lunedì 29 ottobre 2018

Luce, acqua e olio nel pozzo di Santa Cristina per un raccolto copioso


Particolari costruttivi a confronto
inquadramento cultuale e culturale del 21 aprile
il toponimo e le sue implicazioni cultuali
di Sandro Angei


21 di aprile 2018


11. Monumenti diversi, caratteristiche diverse, orientamenti diversi. Concetto di base sempre lo stesso
Dal punto di vista tecnico nel pozzo sacro di Santa Cristina si ripresentano i particolari che, a quanto pare, contraddistinsero l'architettura luminosa in età nuragica. La ierofania di luce è costruita con elementi architettonici fisicamente disgiunti tra loro, distanti anche svariati metri l'uno dall'altro1, che in modo “miracoloso” concretizzano una immagine e la veicolano in un determinato modo2. La ierofania nel caso del nuraghe Santa Barbara di Villanova Truschedu indica un luogo ben preciso legato all'evento: l'altare3; nel caso della porta riturale di Murru mannu in Tharros indica la data rituale direttamente con la dimensione della ierofania: il triangolo equilatero4; nel caso del pozzo di Sant'Anastasia di Sardara la duplice ierofania si manifestava con ogni probabilità sulla parete del tempieto superiore e contemporaneamente nel bacile. 

   Gli esempi che abbiamo portato sono uno diverso dall'altro, e pure l'orientamento dei monumenti è sempre diverso, ma tutti sono accomunati dal medesimo principio costruttivo che prevedeva il nascondimento della macchina ierofanica mediante la posizione disarticolata degli elementi architettonici che la costituiscono.
Ora faremo una comparazione fra i tre monumenti che, chi in un modo chi nell'altro, individuano il dato temporale del 21 di aprile.
Osserviamo le immagini riportate nelle figure 48, 49 e 50 (abbiamo indicato con un cerchietto e le lettere A e B i punti caratteristici), per notare quali siano i particolari architettonici che costringono il fascio di luce solare.
  • Nella porta del sole di Murru mannu in Tharros vediamo (contraddistinto dalla lettera A della Fig. 48) che il fascio luminoso è delimitato dall'intradosso della copertura a V rovescia e dallo spigolo della soglia della porta (contraddistinto dalla lettera B della stessa Fig. 48).


Fig. 48

  • Nel pozzo sacro di Sant'Anastasia di Sardara il fascio luminoso è delimitato dall'intradosso del primo concio superiore che copre la scala d'accesso al bacile lustrale (Fig. 49 lettera A) e dallo spigolo dell'ultimo gradino prima della superficie dell'acqua (Fig. 49 lettera B).


Fig.49

  • Nel pozzo sacro di Santa Cristina vediamo il fascio luminoso delimitato dall'intradosso del primo concio superiore che copre la scala d'accesso al bacile lustrale (Fig.50 lettera A) e dal bordo del bacile (Fig. 50 lettera B).

Fig. 50

In tutte e tre le costruzioni abbiamo individuato i medesimi particolari architettonici che delimitano il raggio luminoso. Ciò dimostra (ci sembra di poterlo dire con ragionevole sicurezza) che questi edifici furono realizzati obbedendo ad un progetto con caratteristiche di base unitario. Da queste concordanze e dalle sue caratteristiche, potremmo arguire che la cosiddetta “porta del sole di Murru mannu in Tharros, altro non sia se non la simulazione di un pozzo sacro.

Ecco che l'iniziale affermazione che voleva il rito del pozzo sacro di Santa Cristina “evento normale” (capitolo 9) trova la sua giustificazione nei capitoli 10 e 11.

12. Inquadramento cultuale e culturale del 21 di aprile
Nell'articolo dove presentammo gli studi sulla cosiddetta “postierla” di Murru mannu in Tharros, da noi ribattezzata “porta del sole luminoso”, lanciammo l'ipotesi che la data lì registrata (22 di aprile) fosse associata al ciclo vegetativo del grano. Non sapevamo degli studi del Dr Borut Juvanec sul pozzo di Sant'Anastasia, tanto meno che anche il pozzo di Santa Cristina celasse la stessa data rituale.
Quando ci accingemmo allo studio del circolo megalitico di Is circuìttus di Laconi5, scoprimmo un dato che sul momento poteva essere legato ancora al caso: registrammo due orientamenti legati a levata e calata della stella Fomalhaut, per la quale scoprimmo che nel periodo presunto di realizzazione di quell'osservatorio (3200 a.C.) si poteva assistere nell'arco della stessa nottata a levata e calata dell'astro a partire dal 24 di aprile. In quell'occasione di certo non potevamo azzardare alcun collegamento calendariale.
Oggi, alla luce di questa fase di studio, non possiamo ancora dire che la data sia associata sicuramente al ciclo vegetativo del grano, possiamo però affermare con ragionevole sicurezza che il 21 di aprile (giorno più giorno meno), era una data importante nella vita di quelle comunità. Tanto importante che un ultimo dato ci sembra di poter presentare a riguardo del pozzo di Santa Cristina, che culturalmente lo collegherebbe dopo 2200 anni al circolo megalitico di Is Circuìtus. Certamente quello che segue è un dato da considerare con molta cautela, non di meno lo registriamo come dato da “tenere in mente” per quanto andremo ora a descrivere.
***
L'asse che congiunge il foro apicale della tholos con la mezzeria del primo gradino a scendere della scalinata del pozzo di Santa Cristina, abbiamo detto che ha un azimut di 153°6; lungo quella direzione l'orizzonte locale ha un'altezza di 1°21'. Una verifica col programma STELLARIUM mette in evidenza che per queste coordinate si poteva vedere la levata elica di Fomalhaut7 dieci giorni dopo l'equinozio di primavera tra l'anno 1000 e il 900 a.C.. Se questo dato verosimilmente spiega l'orientamento della scalinata e contribuisce a fissare la data al 1000 a.C. come rilevato dagli studi archeologici; avvalora oltremodo l'importanza della data del 21 di aprile e ingenera l'ipotesi che quelle genti per almeno 2200 anni (a partire dal circolo megalitico di Is circuìttus) registrassero i moti di particolari stelle di prima grandezza che sembrerebbe fossero viste come dei veri e propri messaggeri divini8. In sostanza nel sito di Santa Cristina, la levata di Fomalhaut annunciava con venti giorni di anticipo l'inizio dell'anno nuragico9 (21 di aprile).
Non bastasse, e sembrasse eccessivo ritenere il perpetuarsi di un rito per 2200 anni, possiamo dire con ragionevole sicurezza (lo abbiamo già scritto nell'articolo “Sincretismo religioso tra nuragico e romano”), che questa data era celebrata anche in epoca romana. Una data: il 21 di aprile, che potrebbe essere stata di grande importanza già quando l'uomo neolitico intraprese la rivoluzione agricola e la conseguente sedentarietà lo costrinse a seguire più che mai i ritmi della natura per ottenere i frutti opera del suo ingegno, senza girovagare ed essere alla mercé della natura stessa.

13. La festa del 21 di aprile
«Secondo la Bibbia la data della Pasqua (ebraica) è determinata dalla maturazione dell’orzo. Il “primo giorno della settimana” dopo la Pasqua (cioè la domenica della Settimana degli Azzimi) deve essere celebrato il rito dell’offerta del primo covone d’orzo maturo (…) (Levitico 23, 10b-11) (…) Solo dopo questo rito cominciava il raccolto e si poteva iniziare a consumarlo (…) (levitico 23, 14a). Affinché fosse disponibile dell’orzo maturo per il rito, occorreva che all’inizio del mese, cioè meno di tre settimane dalla festa, esso avesse già raggiunto un appropriato livello di maturazione, che veniva chiamato abib. Occorreva, cioè, che le spighe d’orzo verdi avessero già cominciato a imbiondirsi e il loro stelo fosse già rigido e fragile. (…) L’importanza di questo stadio di maturazione è tale che anticamente dava il nome al primo mese dell'anno (“mese di Abib”)».10 E' appena il caso di rimarcare che abib o meglio aviv → אביב, in ebraico ha il significato di “spiga”.
In “Hebrew and Chaldee Lexicon”11 alla voce אביב leggiamo “an ear of corn, a green ear” con evidente significato di spiga verde di grano. Il riferimento biblico è in Levitico 2,14 dove è scritto: “Se offrirai al Signore una oblazione di primizie, offrirai come tua oblazione di primizie spighe di grano fresche abbrustolite sul fuoco e chicchi pestati di grano nuovo.” e Esodo 9,31 dove è scritto: “Ora il lino e l'orzo erano stati colpiti, perché l'orzo era in spiga e il lino in fiore”.

Con tutta evidenza troviamo nell'Antico Testamento il preciso riscontro a quanto da noi ipotizzato in occasione dello studio sulla postierla di Murru mannu in Tharros, relativo alla data del 22 di aprile, legata alla maturazione della spiga di grano. Per tanto l'iniziale ipotesi prende corpo e rafforza l'idea che il 21-22 di aprile in Sardegna si celebrasse l'inizio dell'anno nuragico; questo spiega la magnificenza dei monumenti legati a questa data: postierla di Murru mannu, pozzo sacro di Sant'Anastasia di Sardara, pozzo sacro di Santa Cristina e forse il pozzo sacro di Funtana Coberta di Ballao.

Nel testo di cui alla nota (10) leggiamo delle difficoltà nel fissare la data di celebrazione della Pasqua sia per gli Ebrei che per i Cristiani. Questi ultimi al Concilio di Nicea stabilirono che la Pasqua doveva essere celebrata la domenica successiva al primo plenilunio dopo l'equinozio di primavera; la qual cosa benché precisi in modo formidabile la data di celebrazione, la rende estremamente variabile, essendo legata al moto lunare. Questo dato rimarca, a prescindere dalle motivazioni, l'intenzione di fissare una data dopo l'equinozio di primavera. Anche gli Ebrei seguono un calendario soli-lunare, per tanto anche la loro Pasqua non ha una data precisa; non così per i Sardi nuragici che adottarono un metodo estremamente rigido e preciso legato al moto solare, mediante mirabili architetture di luce; con basilare differenza dalla cultura ebraica. Gli Ebrei biblici di fatto facevano iniziare l'anno osservando il grado di maturazione dell'orzo, che poteva essere più o meno in accordo con la data dell'anno precedente, tant'è che l'inizio dell'anno poteva essere posticipato anche di un mese (vedi ancora riferimento di nota (10), pag. 3).
I Sardi nuragici al contrario, per quanto da noi scoperto, non seguivano pedissequamente ciò che la natura segnalava, ma in modo più pragmatico, benché paludato da un'aura religiosa, stabilirono una data ben precisa secondo la quale potevano prevedere l'entità del raccolto. In sostanza: se la spiga del grano non fosse stata ben formata e florida entro la data fissata, il raccolto sarebbe stato esiguo o addirittura nullo. Dal punto di vista antropologico la differenza è sostanziale visto che: preso atto di un evento per niente modificabile dall'uomo (che sia esso un evento climatico o volere divino), la “previsione” dava modo di mettere in atto dei rimedi atti a scongiurare una sicura carestia.
Di certo i Sardi nuragici sapevano esattamente come funziona il ciclo vegetativo, che è legato al sole e non alla luna; perché è il sole ad emanare la giusta quantità di luce e calore che determina la crescita e la maturazione delle spighe di grano. E' il sole che, in mutuo rapporto con la terra, determina il cambio di stagione. E' sempre il sole col suo calore a suscitare la pioggia.
In questo contesto si inserisce il pozzo sacro di Santa Cristina, benché non si possa e non si voglia escludere un riferimento astronomico dello stesso al moto lunare; benché rimanga io scettico sulle motivazioni che potevano condurre quelle genti a registrare i lunistizi. Perplessità dettata dal pragmatismo che mi sembra di intravedere in tutte le esternazioni di quel popolo.
Faccio una semplice considerazione: perché in periodo nuragico fu usato in modo pressoché univoco il bronzo?! Sappiamo che in Sardegna già nel neolitico si conosceva e veniva utilizzato l'argento. Nel periodo in cui si sviluppò la civiltà nuragica, Micenei, Cananei ed Egiziani conoscevano e facevano largo uso dell'oro, perché i sardi no?! La risposta sta nel pragmatismo che era insito nella loro natura basata sulla concretezza e l'austerità su tutto ciò che era materiale. Forse che l'oro poteva servire a costruire picconi e punteruoli per cavare pietre e zappe per lavorare la terra, oppure asce per lavorare il legno, spade e pugnali per combattere?! No... serviva, quale metallo incorruttibile, solo per la produzione di gioielli e ornamenti... gioielli e ornamenti che furono usati con parsimonia e povertà di materiali dai Sardi nuragici, come documentato ancora nelle tombe di Monte Prama.
Il bronzo era il vero “oro” per quelle genti. Per quello navigarono, commerciarono, combatterono. Alla stregua di ciò, che motivo “pragmatico” poteva spingere l'uomo nuragico a fissare un evento lunare che si verificava ogni 18 anni e mezzo? Non né vedo alcuno.

14. Il toponimo
Santa Cristina sembra toponimo unico in Sardegna. Non esiste altra antica chiesa sarda che la veneri all'infuori di Paulilatino.
Santa Cristina da Bolsena fu vergine e martire nel 3°- 4° secolo; è possibile sia stata associata al pozzo nuragico per via del suplizio inflittole: le fu legata una pietra al collo e fu gettata nel lago di Bolsena, ma alcuni angeli ressero la pietra e la fanciulla si salvò.
   Storielle come queste vengono sciorinate per una moltitudine di santi, fatto sta che potrebbe esserci, almeno qui a Paulilatino, una spiegazione meno fantasiosa radicata più verosimilmente in un rito legato all'acqua; rito che utilizza il nome della santa quale veicolo di sincretismo da parte della religione Cristiana nei confronti di quella nuragica.
Iniziamo col dire che abbiamo altri esempi simili:

Caso n° 1: Santa Anastasia
Santa Anastasia di Sardara lega il significato del nome della santa al rito che si svolgeva nel pozzo sacro, dove di fatto avveniva una miracolosa “ἀνάστασις” termine greco che significa “risurrezione12. Quale miglior nome da attribuire ad una chiesa che sorge vicino ad un pozzo sacro nuragico dove avveniva la “risurrezione della luce”?!

Caso n°2: Santo Stefano
Qualche tempo fa postammo sul blog Maymoni un articolo sul pozzo sacro di Santo Stefano di Irgoli13. La caratteristica del pozzo è quella di recare una “vera” costituita da un cerchio di pietre isodome alternate: triangolari e quadrangolari, a forma di corona. Anche qui il nome “στέφανος” di origine greca significa “corona”.

Caso n°3: Gremanu
Nell'articolo Cerchi, ovali e ovoidi…o forse glandoidi! pubblicato  di recente in questo blog mettemmo in nota il significato del toponimo "Gremanu", attinente in modo stringente al santuario di forma fallica, per via che "gremanu" in nuorese significa "germano" e tale aggettivale ha attinenza con "germe" ossia embrione, primo stadio della vita.

Caso n°4: San Salvatore
Ci sembra di poter annoverare tra gli esempi attinenti, quello della chiesa dedicata a "San Salvatore del Sinis", visti i riscontri lessicali ivi individuati nell'ipogeo; dove per ben sette volte vi è scritto il bilittero agluttinato "RF" col significato di "cura" nelle lingue seimitiche. Parola che ben si presta ad esser sostituita per sincretismo dal nome del "Salvatore", visto che in origine nel luogo della chiesa cristiana vi era un pozzo sacro con virtù salvifiche; probabilmente più del corpo che dell'anima.

Caso n°5: Il porto di korakodes
Benché non sia attinente la religiosità nuragica e sia, invece, di estrazione laica, portiamo l'esempio del porto di Cornus, per il quale diedi a suo tempo nel blog Monte Prama, una interpretazione che passò, allora, quasi sotto silenzio. Una interpretazione che alla luce di quanto qui si sostiene ha la sua specifica valenza. In sostanza Il Prof. Massimo Pittau diede del nome del porto di Cornus il significato di "porto a forma di testa di corvo" ossia in greco "Korakodes limen"; senza per altro giustificare in senso pratico il perché di quel nome. In quel mio articolo prospettai l'ipotesi che il nome fosse attinente alla particolare conformazione dell'arco di S'Archittu visto dal mare; che in effetti, per un gioco di luci ed ombre, da l'idea della testa di un corvo al navigante che si appresta all'approdo. Questa giustificazione è del tutto legittima se consideriamo che di certo in tempi lontani non esistevano i "portonali" e il navigante doveva affidarsi alle caratteristiche del territorio per sapere il luogo che andava a visitare. Per tanto in questo caso il nome rispecchia, non la funzione del sito, ma l'appartenenza ad un determinato luogo: Cornus; per motivi meramente pratici. 

Caso n°6: Monte Baranta
   Nell'articolo comparso su questo blog il 26 giugno 2016 il Prof. Sanna diede del toponimo una interpretazione del tutto coerente con la funzione del recinto torre, non visto in chiave militalistica, come avanzava il Dr. Morvetti che lo studiò, ma in chiave religiosa che vede nel nome "Baranta" il significato di "Camera che mostra le corna".

Caso n°7: Santa Cristina
In questo caso partiamo dal toponimo ripercorrendo a ritroso un sentiero che parte inaspettatamente da considerazioni di carattere tecnico e scientifico. Badando bene che, le congetture si sono venute a creare con l'osservazione e la interpretazione di un evento fortuito che pensiamo ci abbia messo sulla buona strada; e solo dopo abbiamo trovato il nesso col nome del novenario.

Arriviamo al nostro toponimo e rileviamo che il nome “Cristina” rimanda per assonanza a "Cristo", appellativo di Gesù.
Si noti che “χριστός” in greco ha il significato di “unto”. 

   In greco trovo la radice "χρίω" col significato di "ungere".

   Il toponimo potrebbe riflettere l'esigenza rituale, in termini pratici, di versare nel bacile una congrua quantità di olio paludandola quale consacrazione, ma (forse) con un obiettivo ben più materiale. L'obiettivo era quello di calmare la superficie del liquido nel bacile, visto che in aprile la ricca falda freatica scaturisce liberamente nel pozzo dalle commessure dei conci della tholos; e ne abbiamo la prova nella documentazione fotografica proposta nella parte terza dell'articolo. E' possibile che quei sacerdoti gettassero nell'acqua del bacile una discreta quantità d'olio, tale che quello formasse una pellicola superficiale capace di calmare il moto ondoso che, se pur lieve, deforma l'immagine riflessa sulla parete della tholos.14 L'artificio aveva come conseguenza secondaria il rafforzamento del potere riflettente della superficie liquida del bacile, la qual cosa rendeva ancora più spettacolare l'evento della riflessione luminosa.
Pensiamo per un istante quale impatto poteva avere questo rito nell'animo di quelle antiche genti nel vedere il sacerdote versare olio d'oliva nell'acqua e constatare, in modo pressoché istantaneo, un aumento della luminosità nella tholos e il placarsi dell'acqua. In sostanza con un singolo gesto si verificavano due eventi del tutto eccezionali che coinvolgevano le due “essenze” divine per eccellenza: acqua e luce.

15. Acqua, olio, smorzamento e riflessione
   15.1 La verifica sperimentale
Alla base dell'effetto luminoso vi è, evidentemente, una verifica sperimentale da me eseguita per quanto riguarda la riflessione della luce del sole. Verifica che mette a confronto la riflessione sulla  superficie di due differenti liquidi.
Nella fattispecie ho usato due piattini, uno colmo fino all'orlo di semplice acqua; l'altro di acqua con un sottile strato di olio d'oliva (Fig.51).


Fig. 51


Fig. 52 – a sinistra l'immagine proiettata dal piatto con l'olio

Come si può facilmente notare nella Fig. 52, l'immagine proiettata dal piatto con l'olio è più nitida e più grande di quella della sola acqua. Il fenomeno scientifico si spiega in termini di “interferenza costruttiva”; ossia i raggi del sole si riflettono in parte sulla superficie dell'olio, i raggi che riescono a passare, rifratti si riflettono in parte sulla superficie dell'acqua sottostante, aumentando di fatto la riflessione totale.
Il dato esposto parrebbe marginale, però se consideriamo, come già detto, che il periodo del 21 di aprile normalmente dalle commessure delle pareti del pozzo sacro è sempre uscita acqua che lì confluisce dal terreno circostante, la pratica di versare olio aveva la sua motivazione nel voler calmare in qualche modo il piccolo moto ondoso; poi se questo comportava l'accentuazione dell'effetto ottico riscontrato, era a tutto vantaggio della spettacolarità dell'evento.

   15.2 Il sistema particolare di deflusso delle acque
A ben vedere l'assunto di cui sopra sembrerebbe mostrare un punto debole e l'obiezione, più che legittima che può addursi, necessità di puntuale risposta.

Obiezione: Se il bacile fosse dotato di sistema di troppo pieno, costituito da una semplice canala, dalla quale defluisse il liquido in eccesso arrivato alla quota di sfioramento, il primo liquido ad essere evacuato sarebbe sicuramente quello più superficiale ossia, l'olio. Se ciò fosse, il mio assunto sarebbe inficiato perché non si avrebbe alcun smorzamento del moto ondoso e nessun potenziamento luminoso, se non momentaneo. A questo punto dobbiamo ipotizzare un particolare sistema di troppo pieno che sfrutti il fenomeno della decantazione, per effetto della quale il liquido superficiale rimane “intrappolato” nel bacile (Fig.53).

Fig. 53

Dal punto di vista tecnico questo sistema è fattibile ma necessita di un impianto a tenuta stagna, e pensare che la civiltà nuragica abbia utilizzato un sistema così sofisticato in campo idraulico può sembrare eccessivo; ma noi pensiamo che esista un metodo semplice che risponda al criterio richiesto. Ma ancor prima di spiegare tale metodo vogliamo presentare quella che a noi sembra la prova che questo sistema di “troppo pieno” sia stato attuato nel pozzo di Santa Cristina. La prova è indotta da quell'incidente occorso l'anno scorso nel sito archeologico descritto in nota15. L'episodio narratomi dalla guida archeologica verteva su un gesto reputato vandalico. In sostanza nel bacile fu gettata una sostanza biancastra che fu necessario asportare in modo drastico mediante il prosciugamento del bacile stesso. Ciò significa con tutta evidenza che la sostanza di colore bianco galleggiando sull'acqua rimaneva confinata nel bacile. Se il sistema di evacuazione fosse stato un semplice “troppo pieno”, il liquido sarebbe stato allontanato dalla corrente superficiale nell'arco di poco tempo, tanto da non lasciar traccia della sua presenza e nessuno si sarebbe accorto del gesto.
Per tanto risulta evidente che il bacile sia dotato di impianto di troppo pieno con effetto decantante16; ossia un sistema per il quale il “bacile-canale di scolo” si comporta come un sifone con corrente del fluido non superficiale ma di fondo. Per tanto l’olio asperso sulla superficie del bacile rimane confinato in superficie benché l’acqua sottostante fluisca normalmente.

Il sistema probabilmente deriva da esperienze legate all'attività di estrazione dell'olio dalle olive. In antico la separazione dell'olio dall'acqua di vegetazione avveniva per decantazione naturale in vasche a cielo aperto. Sicuramente è questa l'esperienza alla base del sistema adottato nel pozzo di Santa Cristina.
Il sistema descritto si inquadra, però, in un ambito ben più articolato che prevede la captazione della falda artesiana che, indotta a scaturire dal sottosuolo, arriva spontaneamente alla quota del bacile, riempiendolo17.
  L'acqua fluisce naturalmente quando la quota della superficie piezometrica si trova ad una quota maggiore della bocca di travaso; ossia il nostro bacile. Senza un sistema di troppo pieno la sorgente tenderebbe a colmare il pozzo fino alla quota piezometrica stessa.
Il sistema di troppo pieno, che di fatto potrebbe avvalersi di un semplice pozzo d’acque freatiche con funzione di drenaggio18, fa si che la quota di sfioro impostata ad hoc, mantenga stabile il livello del liquido all’interno del bacile. L’acqua, sostanzialmente defluirebbe dallo sfioro realizzato con blocchi litici isodomi nascosti alla vista.
Perché si abbia un sistema di troppo pieno con azione decantante è necessario che la parte superiore della parete del bacile sia a tenuta stagna. L'accorgimento sarebbe stato possibile con l'uso di pece o bitume, ma in Sardegna non vi è traccia di questi materiali e d'altronde esiste un metodo attestato nella fonte sacra di "Su tempiesu" di Orune.
  La Dr. M.A. Fadda che scavò il monumento scrive: "Dall'atrio, attraverso una piccola scala, miniaturistica, trapezoidale e strombata verso l'interno - composta da quattro piccoli gradini ancorati tra loro con conci ad incastro, mentre sottili verghe di piombo alle giunture impediscono la dispersione delle acque - si arriva al vano a tholos che raccoglie e custodisce la vena sorgiva."19
   A prescindere dall'utilizzo, documentato, del piombo, esistono altri materiali di semplice e sbrigativo utilizzo, reperibili facilmente anche in Sardegna, che assicurano una tenuta stagna pressoché perfetta: la marna e la bentonite, che per loro natura, imbibendosi d’acqua, si gonfiano e garantiscono la necessaria tenuta stagna.20

In ragione di ciò siamo propensi a credere che la sigillatura delle commessure tra un concio e l'altro del bacile del pozzo di Santa Cristina possa essere garantita da una colata di piombo fuso e dall'utilizzo di un sottile strato di marna o bentonite per sigillare il rivestimento della parte finale dell'ipotetico pozzo artesiano21. L'immagine di Fig. 54 descrive ipoteticamente il sistema di captazione, mantenimento del livello ed evacuazione dell'acqua.

Fig.54 schema ipotetico del sistema di troppo pieno

Una seconda obiezione, però, necessita di risposta e spiegazione.
Obiezione n° 2: Il sistema di troppo pieno, che attualmente evacua le acque in eccesso, per quanto si sa fu ripristinato dall'archeologo E. Atzeni; alcuni ritengono che fu l'archeologo stesso a ricostruire un sistema di troppopieno atto a evacuare l'acqua in eccesso per mero motivo di accessibilità del pozzo stesso. Questa obiezione parrebbe smontare ancora una volta il mio assunto; ma a ben vedere lo rafforza, visto che, anche fosse vero (ammesso e non concesso) che l'archeologo costruì una canala di evacuazione, egli adottò un sistema adattandolo alla situazione contingente e non certo pensando al fine ultimo di intrappolare un liquido oleoso nel bacile, ma esclusivamente al solo fine di allontanare l'acqua in eccesso. Se l'effetto decantante ancora avviene, questo è dovuto, senza possibilità di dubbio, alla primitiva caratteristica del bacile, che consentiva (e consente tutt'ora) la tenuta stagna della parte sommitale delle sue pareti.
Con questa ipotesi, che attente verifiche in situ potrebbero promuovere a dignità di prova, vogliamo attribuire a quegli antichi architetti capacità di ingegneria idraulica superiori a quelle provate e documentante in tanti siti nuragici, perché siamo indotti a pensare che non possa derivare dal caso l'artificio posto in essere con quel particolare sistema di troppo pieno.

***

   15.3 I paralleli storici
Tornando al tema iniziale; non dobbiamo certamente andare molto lontano per ricercare riti simili legati all'utilizzo dell'olio per giustificare quello nostro. Nella religione cattolica già il nome stesso di “cristiano” è un continuo riferimento all'unzione. L'unzione ha un significato tanto importante per la religione, da essere utilizzata nei sacramenti e in tutti quei momenti che scandiscono la vita dell'uomo di fede cristiana, quali il battesimo, la cresima, il matrimonio nel rito copto22, nel dolore dell'infermità e infine nella morte con l'estrema unzione. Riti questi, espletati con olio consacrato e in alcuni sacramenti, misto a essenze (crisma, dal greco χρσμα, col significato di unguento, unzione). Per la preparazione e la consacrazione di quest'ultimo, che avviene il giovedì santo da parte del vescovo, si procede secondo un complesso e magnifico rito. Non sarebbe per nulla eccezionale ipotizzare che nel pozzo di Santa Cristina si celebrasse una volta l'anno, un rito che prevedeva l'aspersione di olio nel bacile, che mediante l'azione “divina” solare acquistava la sacralità e per tanto, una volta terminato il rito, doveva essere raccolto e gelosamente conservato per l'unzione.
Si tenga conto del valore sincretico del rito cristiano, pensando alla data di confezionamento del “crisma”, che avviene il giovedì santo, ossia tre giorni prima della Pasqua; che quando è “bassa” può cadere a fine marzo (nel 2008 cadde il 23 di marzo), ma può cadere anche nella terza decade di aprile (nel 2011 cadde il 24 di aprile e per tanto il giovedì santo era il giorno 21 di aprile)23. Data quest'ultima che coincide in modo inaspettato con quella della ierofania del pozzo sacro di Santa Cristina. Certamente è solo un caso, visto che la Pasqua segue un calendario soli-lunare, mentre il rito del pozzo di Santa Cristina un calendario solare. E' certo, però, il sincretismo perpetrato dalla religione cristiana nei confronti di riti precedenti al suo ingresso nella storia; benché la religione cristiana sia stata esclusivista e mirata alla conversione. In alcuni casi, come nel mondo slavo e nelle Americhe, non riuscì ad arginare riti preesistenti. Ma questo è un aspetto ben diverso da quello che vogliamo qui puntualizzare e mettere in risalto. Qui si prefigura l'ipotesi che riti ancestrali “pagani” siano stati in toto fatti propri dalla religione cristiana.
Di ciò ci ha persuasi quanto scritto dall'archeologo A.Usai in “Il culto dell’acqua nella Sardegna nuragica24 dove scrive: “2. I luoghi del culto dell’acqua - Sulla base degli indicatori archeologici finora acquisiti, cioè i contesti di materiali recuperati con gli scavi e ordinati in serie evolutive, e col supporto delle datazioni assolute, sembra ormai accertato che gli edifici e i luoghi del culto dell’acqua compaiono almeno dal Bronzo Recente (circa 1350-1200 a. C.), ma si sviluppano soprattutto durante il Bronzo Finale (circa 1200-900 a. C.) e il Primo Ferro (circa 900-700 a. C.). Tuttavia, l’esaurimento della civiltà nuragica durante il periodo Orientalizzante (circa 700-600 a. C.) e l’assimilazione degli aspetti di cultura materiale alle forme esteriori delle civiltà punica e romana non segnarono la fine delle tradizioni religiose insulari; anzi, il culto dell’acqua proseguì nei secoli fino all’epoca paleocristiana ed oltre, con manifestazioni di sincretismo ideologico e rituale imperniate su chiese edificate sopra o in prossimità di sorgenti e pozzi.” (mio il sottolineato).


Altro indizio relativo al sincretismo attuato dalla religione cattolica nei confronti di riti pagani preesistenti, possiamo individuarlo nella data di celebrazione della festa dedicata a Santa Cristina, che è fissata alla seconda domenica di maggio; ossia tre settimane dopo il 21 di aprile.
Nel 13° capitolo dedicato alla festa del 21 di aprile abbiamo appreso che: «Affinché fosse disponibile dell’orzo maturo per il rito relativo alla settimana degli azzimi, che celebrava il rito dell'offerta del primo covone d'orzo maturo (che dava inizio alla mietitura), occorreva che all’inizio del mese, cioè meno di tre settimane dalla festa, esso avesse già raggiunto un appropriato livello di maturazione, che veniva chiamato abib». Questa notizia ci invita a pensare che l'intervallo temporale tra le due ricorrenze ebraiche coincida in modo pressoché perfetto con l'intervallo temporale tra il 21 di aprile e la festa cattolica di Santa Cristina.
   Che sia quest'ultimo un retaggio culturale che viene dalla cultura ebraica mutuato dalla civiltà nuragica? Non possiamo affermarlo con certezza, però visto il contesto, l'indizio è piuttosto forte. In sostanza la festa di Santa Cristina potrebbe, essere anche questa, la reminiscenza dell'antico rito cerearicolo che aveva inizio proprio il 21 di aprile.

Abbiamo indicato il nome di Santi: Anastasia, Stefano, Cristina, di indubbia radice greca, Baranta in ambito ebraico "sardizzato" e Gremanu in ambito sardo; il significato dei quali indica una particolarità del santuario ad ognuno nomato.
Ma a prescindere da queste ultime considerazioni, che possono essere accettate o meno, rimane il fatto che anche nel pozzo sacro di Santa Cristina è registrata la data del 21 di aprile; data per la quale possiamo affermare  sia stato  realizzato il pozzo sacro.



Note e riferimenti bibliografici

1 Abbiamo avuto modo di individuare e rimarcare per la priva volta questa tecnica nella postierla di Murru mannu in Tharros.

2 Nella cosiddetta postierla di Murru mannu costruiscono un triangolo equilatero. Nel nuraghe Santa Barbara di Villanova Truschedu, sembrerebbe che diano modo di trasfigurare la protome bovina in fallo, addirittura eiaculante (vedi filmato pubblicato su Maimobiblog il 31/12/2016 “The bull of light”), creare un pennello di luce nel pozzo sacro di Sant'anastasia di Sardara, quello di Santa Cristina e Funtana Coberta di Ballao.

3 Nel nuraghe Santa Barbara di Villanova Truschedu il fascio luminoso attraversava, indicandolo, l'altarino posto all'interno del nuraghe (ormai scomparso). Nel pozzo di Sant'Anastasia di Sardara il pennello di luce si riflette nell'acqua e punta direttamente verso l'oculo sommitale della tholos. Nel pozzo sacro di Santa Cristina e Funtana coberta di Ballao, il pennello di luce riflesso indica un anello anomalo della tholos.

4 A Murru mannu in Tharros la data precisa è indicata manifestando la grandezza massima possibile dell'immagine triangolare.

5 S. Angei 2016 - Is circuìttus un osservatorio astronomico per l'infinito ciclo della vita – su Maimoni blog - http://maimoniblog.blogspot.it/2016/10/is-circuittus.html

6 Con tutta evidenza l'osservazione della levata della stessa poteva avvenire solo traguardando lungo la linea che unisce il foro apicale con la mezzeria della scalinata.

7 L'orientamento a Fomalhaut lo abbiamo registrato in vari siti archeologici da noi studiati: Is cirucìttus di Laconi su Maimoni blog 26/10/2016; muridinas vicino a nuraghe Crabia di Bauladu: Pietra su pietra 7° parte su Maimoni blog 25/08/2017.

8 Vedi S. Angei 2017 in Maimoni blog l'articolo “Pietra su pietra”

9 Vedi infra le motivazioni

10 Da:
http://alssa.altervista.org/Documenti/Seminari/18/07-Precessione%20e%20accuse%20di%20deicidio%20contro%20gli%20Ebrei.pdf “La precessione degli equinozi - e le prime accuse di deicidio contro gli Ebrei - Alberto Peano Cavasola

12 L'accostamento lessicale fu individuato da B. Juvanec in occasione del suo studio sul pozzo di Sant'Anastasia.

13 S. Angei 2016 – Il pozzo di Santo Stefano – Maimoni blog http://maimoniblog.blogspot.it/2016/07/il-pozzo-di-santo-stefano.html

14 Nel sito: http://www.campanialive.it/articoli-meteo.asp?titolo=Se_un_semplice_olio_pu%C3%B2_placare_le_tempeste troviamo un articolo del 26/09/2009 a firma del Prof. Adriano Mazzarella, responsabile dell'osservatorio meteorologico dell'Università Federico II di Napoli; dove leggiamo: “Già Plinio il vecchio, nella sua Storia Naturale, parla del carattere miracoloso dell'olio per placare le tempeste”. Più avanti scrive: “Numerosi sono gli oli vegetali ed animali utilizzati: il migliore è l'olio di oliva, per la sua rapidità di propagazione”. In coda all'articolo scrive: “Recentemente, un team di ricercatori, guidato da Peter Behrrozi dell'Università della California, ha utilizzato un terferometro a laser, strumento sofisticato e molto preciso in grado di scoprire il motivo per il quale l'olio riesce a calmare le onde. I risultati, pubblicati sull'American Journal of Phisics, dimosrano che sono proprio le proprietà elastiche e non viscose dello strato di olio a dissipare l'energia delle onde”.

15 Il giorno 21 di agosto 2017 mi recai al pozzo sacro per verificare dal vivo la mia teoria e documentare fotograficamente l'evento. Con sorpresa e iniziale sconforto osservai che la luce riflessa veniva proiettata al limite superiore dell'undicesimo anello. I motivi potevano essere due: o avevo sbagliato qualcosa nella ricostruzione e nei calcoli, oppure il livello dell'acqua nel bacile era troppo basso per riflettere la luce nella giusta posizione. Constatai in effetti la riduzione (anomala) de livello dell'acqua, che in un primo momento attribuii alla lunga siccità di quell'anno; ma da una intervista alla guida archeologica, che in quel momento guidava un gruppo di turisti, seppi che pochi giorni prima il bacile fu completamente vuotato a causa di un incidente occorso e, causa la siccità, il suo riempimento avveniva molto lentamente.
Questo episodio che sul momento poteva sembrare negativo, di fatto sostiene e rafforza la mia tesi per la quale il livello dell'acqua è di fondamentale importanza per la riuscita della corretta manifestazione ierofanica. In ragione di questo si capisce perché nel pozzo di Sant'Anastasia di Sardara la manifestazione ierofanica non avviene più e ciò da maggior lustro alla professionalità, competenza scientifica ed intuito del Prof. Borut Juvanec.

16 Attualmente sistemi di questo tipo sono usati per separare dalle acque reflue oli di varia natura.

17 Sicuramente la supera, dovendo raggiungere naturalmente la superficie piezometrica

18 Il sistema di drenaggio con pozzi freatici è ancora oggi utilizzato, benché solo in particolari emergenze; in quanto il sistema rischia di inquinare le acque sotterranee.

19 M.A. Fadda - Sardegna Archeologica - Guide e itinerari - La fonte sacra di Su Tempiesu - C. Delfino Editore.https://www.yumpu.com/it/document/view/16231037/la-fonte-sacra-di-su-tempiesu-sardegna-cultura

20  Cave di bentonite sono presenti in Sardegna nel sassarese nei pressi di Olmedo (ancora in funzione) e nell'oristanese, con una cava dismessa in territorio di Masullas. Però, senza andare troppo lontano, in siti che potrebbero essere stati fuori mano in quell'epoca e senza alcuna prova che possa documentare la conoscenza nel 1000 a.C. dei siti di Olmedo e Masullas; si prefigura l'ipotesi che il materiale sigillante potesse arrivare dalla  Tharros nuragica, dove è presente uno spesso strato di l'argilla marnoso-siltosa tra Murru mannu e la torre di San Giovannia che, data la granulometria micrometica del silt (limo), compresa tra 0,0039 e 0,0625 mm, ben si presta a fungere da ottimo sigillante.

Naturalmente, anche in questo caso, ho effettuato una prova consistente nel rendere fango fluido una manciata di materiale secco passato al setaccio fine. Fango che risulta viscido e appiccicaticcio al tatto. Ho lasciato riposare la sostanza fluida e in breve tempo le particelle in sospensione si sono depositate su fondo del recipiente separandosi dall'acqua che riacquista la sua limpida. Una volta asportata l'acqua, il fango compatto ma ancora umido l'ho spalmato sopra un setaccio, in modo da occludere tutti i fori. In fine ho versato con cautela nuova acqua dolce sopra lo strato di fango, facendo attenzione a non smuovere il fango stesso. Sin da subito, il setaccio si è dimostrato a tenuta stagna; neppure una goccia d'acqua è fuoriuscita dal fondo.

L'esperimento ha confortato la mia iniziale intuizione: l'argilla marnoso-siltosa di San Giovanni è ottimo materiale per sigillare in modo naturale e persistente dei manufatti che debbano sopportare fluidi a pressione atmosferica come l'acqua del bacile del pozzo di Santa Cristina.

   Dallo studio di compatibilità geologica e geotecnica allegato al PUC del Comune di Cabras: 
         Cap. 10.2.4 – Capo San Marco.

21 Risulta evidente che la sigillatura del rivestimento della parte finale del pozzo artesiano non potesse avvenire con colata di piombo fuso, per tanto è plausibile che per questa sigillatura si astata utilizzata marna o bentonite.
 Nella scheda tecnica della bentonite ad uso edilizio (della quale per ovvie ragioni pubblicitarie non possiamo fornire il nome commerciale), la bentonite è un’argilla naturale derivata dall’alterazione di rocce effusive vetrose. Il materiale è composto, quasi interamente, da un minerale dotato di una particolare struttura cristallina lamellare, non tossica e chimicamente inerte. Ma è con la presenza dell’acqua che la bentonite si trasforma. In questo caso, infatti, il materiale diventa un gel impermeabile ed idrorepellente. Il fenomeno è accompagnato da un consistente aumento di volume (15-20 volte superiore a quello iniziale) e da un assorbimento tale da far raggiungere alla massa un peso cinque volte superiore a quello di un’uguale quantità di materiale secco. Tempi e gradi di idratazione variano in relazione ad una serie di fattori tra cui la granulometria del minerale o la temperatura dell’ambiente in cui avviene il fenomeno.
Le proprietà impermeabilizzanti della bentonite posta in opera si manifestano quando il materiale viene sottoposto a una pressione che contrasta l’espansione (proprio come avviene in esercizio a causa delle masse di confinamento).
Il materiale, infatti, si idrata ed aumenta di volume solo nella quantità consentita dallo spazio disponibile. L’incremento dimensionale, come è facilmente intuibile, consente di bloccare il passaggio di acqua per capillarità lungo la struttura. La bentonite espansa occlude eventuali cavità e satura fessure ampie sino a 3 mm dovute al ritiro igrometrico o all’assestamento in fase iniziale del getto di calcestruzzo.
Il processo di idratazione si innesca anche in presenza di minime quantità d’acqua.

22 Vangelo di Matteo 25, 1-13.

23 La data della Pasqua fu stabilita nel 325 al concilio di Nicea con l’idea di far coincidere la Pasqua la domenica successiva alla prima luna piena dopo l'equinozio di primavera. Questo fatto sembrerebbe slegare la festa pasquale dalla data del 21 di aprile, pervia di una connotazione lunare per la prima e solare per la seconda; ma ciò è del tutto ininfluente a parer mio visto che la data fu stabilita letteralmente a tavolino per esigenze del tutto utilitaristiche da parte del clero; ciò che conta è la datazione post equinoziale che individua una periodo ben preciso dell'anno, ossia il periodo di maturazione dei germogli e per tanto la sicurezza del dato: germoglio ben compiuto = raccolto sicuro; germoglio in ritardo nella maturazione = anno di crisi.


4 commenti:

  1. Prove su prove. Immaginazione e soprattutto 'prove', sino a stancare, a stordire. Così procede la scienza. Penso, tra l'altro, che per quanto riguarda l'olio tu abbia ragione da vendere. E c'entra moltissimo il riferimento al verbo greco che nota l'ungere. Vedrò in una apposita 'noticina' di natura linguistica di spiegare la tua intuizione.

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  2. Professore, sono piacevolmente sorpreso per la sua approvazione di carattere linguistico... non ci speravo!

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  3. Anche se si ha poco da aggiungere, Sandro (e anche se il lavoro non è ancora completamente pubblicato), come non lodarti? Stai costruendo, praticamente da solo, una disciplina (e ci metto anche i tuoi lavori su muriddine e forni nuragici, che in questa quasi summa non hai avuto motivo di richiamare; così come gli studi sui pozzi e sui mezzanini nei nuraghi, se non li sto chiamando male).
    Un punto, per dovere, te lo proporrei. Dici che non si aveva bitume e ricorri al piombo, risolvendo comunque adeguatamente il problema. Ma quanti ci seguono con attenzione troveranno che gli scafi nuragici (a fasciami cuciti) una impermeabilizzazione (calafataggio) dovessero necessariamente averla. Chi ci studia sopra (cito Gerolamo Exana) parla, per esempio, di catrame vegetale ottenuto da essenze resinose quali lentisco e ginepro (questo, immagino, in modo esclusivo almeno fino a quando non si giunse a poter importare, tra le altre cose, proprio il bitume).

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  4. Francesco, mi fa piacere la tua obiezione, alla quale risponderò volentieri.
    E' probabile che questi materiali fossero pure conosciuti ed utilizzati.
    Ad ogni modo non ho preso in considerazione il catrame vegetale per un semplice motivo ossia; il catrame vegetale si ottiene da un lungo processo di lavorazione al fuoco di alcune piante quali la betulla (non endemica della Sardegna), il pino, il ginepro. Ho preferito nel mio studio prendere in considerazione solo materiali facilmente reperibili in natura e facilmente manipolabili, che diano garanzia di stabilità nel tempo. Il catrame ed il bitume vengono diluiti dall'olio d'oliva che ho “ipotizzato” venisse asperso nel bacile. Il piombo, benché necessiti di tecniche metallurgiche, fonde ad una temperatura relativamente bassa, ma non abbastanza bassa da pregiudicarne la funzione in seguito ad un eventuale incidente che potesse far prendere fuoco all'olio, cosa che poteva succedere col catrame vegetale, che si ammorbidisce con l'aumentare della temperatura, tanto da prendere fuoco in presenza di fiamma libera ad una temperatura di 180°.

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