domenica 7 agosto 2016

GENTI E COSTUMI ROSSO PORPORA SEMIOTICA NELL’ABBIGLIAMENTO

Giancarlo Casula
10 - GENTI E COSTUMI ROSSO PORPORA




Con questo articolo termina la serie di pubblicazioni dedicate alle “Genti e Costumi Rosso Porpora”.
Ringrazio Sandro Angei , i curatori del sito, i lettori, al prof. Gigi Sanna e tutti quelli che sono intervenuti.  
Ho più volte rimarcato come gli articoli sono tratti da storie vere descritte nel mio libro Desula dove il filo conduttore è proprio il vestito delle protagoniste.  Non è stato facile per me sviluppare questi argomenti  sia perché la mia attività professionale non mi concede il tempo da dedicare alla ricerca ed alla scrittura e sia per il percorso di osservazione diverso e alternativo che ho voluto seguire nel corso degli anni. L’obbiettivo era quello di descrivere una Sardegna completamente inedita partendo da un elemento che a me appariva poco approfondito e soprattutto non rappresentato adeguatamente: le donne.  

Ho così studiato, per tanti anni, l’universo femminile del mio paese visto dall’interno e nella sua intimità. Un viaggio ermeneutico cercando di cogliere nelle vite delle protagoniste, nelle vite delle mamme e delle nonne, tutti quegli elementi illeggibili ad occhi esterni. Ne esce fuori il quadro di un mondo colto ma, al tempo stesso, discreto, quasi impenetrabile, con codici comportamentali articolati e raffinati che trovano una loro rappresentazione spettacolare proprio nei  vestiti. Questi, come abbiamo visto in tutta la loro complessità, diventano il dialogo a distanza fra le donne.
Ma, per chi lo volesse leggere, nel libro Desula troverà molto di più. Ci sono storie incredibili di donne “normali”,  la loro cultura che passa pure attraverso la poesia esternata nei momenti di felicità e di tristezza, la lingua materna con le particolarità glottologiche, inoltre la programmazione del lavoro sia domestico che quello della campagna con la produzione agricola, l’allevamento ecc. Tuttavia è l’organizzazione sociale che rivela come sono proprio le donne le vere protagoniste della nostra comunità. Viene infatti descritto un ambiente in cui il matriarcato e l’emancipazione femminile raggiunge un livello che non ha paragoni nel mondo, a nessuna latitudine. 
Insomma spero che questi articoli ed il mio libro, suscitando l’interesse dei lettori, contribuiscano ad una rivisitazione della figura delle donne in Sardegna ed allo studio più attento del loro straordinario patrimonio culturale. 


Vorrei infine poter salutare tutti i lettori proponendo la visione del cortometraggio Desula tratto dal mio libro, del regista milanese Andrea Pecora che sintetizza in pochi minuti il messaggio del mio lavoro. Il link è:
               
Il cortometraggio, che ha appena vinto il premio nazionale Treccani della famosa casa editrice, ha anche ricevuto l’onore della sua pubblicazione negli Stati Uniti nel sito della National Geographic International. Infine è finalista in famosi premi del settore fra cui quello di Milano che è uno dei più importanti al mondo.

6 commenti:

  1. Bello. Bello tutto! Un bellissimo contributo, anche per il Blog. Grazie Giamcarlo: 'sa poesia est totu/si nos animat cudd'impetu sinceru/ e nos faghet cun s'anima cantare' (Antioco Casula).

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  2. Bellissimo cortometraggio che racconta il passato e le meravigliose tradizioni della Sardegna e di Desulo come anche il tuo libro Desula che mi è piaciuto tantissimo...Tanti cari saluti da Gavino e famiglia

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  3. Quanto si può raccontare in 120 secondi?
    Ricordo che un professore catalano che insegna a Cagliari (mi scuso, ma non riesco a ricordare il nome), un giorno che a Quartucciu si doveva parlare di limba, impiegò i primi 300 secondi del suo intervento per enumerare, in italiano, i suoi titoli e i suoi meriti.
    Onestamente è un tempo sufficiente a una persona normale per recarsi alla toilette e tornare al suo posto.
    Allora bisogna fare attenzione ad Andrea Pecora che, fatto salvo il cognome, non va dietro ad altri che alle proprie idee.
    Non conosco il libro di Giancarlo, ma sono preso e non sorpreso dalla passione con cui parla di ciò che conosce meglio.
    E onestamente devo dire che i volti di donne desulesi mi hanno riportato violentemente alla memoria i visi delle donne di Morgongiori, di Ruinas, di Villa S. Antonio e degli altri villaggi dell'Alta Marmilla che incontrai una decina d'anni or sono, per la ricerca antropologica, ahimè mai conclusa, perché la relativa Comunità Montana che la finanziava fu abolita.
    Questo mi fa dire che, a parte gli abiti, in Sardegna le donne hanno tutte le medesime strutture intellettuali e morali, così come le case che, possono cambiare nel colore esterno o nei materiali - pietre o ladiri - ma la filosofia costruttiva è identica per tutte. Per tutte, dico, quelle per le quali non misero mano i geometri di paese che, con la loro spiccata fantasia, fecero somigliare le nostre periferie più a Los Angeles che ad Armungia, in questo aiutati dalle direttive politiche dei piani di fabbricazione di una volta che ora hanno cambiato nome, ma non sono certamente meglio.
    Sono uscito dal seminato e mi aspetto un rimbrotto da Sandro Angei, ma sappia che considero lui un geometra di città.
    Sempre che non sia peggio.

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  4. Caro Francu non mi ritengo un geometra di città, anzi. Per quanto riguarda le antiche case hai ragione a chiamarla “filosofia costruttiva”; quella faceva parte di un modo di vivere. Hai ragione pure a puntare il dito sui “geometri”, eh si! Perché fino a non molto tempo fa nei paesi il progettista era quasi esclusivamente il geometra di paese, al quale però non darei tutte le colpe “costruttive”, perché le periferie di tutte le “Armungia” sono il risultato del cambiamento della società agro-pastorale che evolvendosi non aveva più bisogno di una casa con quelle caratteristiche e si adeguava al nuovo stile di vita.
    Il discorso naturalmente è molto più ampio e articolato, e non è certo questa la sede per discuterne.
    Ho avuto la stessa tua impressione nel guardare quei visi… tanto familiari da far venire la pelle d’oca. Quello sguardo sereno intento nel ricamo, che guida il gesto della mano e delle dita che con leggero strappo tirano il filo… quante volte l’ho visto.
    La fotografia in fondo all’articolo, mi ha ricordato un’altra persona, benché in posa e situazione diversa. Avevo tra le mani una fotografia scattata nel 1934 e con curiosità chiesi: “Chi è questa signora?”. “Sono io e avevo 16 anni.” Fu la risposta, tanto da presumere che la sposa ritratta nella fotografia dell’articolo non abbia più di vent’anni.

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  5. “L’arcaicità delle fogge e degli indumenti del vestiario popolare sardo è la costante presente in quasi tutti gli studi sull'abbigliamento popolare isolano, così come anche i caratteri di individualità e di unicità di questo modo di vestire. La Sardegna risulta, in questo quadro, quasi staccata dal contesto geografico e storico mediterraneo e dalle epoche più recenti, per cui il vestiario popolare – e in modo particolare quello maschile – veniva presentato come fossile di un lontanissimo passato. Eventuali particolarità tecniche di manifattura degli indumenti che potevano fornire elementi per una corretta indagine sotto l’aspetto storico e testimoniare invece una antichità e una conseguente ‘nobiltà’ piuttosto esigue non si sono tenute nella dovuta considerazione e si è preferito considerare l’indumento quale doveva essere in un metastorico ‘prima’” (dal blog Le vie della Sardegna, testo di Gerolama Carta Mantiglia, autrice di diverse pubblicazioni su abbigliamento e tradizioni sarde).
    “L’abito tradizionale sardo ha origine, come del resto la maggior parte dei costumi popolari europei, nei secoli XVII e XVIII . Influenze spagnole e mediterranee, anche greche, l’abolizione delle leggi che prevedevano un abbigliamento collegato al censo, l’importazione di tessuti di pregio dalla Catalogna e da altri Stati, consentirono ai nostri artigiani di creare costumi tradizionali di inestimabile valore per ricchezza e straordinaria bellezza di fogge e di colori” (dal sito del negozio di abbigliamento tradizionale sardo, Bagella).
    Stando a queste affermazioni, presentate come riconosciute verità, continuare a credere che il nostro abbigliamento tradizionale abbia collegamenti tanto più antichi sembrerebbe pari al ritenere ancora il kilt scozzese antico di millenni (quando è abbastanza sicuro che fu inventato da un quacchero inglese nel ‘700).
    Volevo perciò chiedere a Giancarlo Casula, se ancora ci segue, quanto sia consapevole di poter essere annoverato tra i sostenitori di una infondata credenza del passato, o quanto invece (indicando collegamenti con Creta, con la cultura di Cucuteni, con Shardana e Fenici, con i Berberi e, riprendendo la suggestione di Antonio Gramsci, con i Khirghisi) si senta fieramente innovatore rispetto a queste letture tanto disincantate. Nonché gli chiederei se può compatire quanti, tra i due fuochi, non sanno bene che pesci prendere.

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  6. Gent.mo Franco Masia
    La ringrazio di cuore per questo intervento e per i suoi dubbi che nascono leggendo i miei articoli e forse il mio libro Desula. Nella premessa di quest’ultimo avvisavo il lettore che
    .... in questo libro, vengono raccontate, attraverso le vicende di donne comuni e dei loro colori, la storia di un paese ma anche le similitudini con altri popoli vicini e lontanissimi, nello spazio e nel tempo. E’ tuttavia un racconto e come tale non vuole avere carattere scientifico o storico di un saggio ed è per questo che non ci sono riferimenti bibliografici, documenti di prova o citazioni che attestino quanto descritto. Anche la storia e’ stata percepita e tramandata dai protagonisti in modo differente da come si legge nei libri.....

    Mi rendo conto dei suoi dubbi ed anzi questi le rendono merito perché effettivamente tutto quello che io descrivo è controcorrente. Da un punto di vista antropologico ribalto l’immagine di una comunità barbaricina da sempre associata alla figura dei pastori con la descrizione di una società invece dominata dalle donne. Con attenzione entro nel loro mondo studiando nei dettagli ogni circostanza perché mi rendo conto che sono proprio queste donne le depositarie di antiche tradizioni. E così rimetto tutto in discussione anche il costume e le “verità riconosciute” anche se arrivano da insigni studiosi. Tutto questo non lo faccio né per provocazione e neppure con l’idea di poter essere annoverato tra i sostenitori di una infondata credenza del passato. La mia posizione è quella di semplice onestà intellettuale e quindi di voler scrivere quello che penso. Da questo punto di vista, pur trovandomi da solo a sostenere le mie teorie, ho cercato il confronto con un pubblico competente. L’Università di Cagliari ha dedicato una giornata di studio e la presentazione del libro ma anche organizzato convegni con ricercatori provenienti da altre università. Ho presentato il libro in tanti paesi e nelle sedi di associazioni culturali. Ho anche ricevuto l’invito in altre città come Sassari ma anche in “continente” come Firenze, Verona , Vicenza dove spero compatibilmente col mio lavoro di potermi confrontare.
    In sintesi io ribalto lo studio dei costumi come elemento prettamente sartoriale ma ne faccio una trattazione semiotica. Il mio impegno pertanto non e’ stato quello di mirare a descrivere le bellezze estetiche del costume oppure a datare il momento in cui sono arrivati in Sardegna nuovi materiali come damaschi o broccati. Neppure datare le nuove mode e nuovi capi di abbigliamento che arrivano a partire dal 1600 ( tra l’altro nessuno con certezza descrive prima l’abbigliamento in Sardegna soprattutto quelli dei paesi dell’interno) ma è stato quello di decodificare i segni presenti nei vestiti. Da questo punto di vista appaiono a tutti evidenti i collegamenti da me descritti con le civiltà del passato come Creta, con la cultura di Cucuteni, con Shardana ecc. ecc

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