sabato 11 gennaio 2020

Funtana coberta - riflessioni sul rito


Parte sesta

ancora "Il pensatore di A. Rodin"

di Sandro Angei
Ipotesi sul sentimento religioso nel rito del pozzo sacro di Santa Cristina

Con la quinta parte finisce lo studio sul pozzo di Funtana coberta di Ballao. Lì in ultimo abbiamo scritto: “Ancora, però, rimane un senso di celata insoddisfazione, un certo-non-so-ché, che, a parer mio e non solo mio, è scopo principale di tutto il rituale concepito da quelle antiche genti.
***
   Perché edificare un pozzo come quello di Funtana coberta e secoli dopo quello di Santa Cristina, facendo ricorso a tecniche ingegneristiche di così alto livello?! L'aruspicina Sarda, se così possiamo chiamarla (che non ha nulla a che vedere con quella Etrusca, e questo a scanso di equivoci e inopportuni, se non faziosi fraintendimenti), non avrebbe avuto bisogno di tale e tanta infrastruttura monumentale per essere attuata, bastava un semplice responso da parte del sacerdote/sacerdotessa; invece no! E' stato concepito un tale apparato scenografico da far invidia ai migliori registi di teatro: perché?!


Abbiamo colto tutto, o quasi tutto, l'aspetto tecnico scientifico messo in atto in quei pozzi; abbiamo colto alcuni segnali dell'aspetto antropico del rituale (ad esempio l'aspersione dell'olio con la duplice valenza tecnico-miracolistica di placazione, quasi un esorcismo, da un lato e religiosa, forse col rito dell'unzione, dall'altra); ma non abbiamo colto l'aspetto principale e primordiale della funzione di questi magnifici pozzi sacri.

Forse non riusciremo mai a svelare questo aspetto a meno di un colpo di fortuna o meglio un colpo di genio, dettato dalla ricerca e studio approfondito e ad ampio raggio del tema. Ciò non di meno cercheremo qui, in conclusione, di scandagliare questo aspetto e se alla fine alcun risultato soddisfacente avremmo colto, rimarrà la soddisfazione di averci almeno provato. Ma iniziamo senz'altro indugio.

Ripercorrendo idealmente i gesti di avvicinamento al pozzo sacro, che sia esso quello di Santa Cristina o Funtana coberta o qualsiasi altro sacro pozzo, siamo consapevoli di avvicinarci ad una struttura dove l'acqua è la sostanza ambita. Tutti i pozzi nascono con l'esigenza di far scaturire l'acqua in superficie e renderla fruibile ai nostri bisogni. L'acqua, dopo l'aria, è la sostanza materiale più importante per l'uomo. Senza respirare si può resistere pochi minuti, senza bere pochi giorni, sotto il sole cocente, poche ore. Per tanto arrivare all'acqua è importante quanto fisiologico, salutifero e salvifico. L'acqua, quale aspetto femminile e protettivo della divinità, è medicina nei confronti della potente luce del sole; quella che in meridiano è implacabile senza l'aiuto dell'elemento liquido. E' questo il contesto, o meglio, uno dei contesti in cui si sviluppa la ricerca e il rito di avvicinamento all'acqua?! E' probabile quanto impossibile saperlo con sicurezza.

A noi piace pensare che questa sia una risposta verosimile, in ragione di ciò riteniamo che l'uomo in un territorio ostile, dove anche il suo dio può diventarlo, cerchi rifugio, come il bimbo nel grembo materno, nel pozzo sacro in cerca di protezione e salvezza. Ma quella protezione deve meritarsela e l'acqua, alla quale l'uomo chiede questa protezione deve essere sacra e santa, forte e potente, ossia “vitale”, mai infima, stagnante e stantia. Perché vitale, ossia forte e potente? Perché nella forza è insito il significato di “energia” e in quello di “potenza” il significato di “potere” ossia la facoltà di fare secondo la propria volontà. E la volontà-facoltà dell'acqua, ossia della parte femminile della divinità, è quella di dare la vita. E che il pozzo sacro sia di natura femminile possiamo capirlo da particolari anche di carattere estetico (per così dire) che possiamo individuare in alcuni pozzi o fonti sacre, dove l'acqua incanalata salta in cascata da un concio lavorato in forme particolari. Così è nel pozzo di Irru di Nulvi1 (Figg.1a, 1b) e così lo ripropone, di dimensioni più naturali, la fonte sacra di Su Tempiesu di Orune (Fig .2a, b, c, d, e), che possiamo accostare (almeno così ci sembra) al bronzetto de "La nuda" descritto nei particolari da G. Lilliu nel suo "Sculture della Sardegna nuragica"  Ilisso Editore pagg. 381-382. (fig. 3).2



Pozzo sacro di Irru Fig.1a


Fig.1b
In corrispondenza della scanalatura orizzontale vi è, sulla parete del concio, una scanalatura verticale

Fig. 2a - Fonte superiore di Su Tempiesu


Fig. 2b - particolare in primo piano
Con tutta evidenza, anche qui vi è la scanalatura verticale sulla parete verticale della sporgenza


Fig. 2c - ancora un primo piano della fonte superiore


Fig. 2d - vista dall'alto


Fig. 2e - Ancora Su Tempiesu - particolare della fonte inferiore


Fig. 3

   Sulla base di questa particolare connotazione, possiamo elaborare una nuova tesi a riguardo del segno a forma di , di cui parlammo nello studio sul pozzo di Santa  Cristina , intuendo in quello studio la relazione tra acqua (parte femminile della divinità) e segno, ma senza riuscire a interpretare in modo compiuto quel recinto. Qui forse riusciamo a dare una connotazione materiale di quel segno, che essendo parte della divinità androgina la dobbiamo accostare in modo significativo al segno del glandoide che di fatto rappresenta la parte maschile di quella divinità. In ragione di ciò il segno qui evidenziato altro non sarebbe se non l'organo genitale femminile rappresentante, appunto, la parte divina femminile e feconda. Ecco che il cerchio si chiude e i due segni che coesistono in particolari templi come quello di Santa Cristina o bacili come quello di "Su laccu de s'abba santa" di Villanova Monteleone, manifestano la divinità androgina in tutta la sua natura e interezza.


 
Su laccu de s'abba santa                      Recinti sacri di Santa Cristina


   Guardando con nuovi occhi il segno a  possiamo ora, solo ora, interpretare il segno della vera del secondo pozzo di Mistras nel Sinnis di Cabras quale segno qualificante quel pozzo... sacro. E ogni qual volta troveremo un segno di tal fatta potremmo pensare che lì vi è o vi era un pozzo o una fonte sacra o comunque, come nel caso del sito nuragico di "Paule S'Ittiri", dei templi legati al culto dell'acqua e della parte femminile della divinità androgina.
Pianta del pozzo di Mistras


Una questione di diritto di nascita

   Nel libro della Genesi vi è scritto “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque. Solo dopo “Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.
   Dunque in principio vi è l'acqua al pari del cielo e della terra; la luce viene dopo. Tant'è che il seme nutrito d'acqua germoglia, e potente, d'incipiente vigore nel buio s'innalza alla ricerca della luce, ossia della manifestazione solare della divinità. Per tanto in principio la vita ha bisogno solo dell'acqua, solo dopo la luce contribuisce a sostenerla. Così è nel grembo materno.
Ecco che allora, nel momento in cui l'uomo ha la necessità, materiale o spirituale, d'essere aiutato, cerca di avvicinarsi a quell'elemento, quel “primo” elemento, di entrarvi in contatto; e il modo più facile è quello di cercare quei luoghi dove essa, l'acqua, sgorga liberamente dalle viscere della madre terra. In mancanza di una sorgente naturale l'uomo cerca di liberare l'elemento vitale dalle maglie terrigene, scavando nella dura roccia una via che possa liberarle la forza, portarla in superficie e servirsene. Quella forza naturale espressa attraverso la pressione dell'elemento liquido su tutto ciò che cerca di ostacolarla e arrestarla; una forza che ha dell'incredibile, tanta e tale può essere la potenza di quel flusso che arriva direttamente dalle profondità della terra. Con timore e apprensione l'uomo cerca di avvicinarsi al suo dio scavando un pozzo che arriva alla falda artesiana; con garbo rompe la verginità di madre terra e quella, l'acqua, prorompe in un fluire verso l'alto, ma ad un certo punto a volte si ferma, tant'è che l'uomo con angoscia pensa di aver arrecato disturbo al suo dio; “che Lui non voglia essere avvicinato?” si chiede... o forse no; forse sta mandando un segnale: “io sono qui” gli sussurra con fare che sembra mansueto, ”avvicinati tu se vuoi e se puoi, perché più io, acqua, mi avvicino a te, sempre più perdo il carattere di sacralità e purezza”. 

   Abbiamo individuato due caratteri acquiferi, uno forte e potente (la sorgente naturale) che dimostra tutta l'energia di quella sostanza che mostra prepotente la sua forza; ed è lì a dispensare, prodiga, beneficio a tutte le creature; il secondo è più mite, legato al sacro; quel sacro che è nascosto ed oscuro, normalmente inviolabile a meno di particolari condizioni. Ecco che l'uomo per avvicinarsi alla natura più profonda e celata della divinità deve muovere lui il passo, creare una via d'accesso nell'oscurità delle viscere della terra, dove l'essenza vitale e divina dimora nella sua sacralità e purezza. Una via d'accesso che deve essere monumentale, degna della divinità che lì vi dimora. Un monumento che incuta nell'animo di chi vi si avvicina, austerità che pian piano, scendendo i gradini, come una marea che s'innalza, profonde calma e sicurezza.

Santa Cristina, 1000 a.C.
Trentuno giorni dopo l'equinozio acqua e luce si uniscono in matrimonio. Con quello sposalizio la divinità acquifero-solare promette la vita. E' un momento di giubilo per la comunità, legata com'è a quegli elementi vitali che tutto regolano in una simbiosi che in un ciclo del 12 orchestra la vita. Quel giorno, 21 di aprile per noi, alieni a quella cultura, è pure il giorno del giudizio divino, quello che decreta abbondanza e felicità oppure, al contrario, vita di stenti e carestia per chi, di dura cervice, non segue i consigli divini (i messaggi della natura). In attesa di quel 21 di aprile l'uomo scruta bene la manifestazione di quel dio lucifero che l'acqua primaverile turba in movenze incontrollate (Fig.4).

Fig.4

Il giorno è arrivato: “Placa la tua irruenza oh divino!” Sembra di sentire il pensiero di quel sacerdote che con fare liturgico versa il crisma su quell'acqua tormentata.D'incanto la turbolenza si placa, e fulminea la luce aumentad'intensità. Ancora una volta il miracolo è avvenuto (Fig.5).

Fig.5

 Ancora una volta il dio attraverso quella sostanza aurea ha manifestato la sua potenza. Quel crisma d'acqua e olio ora è sacro e santo.
L'acqua è sacra e santa fino al prossimo sposalizio.3
***
  Il 21 di aprile è trascorso e tu uomo, col tuo bagaglio di paure e malanni fisici e spirituali, chiedi il permesso di accedere a quel sancta sanctorum per liberarti dal male con quell'acqua appena benedetta, che è diventata sacra e santa in quel tempio della perfezione, dove le omnicomprensive scienze naturali si fondono in un principio unico e indissolubile.
   Quel tempio è lì perché il tuo dio ha voluto che fosse lì.
   La scalinata è orientata in quel modo e conta tanti gradini quanti ne conta, perché il tuo dio ha voluto così.
   Alla fine del percorso di purificazione, che il rito di avvicinamento impone, i tuoi piedi calpesteranno quei gradini forgiati con l'unità di misura che il tuo dio ha voluto così. E quando discenderai quella santa scala che fa parte del disegno divino, perché Lui ha dettato le regole per formarla, tu creatura di dio, percorrila col giusto timore, il giusto rispetto, la giusta speranza e il giusto orgoglio.

   E' arrivato il momento di entrare all'interno di quel temibile recinto (quello esterno, emblema della natura taurina della divinità) e ciò significa per il fedele lasciar da parte la sua natura terrena e materiale, liberarsi di se stesso, e nella sua nudità interiore essere accolto e preso in consegna dai maestri accoliti nel benigno recinto interno, quello di purificazione ed espiazione. Già, espiazione, nel momento in cui il male, corporale o spirituale che sia, si palesa quale sintomo di azione peccaminosa4. L'attesa del proprio turno curativo è di per se purificazione, il sedile a semicerchio attorno al foro apicale del pozzo sacro (Fig.6) rende l'attesa un mimo dello scolare di umori maligni propri della dipartita verso l'aldilà5, quando davvero l'uomo ritorna all'utero materno per essere rigenerato a nuova vita.6

Fig.6

   L'attesa è finita, l'uomo è nuova creatura; è pronto a scende quella scala per cercare conforto e salvezza in quell'acqua sacra e santa; arrivato al bacile depone l'offerta per ingraziarsi, tramite la parte femminile, quella maschile della divinità, quella che fuori attende il suo ritorno alla vita. Attinge a piene mani quell'acqua sacra e santa e ne fa uso per esorcizzarsi da tutti i mali e le colpe, anche quelle che non sa; gli occhi e il viso rivolti verso la misteriosa oscurità primeva.

 Terminato il rito di abluzione è pronto a risalire alla superficie, rinato, libero dai pesi della colpa per la quale il suo corpo ha patito l'oscuro male. Risale al suo mondo ed è pronto ad affrontare come germoglio rinvigorito dalla parte femminile della divinità, la potente luce del maschio toro solare; quella luce capace di sostenere, in unione con l'acqua, la vita su questa Terra. Ecco che l'ascensione del fedele liberato dai suoi mali è una risurrezione, è un ritorno alla vita, quella di tutti giorni. Quell'abluzione compiuta in quel sancta sanctorum gli fa comprendere che non deve allontanarsi dalla parte benigna della sua divinità, perché l'altra parte, il sole taurino, benché dispensatore di vita, è troppo potente, irruento, impietoso e micidiale verso coloro che lo sfidano o riservano a lui poca attenzione. Quel dio solare che però può essere magnanimo con chi timoroso e ubbidiente, sa cogliere i suoi messaggi nascosti.
   Salendo quei 24 gradini il dio solare gli ricorda il Suo sancta sanctorum (Fig.7), quello del tempio edificato in suo onore, disperso in mille e mille luoghi. Un sancta sancotorum che, all'interno del tempio, non è architettonico né materiale ma temporale, un sancta sanctorum che si rivela tale, quasi fosse una porta per un'altra dimensione, il giorno del solstizio di morte e rinascita. E' un sancta sanctorum ideale in un luogo ideale che solo la luce può manifestare in forme domestiche, lì, sopra l'altare.7

Fig.7
Immagine gentilmente concessa dall'amico Stefano Sanna

In ogni luogo di culto dedicato al dio unico androgino, che sia esso pozzo sacro o nuraghe o tomba di giganti, l'imperativo è sempre lo stesso:

Sappi leggere il libro della natura.
Sappi cogliere i miei obliqui avvertimenti.
Sappi cogliere i segnali del mio braccio lucifero che l'altra parte di me innalza, rende potente e vitale.
Sappi ben capire e se saprai ben usare i miei consigli la tua gente non patirà stenti.
Se non seguirai ciò che dico, solo dolore e morte otterrai da me. Nessuna rinascita.

Questo brano appena composto, delinea un carattere del dio nuragico simile a quello del Vecchio Testamento, quello più crudele, quello capace di atrocità verso il suo stesso popolo: “di dura cervice” vi è scritto nella Bibbia. Un dio temuto che emerge dalla ossessiva reiterazione dell'inno alla sua forza: “ 'oz “,  lemma potente che in tantissime iscrizioni a Lui dedicate nelle scritte religiose nuragiche, fà intuire  un flebile segnale di timor panico che traspare in quelle composizioni di sacra scrittura.
Forse sto andando troppo in là con la fantasia... o forse no. L'uomo Nuragico forse era pure “di dura cervice”; ma con accezione diversa da quella accusata dal dio di Israele. Una “dura cervice” a immagine e somiglianza del suo dio. Una “dura cervice” acquisita e fatta propria nel momento in cui il "figlio del toro", padre in terra, si comportava come il padre celeste. Di conseguenza nei figli, che sono specchio dei loro genitori, un carattere simile, di generazione in generazione, si è formato. Un carattere di “dura cervice” appunto, ma pure giudizioso e d'uomo di mondo, ligio al dovere e rispettoso dei dettami della natura. Scrupolosamente osservante, dicevo; quello scrupolo che ancor oggi è insito nel modo di fare dei sardi, che mai si tirano indietro innalzi alle avversità della vita, e pronti sono pure al sacrificio in nome di un ideale e fermezza caratteriale. Così, forse, fu per i Sardana in terra d'Egitto, così si ripropose in Amsicora 1000 e più anni dopo, così si ripeté nella prima guerra mondiale durante la quale i “dimonius” furono formati a “brigata” di soli Sardi per via del loro temperamento 8. Quel carattere sardo che emerge ancor oggi, lì dove l'acqua sembra immobile e quieta.
A Sua immagine e somiglianza.

Alla fine di questa lunga trattazione sui pozzi sacri

ringrazio il mentore, l'amico... il mio maestro.


Note e riferimenti bibliografici:

1 L'immagine del link al quale si rimanda rende efficacemente l'idea.

2 L'ipotesi non è tanto peregrina viste le numerose attestazioni del simbolo fallico quale manifestazione della parte maschile della divinità androgina nuragica. Anzi risulta molto strana la mancanza dell'esplicito simbolo che richiama la parte esterna dell'organo genitale femminile. Si ipotizza la presenza del simbolo femminile in vari monumenti, tombe di giganti sopratutto, ma anche nella struttura dei pozzi sacri e degli stessi nuraghi; ma nessuno di questi monumenti esibisce in modo esplicito la vulva nella sua forma esterna. I due esempi di Irru di Nulvi e Su tempiesu di Orune aprono uno spiraglio in tal senso, offrendoci probabilmente la giusta chiave interpretativa.
    Lo stesso G. Lilliu così scrive descrivendo il bronzetto de "La nuda": "La femminilità della figura è dichiarata soltanto dalla ferita del sesso, netto e inequivocabile. Null'altro viene rappresentato delle caratteristiche femminili (e per null'altro si distingue il bronzetto da quelli maschili) al di fuori dell'organo genitale che, evidentemente, aveva valore esclusivo di caratterizzazione della natura feconda della donna, mentre si trascurava, assenti le mammelle, quella di nutrice."
   G. Lilliu ci da, con queste parole, l'esatta connotazione dell'organo genitale rappresentato nel bronzetto, e di conseguenza quello rappresentato nei pozzi sacri di Irru e Su tempiesu: la vulva rappresenta la "fecondità". Fecondità intesa quale generatrice di vita ma anche di rigenerazione.

3 Su facebook è comparso qualche giorno fa un post del Prof. Gigi Sanna sul formaggio marcio, che poi tanto marcio non è, visto che con ogni probabilità l'appellativo è dettato da una errata traduzione di "casu martzu". Casu martzu, dicevo, che a guardar bene è pantomima di quanto qui stiamo descrivendo di un rito ancestrale. Pensate un po' alla fiscella di formaggio (pischedda de casu)  che esposta in un determinato ambiente: miscela alchemica di fattori quali quello temporale, di temperatura e ventilazione e "forse" di un-certo-non-so-ché dettato dall'esperienza,  innesca una procedura per la quale una piccola mosca, detta "mosca casearia" insemina (è proprio il termine esatto) la terrigena "dea madre" casearia, lì dove il giusto equilibrio umido di quella sostanza determina il fiorire della vita. Ecco che quei "germi" vitali, inoculati dall'essere volante, danno il via ad un tripudio caotico di esseri larvali che di quella "terra" si cibano per poter a loro volta rinascere, finito quel ciclo, a nuova vita nell'aere. Salvo però il gesto primordiale di mano esperta armata di "arresoja" che con abili gesti apre la via al padrone di quella mano, che arrivato alla sorgente, di quella "terra" e di quella vita si nutre.

4 "In tutte le tradizioni religiose la salute è sempre stata vista come un dono di Dio. All'opposto l'essere malato, fin dall'antichità, veniva associato ad una forma di peccato, alla punizione divina per non aver adempiuto ai precetti religiosi, si pensi alle culture mesopotamiche o a quella egiziana [omissis]". Il testo appena citato è tratto da “La scienza medica 'rivelata': spiritualità, religione e malattia" di Lucio Meglio, in “Salute e Salvezza. I confini mobili tra sfere della vita” a cura di Marco Bontempi e Antonio Maturo – Franco Angeli Editore Pag. 76.

5 Una pratica funeraria attestata in molti luoghi del meridione d’Italia tra i secoli XVII e XIX prevedeva che i corpi dei defunti venissero adagiati in posizione seduta all’interno di nicchie murarie dotate di sedili che permettevano il deflusso dei liquidi cadaverici mano a mano che la decomposizione seguiva il suo corso e facendo sì che il corpo si purgasse delle parti molli e putrescibili fino all’essiccamento totale dei tessuti. A processo concluso, le ossa venivano lavate con aceto e in alcuni casi con una soluzione di cloruro di calce e deposte in un ossario ad esclusione del cranio che veniva esposto a vista su un lungo mensolone di pietra.
   Ancor prima, molto prima, troviamo il defunto in posizione seduta, o meglio rannicchiata, ma in verticale nelle tombe a pozzetto di Monte Prama. Anche lì per purgare il corpo?

6 Qui forse si intravvede l'anello mancante, quello che unisce i tre grandi monumenti nuragici emblema di un dio androgino creatore di vita. Tre monumenti che delineano le tre fasi della vita. Il nuraghe, quale  tempio del toro solare rigenerante (inizio dopo la fine e fine dopo l'inizio in un continuum spazio-temporale che mai ha avuto inizio e mai avrà fine). Il Pozzo sacro tempio dedicato allo scorrere della vita e delle sue fasi alla ricerca della rigenerazione e sostentamento dei vivi. La Tomba di giganti, tempio di passaggio dalla vita alla rinascita attraverso la morte. Quella rinascita nella luce di un dio luminoso.

7 Si veda Sandro Angei - Il toro sull'altare 2015 in http://maimoniblog.blogspot.com/2015/12/il-toro-sullaltare.html.

8 Non so se tutto ciò che vi è scritto nella testimonianza di Daniele Lostia Falchi figlio di Andrea Lostia sia vero, ma di certo molto di ciò che vi è scritto denota il carattere di suo padre.
   Andrea Lostia aizzò i suoi commilitoni sardi alla ribellione nei confronti della prepotenza di altri commilitoni “continentali” del loro reggimento, tent'è che pochi uomini, avvezzi alla lotta di tutti i giorni per la vita, a quanto pare, si imposero su un intero reggimento. Ma Andrea Lostia raramente parlò di quella vicenda in famiglia e in paese. Anzi, quando fu arrestato per quei fatti, non volle che la sua famiglia venisse a sapere di quel gesto. Ma la sorte volle ben altro.
 Tutta la vicenda è venuta a galla quando un suo commilitone, ormai 82enne, confidò al figlio Daniele ciò che veramente avvenne.
Ecco che da quel racconto pubblicato dalla "Nuova Sardegna"  (https://www.lanuovasardegna.it/regione/2015/01/02/news/nacque-da-una-rissa-furiosa-la-leggenda-dei-dimonios-1.10597004) si evince il carattere di quell'uomo, schivo e di poche parole; timoroso della famiglia; ma combattivo e crudele all'occorrenza, lì dove incombe il sopruso, e la libertà e la parità di diritti è infranta.

Si badi bene che queste asserzioni sono lungi dall'essere di carattere politico. Io non faccio politica, non me ne occupo e non voglio che altri possano intendere da quel che qui ho scrivo, qualcosa di diverso da quello che voglio intendere, ossia la ricerca delle origini del carattere di noi sardi; intravvedendo in questo carattere quel modo di pensare forgiato in millenni di un ripetuto modo di vivere la vita.

Cosa c'entra, si chiederà il lettore, questo discorso con i riti legati ai pozzi sacri e/o ad altri luoghi sacri di età nuragica? Vi entra nella misura in cui il carattere dell'uomo sardo è carattere di una comunità legata a dei principi di base univoci riconosciuti dal gruppo in funzione di una entità superiore (la divinità androgina nuragica) riconosciuta da quel gruppo e che nel passare dei secoli e dei millenni è stata acquisita diventando “carattere” distintivo; e ogni gesto e modo di pensare e operare risponde ad un primevo gesto e modo di pensare e agire, benché si sia perso nei secoli il motivo che diede vita a quei modi e quei gesti.

    Vi sono tanti segni che fanno la differenza tra il carattere di un popolo e l'altro. Uno di questi, prendendo spunto de "su casu martzu" proposto in nota 3, fa capire quanto nascondimento opera l'uomo sardo nei propri gesti e le proprie abitudini. Chi mai, alieno a questa cultura, oserebbe inconscio, affondare la punta di un coltello in quella forma ribollente di saltellante vitalità e gustarne la prelibatezza. Infatti il nostro "casu martzu" è stato definito il più micidiale degli alimenti putrescenti. Qual'è la filosofia sarda?! Lasciamoglielo credere, come dice il proverbio "pagu genti mellus festa!"
Ma la morale è ben altra. La morale è quella di saper cogliere i segnali della natura che quella divinità elargiva in molteplici e variegati modi, che fossero questi: ierofanie, geometrie, indicazioni di direzione astronomiche o... alimentari. E questo aspetto, forse, possiamo coglierlo nella consapevolezza che la divinità, in fondo, benché chiedesse rispetto anche in modo aggressivo e spietato, assicurava la vita a chi di Lui si fidava ciecamente. E la prova di questa "fede cieca" dell'uomo nei confronti della sua divinità traspare nei pozzi sacri, in tutti i pozzi sacri. Riflettendo su questo mi viene in mente che di fatto vi è una prova che ciò sia vero. Lo scavo di alcuni pozzi che arrivano a profondità inimmaginabili, come quello di Santu Antine di Genoni (profondo 39 m) o quello di Cuccuru nuraxi di Settimo San Pietro (profondo 22 m), realizzati in cima a delle colline (Santu Antine di Genoni è esempio eclatante) sono proprio la prova di quella cieca fede di quegli uomini nei confronti del loro dio. In sostanza quelle genti sapevano che in qualsiasi luogo volessero scavare, alla fine, prima o poi sarebbero arrivati alla falda acquifera. Ecco che in situazioni come quella dello scavo dei pozzi appena menzionati, è necessario un grande atto di fede che in fin dei conti è dettata (la fede) da quella inflessibile "dura cervice", dettata a sua volta da un inflessibile coraggio e un inflessibile senso del dovere nei confronti della divinità e, in fin dei conti, della propria gente. Ecco che, fissato l'obiettivo, lo si deve raggiungere costi quel che costi. Quanto sarà costato in termini di vite umane il pozzo di Santu Antine di Genoni?! Quanto sudore e patimento sarà costato!
Riflettiamo su questo aspetto e quando entriamo in un tempio, opera dell'uomo, pensiamo almeno per un attimo a chi materialmente costruì quegli edifici. Pensiamo ai gesti di un muratore dei nostri giorni che interagisce coi manovali e i materiali; pensiamo alle espressioni facciali e verbali (nella gioia e nel dolore) degli uni e degli altri e trasportiamoli indietro di 3000 anni nel tempo, e forse renderemo onore e giustizia (al pari degli eroi di guerra) a quegli uomini ignoti che diedero il loro contributo alla edificazione di questi magnifici edifici.

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