, dall’altro la più schietta e distintiva indole delle culture arcaiche, che solo contestualmente e prospetticamente hanno carattere cosmologico, e che sono invece – come anche in queste pagine ci sforziamo di dimostrare – autenticamente metafisiche.
[60] Cfr. ibid. XIV 5-6.
[61] Cfr. ibid. XV 9-15.
[62] Cfr. ibid. XV 16-17.
[63] Cfr. ibid. XVI 1-3.
[64] Cfr. Apul., Met. II 27.
[65] Cfr. Serv., Ad. Aen. III 607: «frontem Genio consecratam esse, unde venerantes deum tangimus frontem».
[66] Cfr. Aesch., Choe. 5ss; Paus., I 37, 3; VIII 20, 3; VIII 41, 3; Poll., III 30.
[67] Cfr. Il. XXIII 142ss.
[68] Cfr. Schol. ad Il., ad loc.; ibid. ad Il. XIV 246.  
[69] Cfr. Schol. ad Eur., Phoen. 347.
[70] Cfr. Num. VI 5.
[71] Cfr. Gen. XLIX 26.
[72] Cfr. Es. XXIX 10.
[73] Arist., Gen. anim. 746b.
[74] Cfr. Mythogr. Vat. II 176 e II 37.
[75] Cfr. Plin., Nat. Hist. XI 37, 168ss.
[76] Giudici XV 15.
[77] Ibid. XV 19.
[78] Cfr. ibid. XVI 22-31.
[79] Assieme, ovviamente, al non meno cospicuo e universale corredo simbolico – sul quale però non ci soffermeremo in questa sede – relativo al tema del refrigerium, della “reidratazione” del defunto una volta che la trasformazione sia avvenuta.

25 commenti:

  1. Ringrazio Matteo per l’importante contributo che ha voluto qui pubblicare.
    L’articolo è denso di particolari ed alcuni danno adito ad un approfondimento per quanto riguarda le inumazioni.
    In altro contesto questo studio mi porge una mano per quanto riguarda il prosieguo del mio articolo in itinere.

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  2. E' un articolo, come sempre i suoi, di grande spessore. Non sempre facile dato il suo rigoroso taglio scientifico. Anch'io ho visto, tra l'altro, che ci sono degli spunti notevoli circa l'inumazione che si potrebbero estendere anche al modo particolare con cui sono stati sepolti i 'giganti'. E di questo si è parlato, se non ricordo male, in questo blog.

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  3. È davvero difficile orientarsi in mezzo a tante informazioni che appartengono a realtà alquanto differenti per stagioni storiche e per territori e civiltà abbastanza differenziate.
    Che le volpi accese del culto di Cerere avessero attinenza con i riti di morte mi appare come una forzatura, anche perché, ad aprile, non potevano generare alcun incendio come le volpi bibliche di Sansone, le quali, a loro volta, più che far parte di un rituale sembrano attrici inconsapevoli di una vantata astuzia, o illuminazione divina se si vuole, di un popolo più uguale fra tutti gli altri.
    D'altra parte la cremazione quasi totale dei Greci e dei Romani, col cadavere posato sulle omeriche gigantesche pire – mi viene in mente quella preparata in onore di Patroclo: “ma tu, supremo Atride, imponi / Alla tua gente che domán per tempo / Molta selva qua porti; e qual conviensi /Ad illustre defunto che nell’atra / Notte discende, le cataste appresti, /
    Onde rapido il foco lo consumi, / ...” -, mi pare sia concettualmente molto differente dalla “asciugatura” del corpo, una sorta d'imbalsamazione che tiene anche la pelle intatta, e che si può ottenere o con il freddo secco, come per Otzi, la mummia di Similaun, oppure per opera dell'aria calda e secca del deserto.
    Col fuoco, infatti, se si supera una soglia di temperatura che suppongo sia all'incirca di una settantina di gradi o anche meno, la materia organica viene cotta e più facilmente attaccata dai batteri.
    Se invece si ponesse il cadavere in un forno adatto in cui si sviluppasse scarso calore e fumo intenso, suppongo che la materia organica prenderebbe ad asciugarsi, sino al punto giusto. Se poi il corpo fosse stato coperto con una sottile maschera d'argilla, la proprietà di capillarizzazione della medesima assicurerebbe una discreta velocità di estrazione dei liquidi.

    Come avrà capito, queste mie osservazioni non sono obiezioni vere e proprie, ma solamente sintomi della mia cronica incapacità ad assumere certe nozioni in termini esagerati, sia per quantità, che per rapidità.
    Dunque la colpa, se mai di questo si trattasse, è tutta dalla parte mia.

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  4. Sono venuto a conoscenza della “scolatura” degli inumati alcuni anni fa, quando chiesi a mio suocero cosa volesse dire l’imprecazione tutta napoletana “Puozze sculà”. Il modo di dire deriva dall’usanza in alcuni monasteri, che poi ho visitato, di inumare i defunti nei sotterranei in posizione seduta in modo che i liquidi corporei potessero appunto scolare, in modo da preservare rinsecchito quel corpo.
    Gli inumati di Monte prama potrebbero essere stati sepolti in quella particolare postura per lo stresso motivo e di conseguenza per il motivo addotto da Matteo, ossia “affinché «non lo consumi interamente» e «non disperda le sue membra e la sua pelle», ma lo «perfezioni» trasformandolo in corpo spirituale”?
    Poi che la pelle si possa conservare o meno è tutt'altro discorso, però il desiderio era quello.

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  5. Trovo ritorni calzante quella situazione che Francu aveva citato non molto tempo fa, del saggio rabbino (mi pare) che chiamato a dirimere una vertenza ascoltava le due parti finendo per dire prima all'uno che aveva ragione e poi all'altro che aveva pure lui ragione, finché alla propria moglie che gli faceva notare l'incongruenza rispondeva che certamente aveva ragione anche lei.
    Spianare i secoli e avvicinare sponde e culture e lingue moltiplica connessioni e interpretazioni, ma anche chi si muova con consapevolezza di causa può lasciare così per strada dubbi e perplessità, specie (azzardo) quando considera elementi tanto diffusi e concretamente usati (come, qui, il fuoco e i cereali), o quando maneggia concetti tanto pervasivi (come, qui, la forza vitale e la morte).
    Tutto comunque lecito e massimamente stimolante, oltre che arricchente. Per cui, per la mia parte, ringrazio Matteo Corrias per aver voluto pubblicare qui questo suo articolo (immagino ciò significhi che se anche non partecipa alle discussioni su questo blog non si sentirà lontano da quanto qui si va facendo); e mi scuso con lui se mi stimola a prendere una tangente, che non oso sperare apprezzerà.
    Tra connessioni e possibili interpretazioni, infatti, penso a quanto potrebbe sguazzare in questo articolo l’amico Giambattista Marras Loria, da Settembre inattivo col suo blog La Macchina Nuragica (mi auguro stia bene). La sua ipotesi sui nuraghi a più piani quali malterie (torri di maltazione) rimane perlomeno ardita, ma ha almeno il merito (a mio avviso) di guardare alla produzione della cervogia (l’antica birra, il pane liquido, per millenni priva del luppolo) in tutta la mezza luna fertile e (ha il merito di guardare) ai “birrifici industriali” dei faraoni, chiedendosi perché nella storia antica della Sardegna non dovrebbe analogamente trovarsene traccia (nonché iniziando a sottolinearne qualcuna). Giambattista, mi piace sintetizzare così, ipotizza di aggiungere la produzione e commercializzazione del malto, se non della stessa cervogia, al panorama descritto da Mikkelj Tzoroddu fin dalla sua prima pubblicazione, che spiega le basi per una supremazia economica, commerciale e militare degli antichi Sardi almeno nel Mediterraneo Occidentale (supremazia fondata, in più o meno disordinata linea temporale, sull’ossidiana, le industrie estrattive, la cantieristica navale, la pesca e il sale e la conservazione del pescato, tonno e sardine, la perizia metallurgica, forse anche il vino e l’olio e magari, secondo appunto l’ipotesi di GB Loria, il malto d’orzo). “Cervogia, dal Latino ‘cerevisia, cervisia’ (Plinio), che alcuni non bene scompongono in Cèreris Vis, perché domina in tal liquore la forza di Cerere, ossia dei cereali” (dal dizionario etimologico online www.etimo.it).
    Perché come potrà dirsi che il verbo greco teérsomai (asciugo) potrebbe collegarsi a tarcuéein o tariceuéein (funerale), quel teérsomai, che pure vuol dirsi simile al latino torreo (asciugo, essicco), potrà ricordare anche (e non starà tutto nella anacronistica pronuncia inglese di quella doppia e) il per noi familiare tyrsenoi, in genere ricondotto alle torri, le stesse che nell’ipotesi di Giambattista sarebbero servite appunto (e comunque) per asciugare, essiccare (l’orzo, facendone malto). E d’altronde, viene da pensare, quali sarebbero state le prime “torri” (almeno in una grande parte di Mediterraneo) cui gli uomini hanno dovuto dare un nome? E se mai (sottolineo: se mai) fossero servite a essiccare, quanto sarebbe naturale che il nome (per torre) e il verbo (per essiccare) abbiano la medesima radice!

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  6. Non sento affatto di muovermi con la stessa consapevolezza di causa di Matteo Corrias, quindi sono consapevole che anche seminare dubbi e perplessità con queste ipotetiche connessioni sarebbe tanto, rispetto al raccogliere solo nette bocciature. Ma mi spingo a condividere queste riflessioni perché mi piace comunque indicare che trovare connessioni (spianando i secoli e avvicinando sponde e culture e lingue) è affascinante quanto variamente incerto. In questo blog, ritengo, ci piace considerare praticamente tutto, tenendo però saldo (soprattutto al cospetto dei critici) che le ricostruzioni cui più teniamo fondano su reperti reali, esaminabili, che richiedono da chi di dovere convincenti spiegazioni.
    Permettetemi di chiudere, ad ogni modo, con un “semibreve” copia-incolla dalla storia della birra su Wikipedia, che trovo un filo pertinente con questo articolo (abbiamo letto che la sura, un liquore fermentato preparato con succo d’orzo spremuto, può diventare Soma, la bevanda necessaria al compimento del sacrificio, secondo i Brahmana: “gli steli d’orzo sono steli di Soma”) e, più in generale, con questo (nostro) blog (mi riferisco soprattutto, in cauda venenum, al ruolo attribuito in questo testo ai Fenici, che magari ci starà tutto, ma che può sembrare un’interpretazione tappabuchi di quelle tante che attribuiscono di default ai Fenici tutte quelle cose antiche di cui si sa poco).

    La birra è una delle bevande più antiche prodotte dall'uomo, probabilmente databile al settimo millennio a.C., registrata nella storia scritta dell'antico Egitto e della Mesopotamia. Il cereale più utilizzato per fare la birra è sicuramente l'orzo.
    Nella cultura mesopotamica la birra aveva anche un significato religioso: veniva bevuta durante i funerali per celebrare il defunto ed offerta alle divinità per propiziarsele.
    La birra aveva analoga importanza nell'Antico Egitto, dove la popolazione la beveva fin dall'infanzia, considerandola anche un alimento e una medicina. Addirittura una birra a bassa gradazione o diluita con acqua e miele veniva somministrata ai neonati quando le madri non avevano latte. Anche per gli Egizi la birra aveva un carattere mistico, tuttavia c'era una grossa differenza rispetto ai Babilonesi: la produzione della birra non era più artigianale, ma era divenuta una vera e propria industria, con i faraoni che possedevano persino delle fabbriche.
    Si parla di birra anche nella Bibbia e negli altri libri sacri del popolo ebraico come il Talmud; nel Deuteronomio si racconta che durante la festa degli Azzimi si mangiava per sette giorni il pane senza lievito e si beveva birra. Lo stesso avviene durante la festività del Purim.
    La Grecia, più orientata sul vino, non produceva birra, ma ne consumava parecchia, soprattutto per le feste in onore di Demetra e durante i giochi olimpici durante i quali era vietato il consumo del vino. La bevanda arrivava in Grecia tramite i commercianti fenici.

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  7. Ringrazio tutti per l'interesse manifestato nei confronti del mio saggio, e mi limito ad alcune osservazioni di contorno, che in realtà aprono uno spiraglio sulla persuasione di fondo che sta alla base di quel lavoro "comparatistico" che ormai da anni porto avanti sul simbolismo nelle culture arcaiche, e di cui sono testimonianza gli articoli pubblicati su Monti Prama prima e su Maymoni poi. Il simbolo è un vero e proprio linguaggio pre-logico che le numerose testimonianze documentarie relative alle diverse civiltà arcaiche mostrano, concordemente, connotato da un'universalità che ne coinvolge sia la morfosintassi, sia la "semantica". Simboli analoghi (quando non identici) valgono ad esprimere precise concezioni cosmologiche, antropologiche e metafisiche. Questo è il dato di partenza, di cui la storia delle religioni ha da tempo fatto una sua acquisizione stabile. Cosa giustifica tale stato di cose (e dunque l'impiego di un metodo comparatistico che vince il tempo e lo spazio e accosta universi differenti in modo (apparentemente) forzoso? E' la questione essenziale, e non pretendo certo di risolverla in due battute. Posso solo sintetizzare l'idea che mi sono formato a questo proposito: esiste certo una base bio-psicologica per cui la produzione di simboli analoghi non può che risalire a una "dotazione" iconico-concettuale innata archetipica (il che spiega oltretutto perché l'attività onirica consiste di fatto in una produzione articolata di simboli, il cui significato già Freud poteva stabilire con una certa sicurezza attraverso la semplice osservazione). In secondo luogo non credo possa essere esclusa, a proposito dell'universalità dei simboli, una ragione di tipo "storico", che ci riporta alle origini e al primo gruppo di homo sapiens che 50.000 anni fa dall'acrocoro etiopico iniziava a diffondersi sul pianeta, portando con sé analoghe concezioni cosmoantropologiche e presumibilmente i simboli che le sintetizzavano. Ma personalmente trovo molto pertinente l'ipotesi formulata da Mircea Eliade (nel fondamentale saggio "Immagini e simboli", a cui rimando) dell'esistenza di un "transconscio" e - evidentemente - di un dato trascendente a cui esso accederebbe.

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  8. Aggiungo e preciso solo che l'associazione delle volpi accese di Cerere con l'ambito rituale legato alla morte non è una forzatura, ma è quanto più direttamente discende dalla principale competenza della divinità (mi permetto di rimandare a quanto ho esposto nel mio "Dei e religione dell'antica Roma" pubblicato l'anno scorso per Arkadia editore), e in nulla il fatto che ad aprile non si possano appiccare incendi nei campi può costituire una ragione di perplessità, anzitutto perché gli animali erano liberati nel circo, quindi perché un simbolismo non funziona perché è verosimile, ma perché è un simbolo che, come ho detto, risponde a leggi morfologiche e sintattiche pre-logiche e archetipiche.
    Circa la pratica della cremazione in epoca micenea, rimando ai numerosi saggi che ho citato in nota, e a questo proposito i poemi omerici potrebbero contenere delle rappresentazioni anacronistiche (perché testimoniano pratiche successive di quattro secoli all'epoca in cui i "fatti" si sono svolti), che oltretutto discordano con le testimonianze archeologiche. Quanto a Roma, rimando a quanto osservo nell'articolo sulla pratica della sepoltura dell'os resectum, che veniva salvato dal fuoco della pira.
    Chiudo rassicurando Francesco Masia sul fatto che le sue osservazioni mi paiono tutt'altro che impertinenti, in particolare l'associazione di "turris" e "torreo", oltre che l'interessante esposizione sulla birra.
    A degli occhi, come sono i nostri, abituati all'analisi e alla distinzione (salvo poi cadere regolarmente nella cecità più ebete) pare inconcepibile ciò di cui lo studio delle culture arcaiche non può che convincere chi lo porti avanti "sine ira et studio": la realtà era, per quelle culture, un reticolo di ambiti tutti collegati attraverso solide relazioni di analogia che ne consentivano da un lato l'associazione, dall'altro la sostituzione (si ripensi agli ambiti di interesse di questo articolo: corna, sperma, cervello, grano, orzo, vita, forza vitale, anima, morte), secondo la regola magnificamente sintetizzata nella Tabula Smaragdina "quod est inferius est sicut quod est superius".

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    1. erratum: un simbolismo non funziona - corrige: un simbolo non funziona,

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  9. Non ricordo quando avrei raccontato "le ragioni del rabbino" che mi attribuisce Francesco, anzi non ricordo di averle mai raccontate. Ma, se davvero le avessi io raccontate, non nascondo che ne andrei fiero, giusto perché vivo di paradossi. Nel senso che mi dilettano quei giochi logici che fanno arrossire la logica più stringente.
    Ora, sono certo di non contraddirmi se mi accodo a quanto ha detto in primis Gigi Sanna a proposito dello spessore culturale dell'articolo; resta però il fatto che vi si discute di comportamenti sui quali si possono esprimere delle opinioni e formulare delle interpretazioni, senza avere in alcun caso delle "verità" scientifiche quali comunemente le intendiamo.
    Ricordo che, solo qualche mese fa, anch'io ho giocato sui simboli, farfugliando cose stupide sui miti, rifacendomi, per altro indegnamente, anche agli stessi studiosi che nomina Matteo Corrias, così che ho potuto mettere in luce come lo studio e l'interpretazione dei comportamenti umani che attengono alla religio si sono sviluppati con tanto di contrapposizioni e/o affinamenti d idee, esattamente come è capitato per il pensiero filosofico, di cui la materia è una branca, e dove l'ultima acquisizione non è di per se stessa la verità, ma solamente una posizione di pensiero, spesso contrastata con altrettanta logica da posizioni diametralmente opposte.
    Allora credo che il lavoro e l'intendimento di condurre a unitarietà il patrimonio culturale che l'uomo ha sviluppato in epoche e zone diverse del mondo, probabilmente siano cose buone e giuste, degne anche d'encomio; ma ridurre tutto a un brodo comune mi pare esagerato, oltre che insensato.
    Mi viene da pensare al sapore di un succo derivato dalla spremitura di arance, limoni, pesche, uva e di tutti gli altri frutti: magari farebbe bene alla salute, ma non si può negare che sia la negazione del gusto e della specificità di ciascun frutto.
    Ne sia prova di come ogni epoca e ogni civiltà si sia posta di fronte all'idea dl divino: riflettiamo un attimo sulla congruenza dell'idea di un dio unico nelle tre principali religioni monoteiste per le quali l'unico Dio ha creato il mondo e tutti gli esseri viventi e le cose, ma che in nome della sua grandezza e gloria si distruggono le creature che Egli stesso ha creato.
    E, in ultima analisi, si badi bene che, accanto alle ragioni che portano a credere in Dio (a quello unico o ad altri), esistono argomenti che supportano con altrettanta logica l'ateismo, che è un atteggiamento religioso assai diffuso, anche se non erige templi, la mancanza dei quali avrà l'effetto che mai potranno gli archeologi del futuro misurarne la diffusione, così come ci si aspetta per i simboli del passato.

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  10. Comprendo bene le sue perplessità, Franco. Senza davvero la minima intenzione polemica, mi permetto tuttavia di attribuirle a quel particolare vizio prospettico con cui noi moderni osserviamo le civiltà arcaiche. Circa la questione centrale della concordanza universale dei simboli (sui quali terrei a precisare che non ho mai pensato di giocare, e vi pregherei di credere alla mia più assoluta onestà intellettuale) e delle concezioni che veicolano, inviterei in ogni caso a non limitarsi ad esprimere vaghe perplessità di ordine generale, magari supportate da efficaci metafore, ma a valutare la validità del metodo comparatistico che utilizzo, che peraltro non sono certo io il primo ad aver impiegato. Segnalo il monumentale lavoro di R. B. Onians, che dimostra tramite una mole impressionante di attestazioni testuali e archeologiche la confluenza delle convinzioni di tutte le culture arcaiche in ambito fisiologico e psicologico (nel senso della "psyché", ovviamente), e il lavoro pluridecennale di G. Dumézil in ambito indoeuropeo.

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  11. Qui, Matteo, e per quanto mi riguarda in modo particolare, non abbiamo paura delle polemiche le quali, a ben guardare, sono ossigeno per le discussioni e per il blog in modo determinante, perché danno a pensare anche per chi non vi partecipa, ma si limita a leggere le cose giuste che dice lei e le cose sbagliate che dico io, le quali ultime non dipendono espressamente dal fatto che sarei sbagliato (e tanto meno modesto), ma prioritariamente dalla mia semi-ignoranza della materia.
    Quanto al suo lavoro, e non mi secca ripetermi, ho detto quanto impegno ci ho visto dietro e, per quel che riguarda gli studiosi che lei cita (Onians e Dumézil - il secondo ha un cognome che sembra un farmaco antidepressivo! -) e dei quali c'invita con nonchalance a leggere il corposo lavoro, ho già deciso che non lo farò, non essendo scemo del tutto, perché alle risposte che da millenni si cercherebbero intorno al fenomeno della vita, ma specialmente della morte, alla mia età conviene aspettare un poco e verificare di persona, come in tanti hanno preferito fare, sebbene nessuno che ne ha avuto esperienza, è stato così consolatorio verso di noi per tornare a riferire.
    Lo so che la frase è lungo e tortuosa, ma certo non la spaventa, se è abituato alle letture di cui sopra. Rispetto alle quali, pur non conoscendo gli autori, sono scettico per pregiudizio: credo infatti che abbiano trovato soprattutto quello che volevano trovare, per saziare la fame di autoreferenzialità che forse possedevano in massimo grado.
    Provi solamente a ipotizzare se, dopo pluridecennali studi, quel sig. G. Dumézil avesse tirato le somme dicendo che in abito indoeuropeo, le questioni circa la morte erano e sono ancora trattate come quelle relative alla vita, cioè ciascun popolo per i fatti suoi.
    Avrebbe descritto precisamente la situazione politica attuale, sia in ambito europeo che in quello del subcontinente indiano.

    In fine, la prego di non prendersela se le è parso che ho menato il can per l'aia, perché i cani, specialmente quelli che ci abbaiano in testa, di tanto in tanto bisogna farli uscire in libertà.

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  12. Come sempre è il metodo che si pone in discussione. Ma si sa che non esiste un metodo più metodo degli altri. Tranne che nella spocchia accademica. Ma una cosa però si può dire pacificamente: che esistono metodi della 'reductio ad unum' ambiziosissimi e molto difficili da digerire. Anche perché l'accumulo dei dati probanti (o che tali si intendono) frastorna un lettore comune. In genere abituato a considerare il poco e non il molto, il semplice e non il complesso, il particolare e il sincronico e molto di meno (anche perché ci vuole una faticaccia immensa) l'universale e il diacronico. Proprio in questi giorni Sandro Angei riporta dei dati inoppugnabili sul simbolismo sardo legato al ciclo del grano e cita (ma cita solo ovviamente) molti altri luoghi che hanno lo stesso simbolismo astronomico. Ma solo astronomico? O quel simbolismo coinvolge tanti aspetti di tutte le religioni nel profondo, magari con culti e riti solo apparentemente diversi ma uguali nella sostanza? Personalmente, come forse non pochi sanno, me ne sto buono buono forte dei documenti di qui e non di lì, e faccio in genere comparazioni solo 'tecniche' - per così dire - sulla scrittura, su influssi da o influssi verso. Ma mi rendo conto che la scrittura nuragica con il suo sistema legato al sacro e al simbolico (la scrittura è simbologia per eccellenza) avrebbe bisogno di dati comparatistici universali proprio per capirne meglio l'essenza e non solo quella che è forse solo superficie ed apparenza. Che significato profondo ha ad es. il mix? Perché per 1500 anni si scrive in quest'isola con la 'miscela' segnica? Perché non la si abbandona mai? Certo c'è il divino di mezzo. Ma perché? Spiegarlo con tutti i dati culturali del mondo comparati? Perché no? Ma che compito tremendo, ragazzi!

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  13. A vent'anni passai la visita militare per ottemperare all'obbligo di leva come allievo ufficiale di complemento. Era il mese di marzo del 1962: arrivai primo in Sardegna fra i 96 concorrenti. Me lo confidò un capitano medico che mi raccomandò di far fare bella figura alla Sardegna, impegnandomi sempre e, se mi riusciva, di parlare un po' più svelto perché, se come maestro poteva essere un pregio, per un ufficiale di certo poteva sembrare una debolezza.
    Io leggevo anche abbastanza lentamente, ma mi bastava farlo una volta sola per capire e ricordare ciò che andavo leggendo. Un vizio che mi è rimasto.

    Così dico, riguardo alle perplessità che ho dimostrato per l'articolo di Matteo, delle quali Gigi ha tratteggiato un quadro che ne sintetizza le origini, dico dunque che queste perplessità le avevo già dimostrate quando avevo letto varie notizie per preparare quei due articoli sui miti, che videro la luce in questo blog solo un paio di mesi fa. Perplessità che non riguardano esclusivamente gli approdi di questa “reductio ad unun”, ma anche e prima di tutto le basi su cui poggia il castello, fatte da asserzioni che, riportate con le parole di Matteo, si esprimono prima di tutto come “Simboli analoghi (quando non identici) valgono ad esprimere precise concezioni cosmologiche, antropologiche e metafisiche”, perché evidentemente “In secondo luogo non credo possa essere esclusa, a proposito dell'universalità dei simboli, una ragione di tipo "storico", che ci riporta alle origini e al primo gruppo di homo sapiens che 50.000 anni fa dall'acrocoro etiopico iniziava a diffondersi sul pianeta, portando con sé analoghe concezioni cosmoantropologiche e presumibilmente i simboli che le sintetizzavano”.
    Tutto ciò significa che c'è stato un filo conduttore comune di pensiero che, partito dal profondo Paleolitico, ha attraversato i secoli sino alle Età dei metalli per poi rompersi, nessuno ancora ha detto quando, benché sia eclatante il fatto che le mie perplessità, e non solamente le mie, siano dovute - dice sempre Matteo, ma è una banale interlocuzione comune – a un'ipotesi che “mi permetto tuttavia di attribuirle a quel particolare vizio prospettico con cui noi moderni osserviamo le civiltà arcaiche”.
    Un vizio prospettico di noi moderni, dunque, dato che noi siamo, purtroppo mi viene da dire, “moderni” rispetto a tutti gli stadi della storia, senza considerare che la modernità non contiene un'indicazione quantitativa o qualitativa assoluta, ma soltanto ordinatoria: siamo moderni rispetto a quello che è passato, rispetto a tutto quello che è antico. Anche i Romani del tempo di Augusto erano stati moderni rispetto a quelli dell'era dei Re; i Greci delle Termopili rispetto a quelli della guerra di Troia, e via discorrendo molto banalmente delle varie epoche trascorse.
    Ecco allora che mi chiedo: perché solo la nostra modernità è viziata da una prospettiva sbagliata nel vedere le antiche civiltà?
    E se così fosse, ma io non lo credo, c'è qualcuno che ha ipotizzato il momento esatto in cui il virus si è espresso?
    Oppure c'è stato un cambiamento, improvviso e strutturale, della nostra “psyché”, dovuta magari a effetti collaterali di un'ibridazione dell'homo sapiens con l'homunculus viridis martius?

    Per tornare a noi, se è vero che mi divertono i paradossi, è anche vero che non digerisco i dogmi.
    Chiunque me li proponga, s'intende.

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  14. Ora dovrò essere un po' polemico, sebbene di malanimo.
    Che ogni moderno sia moderno rispetto ad un antico in senso meramente ordinatorio è un'ovvietà; ma che ogni epoca possa esprimere un identico livello di comprensione (o di incomprensione) del reale, qui è precisamente uno degli aspetti della distorsione prospettica moderna di cui parlavo: l'idea che la storia non sia un processo lineare non-qualificabile in senso assoluto (come per noi moderni occidentali a partire dalla storiografia Secentesca), ma un precipitare ciclico delle possibilità universali è patrimonio comune a tutte le culture arcaiche tradizionali (con una straordinaria capacità di persistenza fino al nostro Umanesimo. Come anche i liceali sanno, in Occidente la cultura inizia a farsi un vanto di essere antitradizionale a partire dal XVII secolo): il "mito" latino delle età metalliche (oro, argento, bronzo e ferro) e delle quattro ere del Manvantara nella cultura Vedica siano la prova della diffusione globale di tale concezione.
    Ma, oltre a questo, mi pare ci sia molto di più: e cioè mi pare ci sia la negazione di un dato evidente, e intendo dire evidente storicamente e criticamente: alle civiltà arcaiche (e come limite storiografico certo indicherei la fine del VI sec. a.C, quando in tutto il gobo si verificano mutazioni socioculturali radicali, delle vere e proprie fratture, come la rivoluzione che a Roma portò alla fine della monarchia e della religio arcaica, che in Grecia portò alla nascita della filosofia, in India alla nascita del Buddismo, in Cina del Confucianesimo, etc…), alle civiltà arcaiche - dicevo - è estranea ogni prospettiva relativistica, che invece giustifica l'atteggiamento di Francu, e quelle verità universalmente credute come tali sono ben delineate nei testi tradizionali. Inviterei - torno a dirlo - a non limitarsi a vaghe contestazioni impressionistiche prospetticamente viziate da atteggiamenti relativistici (questi sì) antistorici quando si parla di un mondo completamente "altro" rispetto al nostro, e a confutare su base documentaria le ricostruzioni che del simbolismo e delle dottrine psico-fisiologiche, cosmologiche e metafisiche che esso veicola si offrono.

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  15. Mi permetto ancora di invitare alla paziente lettura dei lavori che ho citato, proprio per verificare la qualità della proposta, oltre ogni dogmatismo. E francamente mi pare assai più dogmatico (e autoreferenziale) l'atteggiamento di chi, pregiudizialmente, rifiuta di confrontarsi con la lettura di un saggio accusandone di autoreferenzialità gli autori, che hanno invece avuto la pazienza di schedare e proporre ordinatamente i documenti (documenti) su cui è fondata la loro proposta, evitando di accendere la coda alla prima volpe che incontravano.

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  16. Non ho che da rallegrarmi che Matteo si sia sentito in dovere di polemizzare, “sebbene di malanimo”, come precisa, volendo intendere io quel vocabolo non nel senso primario di “astio”, ma solo di una sua neghittosa predisposizione per la polemica che effettivamente è stata, e per me rimane, non sulle persone, ma sugli argomenti proposti alla discussione.
    Almeno così ho creduto perché diversamente, se non sottoponibile a intelligenti o improvvide osservazioni, il post si porrebbe come un trattatello per una sorta d'indottrinamento per un popolo scarsamente avvezzo ai temi d'alta cultura.
    Vero è che Matteo invita, e re-invita me in modo specifico, a leggere le opere degli autori citati, in primis Dumézil e Eliade, prima di ardire di aprir bocca o sfiorar tastiera.
    Con le buone maniere ricordo di essermi accusato di un limite che non riesco a superare, in quanto leggo con la velocità più o meno di un lettore di telegiornale, senza però imitarne i toni, giacché non uso la voce, ma solamente gli occhi. Ora, cotesto Dumézil avrà scritto oltre cinquanta saggi sulla materia i quali, aggiunti alla quarantina di Eliade, sfiorano il centinaio di opere, manco tutte tradotte in italiano.
    Quanto tempo mi concede Matteo perché mi ritenga in grado di discutere sull'argomento, per aver letto le opere che mi sono state più volte consigliate?
    Oppure mi faciliterà il compito, facendomi scartare quei saggi significativamente inneggianti al fascismo e/o al nazismo e all'antisemitismo dei due autori?
    Dall'atteggiamento mentale, quasi di religiosa riverenza di Matteo verso le posizioni concettuali raggiunte dai due studiosi sul simbolismo, sui miti e sul senso del sacro, sembrerebbe che esse siano universalmente accettate, ivi comprese la metodologia della ricerca e le conclusioni definitive, mentre dai più invece vengono considerate vere e proprie forzature inammissibili.
    Infine, quanto al fatto di essere stato scoperto come un sicuro relativista, ancora non so se dolermi o rassegnarmi alla dura realtà, specialmente se ciò non mi produrrà neppure uno sconticino al supermercato.

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  17. Ho letto tardi la sua risposta, Francu, e altro mi ha impedito di
    rispondere subito. A costo di essere intempestivo (ma la mia attitudine
    metastorica dovrebbe essere ormai nota), devo però difendermi dal ritratto che con abile padronanza
    degli espedienti retorici (specie dell'ironia, talora - questa sì - un po'
    malevola) lei traccia di me nel suo ultimo commento, a proposito del
    quale mi permetto di dubitare che lei si sia limitato a polemizzare sulle
    idee, e non sulla persona. Dall'altrimenti inutile precisazione per cui
    lei vorrebbe intendere l'espressione, da me usata, "di malanimo" non nel
    senso di "astio" (ma la locuzione "di malanimo" - e basta controllare
    qualsiasi dizionario - significa semplicemente "contro voglia") uscirei
    infatti come un astioso e per di più supponente che tenterebbe di
    indottrinare gli altri (il meccanismo retorico della preterizione e la sua
    efficacia sono ben noti). Di più, sarei di fatto nientemeno che un
    babbeo, che si beve tutto ciò che due autori (peraltro accusati da qualcuno di tendenze
    naziste, il che farebbe di me un simpatizzante di tali posizioni? No, certo. Ma
    allora perché precisarlo?) hanno sostenuto (quando anche nell'articolo mi
    dichiaro non concorde con l'interpretazione che Dumézil offre del rito delle
    volpi), mentre io mi limitavo a contestare l'inaccettabile sua
    affermazione per cui "scettico per pregiudizio", "non leggerò il lavoro degli autori" che cito.
    Infine, il suo relativismo non è in discussione in quanto tale - è ovvio
    - (già che c'era mi ha pure dato una bella pennellata di dogmatismo):
    insisto però a dire che non si può trattare da relativiste culture che
    relativiste non erano (su questo saremo d'accordo).
    Insomma, molta e buona retorica, ma poca o nessuna logica argomentativa (e anche questa è un’astuzia retorica):
    ai "dati" forniti nell'articolo e nei miei commenti lei di fatto non
    oppone nessuna contestazione "di merito", che si può attuare - è ovvio -
    solo attraverso altri dati.
    Nessun malanimo nei suoi confronti, Francu. Anzi, mi creda, persino stima
    per il nerbo, la tempra e la qualità dello stile. Ho solo provato, senza
    supponenza, a ragionare mettendo assieme come ho potuto dei dati.

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  18. Gentilissimo Matteo,
    mi ero accusato da me che vivevo di sana polemica e va da sé che quando si polemizza ciascuno fa del suo meglio, altrimenti non ci si diverte.
    Chiaro che era una battuta quella mia pregiudiziale chiusura per le opere di Dumézil e Eliade, quando avevo detto che mi ero interessato ai loro studi in una recente occasione.
    Ho anche detto, e ripetuto, che ho apprezzato il suo lavoro. Se mi conoscesse, capirebbe che non l'avrei scritto se non lo pensassi veramente, mi sarei stato zitto, al massimo, perché non mi va di insultare nessuno gratuitamente.
    Comunque, siccome speravo che lei non avesse lasciato cadere la disputa, avevo pronta una puntata nella quale spiego meglio perché Eliade non mi convince, indipendentemente dal suo credo politico, come cerco di spiegarmi meglio nell'intervento che segue, perché il blog non accetta più di un certo numero di caratteri.

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  19. Dice Eliade, in un saggio del 1969:
    “È difficile immaginare come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell'uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l'esperienza del sacro lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato”.

    Che si considerino queste affermazioni un punto di partenza o l'approdo di una linea di pensiero, difficilmente sfugge che alla base di tutto sta un dogma, ultimo rifugio di una mente spaventata dal “flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato”. Una mente che che si arrende di fronte alla realtà che sappiamo essere complessa di suo e non potrebbe essere che tale; una mente che alza le mani e chiude gli occhi, aspettando una “ierofania”, una manifestazione del sacro, anzi un'intrusione del sacro nella realtà che ne determini il significato.

    Si sa che Mircea Eliade viaggiò moltissimo e imparò almeno una ventina di lingue durante i contatti con i popoli più diversi, da quelli caucasici e siberiani, sino agli aborigeni australiani. Questa strabiliante capacità di apprendere nuovi linguaggi potrebbe essere dovuta all'essersi fermato il suo sviluppo mentale all'età della fanciullezza, esattamente la stessa in cui in tutti gli uomini è massima l'abilità di apprendimento del linguaggio.

    Altro sintomo del non superamento dello stadio della fanciullezza, a mio parere, potrebbe configurarsi nella ovvietà dei postulati espressi – lo spirito umano (?) non funziona senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; la coscienza non può manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell'uomo – dai quali, con l'apparente logica di un sillogismo, approda ad affermare che “ la coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro”, ciò che appare ed è solamente un'affermazione gratuita.

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  20. Eliade scrive che non vi è continuità nella storia bensì un sovrapporsi di cicli cosmici, ognuno dei quali contiene una Creazione, un'Esistenza, e un Ritorno al Caos. Un Caos impossibile da governare da parte dell'uomo, per cui è d'obbligo l'intervento del gesto “sacro” per tornare a quel illud tempus, il Tempo Mitico, che ripropone ogni volta il tempo primordiale.
    Forse che l'impossibilità dichiarata per l'uomo a intervenire per una razionalizzazione del Caos, non appare come il frutto della paura, dell'immaturità tipica della fanciullezza che attende un gesto sovrumano, quel gesto sacro che fu compiuto dagli dei, dagli eroi, dagli antenati in un tempo primordiale?
    Parallelamente, l'eccessiva generalizzazione, quell'azione cioè che si mette in atto quando si fa di tutta l'erba un fascio, non pare assimilabile a un'infantile espressione d'insicurezza per essersi trovato di fronte a una realtà problematica non facilmente conciliabile con una soluzione semplice e non riconducibile a una visione unitaria?

    Anche secondo G. Kirk, classicista britannico, il mondo arcaico intravvisto con gli occhi del romanticismo, parallelo al mito moderno del “buon selvaggio”, sono esagerazioni che, unite a una marcata ripetitività, hanno reso Eliade impopolare tra molti antropologi e sociologi. Inoltre Eliade avrebbe basato la sua teoria dell'eterno ritorno sulle funzioni della mitologia aborigena e l'avrebbe poi applicata ad altre mitologie per le quali era inadeguata. Per esempio, sempre Kirk ritiene che l'eterno ritorno non descriva a sufficienza le funzioni della mitologia greca e di quella nordamericana.

    Infine, senza che nulla io osi o possa togliere a quanto di importante ha detto, il dubbio non nasce dal fatto che Eliade abbia acceso la coda alla prima volpe che ha incontrato, ma dall'impressione che abbia appiccato il fuoco a tutte le code transitategli a portata di fiammifero, senza affatto badare a chi appartenessero.

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  21. Non so bene perché l'attenzione si sia diretta con tanta decisione verso Eliade, un cui saggio ho menzionato, in un mio commento, solo di sfuggita e in maniera del tutto circostanziale. Nel mio post del 7 marzo indicavo gli autori che hanno mostrato sul campo la bontà e l'efficacia del metodo comparativo, e ne caldeggiavo la lettura: "Segnalo il monumentale lavoro di R. B. Onians, che dimostra tramite una mole impressionante di attestazioni testuali e archeologiche la confluenza delle convinzioni di tutte le culture arcaiche in ambito fisiologico e psicologico (nel senso della "psyché", ovviamente), e il lavoro pluridecennale di G. Dumézil in ambito indoeuropeo". Di Eliade non facevo cenno. Certo, ritengo sia un autore con cui confrontarsi, ma sarà forse sorpreso di sapere che nei suoi confronti io nutro una perplessità
    radicale, forse ancora più radicale di quella che lei manifesta, ma che non muove però dai limiti che lei individua: in fondo Eliade ha solo commesso l'errore (se così vogliamo esprimerci) di sposare un concetto, quello della storia come evento ciclico dalla compiutezza alla dissoluzione, che costituisce un patrimonio comune a tutte le culture arcaiche, almeno in ambito indoeuropeo, e dunque di smarrire quell'oggettività e quel distacco che ogni studioso dovrebbe imporsi come habitus metodologico di base. Ma qui devo dire che sarei molto cauto nell'usare il grimaldello psicanalitico per scardinare la fondatezza e la validità delle posizioni altrui, se non altro perché tutti possiamo essere sottoposti allo stesso trattamento, e allora chi potrebbe salvarsi? Ricordo un'intervista in cui Andrea Zanzotto, commentando la nota posizione di Croce a proposito della poesia e della filosofia di Leopardi, giudicate come il riflesso distorto di una vita non vissuta, o vissuta all'insegna della sofferenza e dell'incompiutezza, ebbe a dire, col suo solito contegno liliale e con la sua aria trasognata, qualcosa di questo tenore: «Bisogna capire Croce: scampò miracolosamente a un terribile terremoto, a causa del quale perse entrambi i genitori, quando aveva appena diciassette anni. È comprensibile che abbia sviluppato, anzitutto per garantire a sé stesso un equilibrio psichico che altrimenti avrebbe rischiato di vacillare rovinosamente, una critica che voglia garantire all’arte e al pensiero un’indipendenza assoluta dalla vita reale, con le sue insanabili contraddizioni. Si è creato così il proprio paradiso ideale».

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  22. Il limite più grave che individuo in Eliade è proprio un limite metodologico: soprattutto nei primi capitoli del Trattato di Storia delle Religioni e in molti altri saggi (ad esempio quello introduttivo al volume Immagini e Simboli) in cui offre trattazioni che si vorrebbero generali e sistematiche, risulta talmente fumoso, retorico, volubile e inconsistente da scoraggiare anche il lettore più volenteroso. Dice senza provare, propone senza argomentare, e sicuramente usa l'antico come supporto per l'esposizione di una personalissima visione delle cose.

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  23. Ancora a proposito delle "ere metalliche" e della concezione ciclica del tempo che esse presuppongono, in realtà, nonostante ciò che sostiene Kirk, Eliade parte proprio dai testi vedici, e non dall'etnologia, come attesta un saggio molto interessante dedicato alla dottrina vedica del Manvantara (ora ripubblicato nel già citato volume Immagini e Simboli), e quale che sia la capacità esplicativa del mito dell'eterno ritorno (ma la teoria dei cicli cosmici è in realtà cosa assai diversa) nel contesto del mito greco, la più antica formulazione europea di tale dottrina è proprio quella esiodea (Le opere e i giorni, vv. 109ss).
    Ma davvero, su Eliade non spenderei altre parole: lo stesso Dumézil lo accusava di essere un ottimo scrittore, ma non altrettanto valido studioso…
    Resta la questione da cui è nato il dibattito: il metodo comparatistico che sostanzia il lavoro di Onians, Dumézil, Coomaraswamy e di autori più controversi quali Eliade e René Guénon (mi metto umilmente come sesto in mezzo a tanta schiera) ha un fondamento scientifico o è da scartare come meramente velleitario? Proverò a dire la mia in un intervento che però mi richiederà qualche tempo, curioso di sottoporre ciò che produrrò alla prova della sua acribia critica, Francu, e di quella degli altri benevoli lettori.

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  24. E io aspetto volentieri, senza impazienza.
    Grazie.

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