Ieri pomeriggio a Quartucciu è stato presentato un nuovo libro di Giulio
Solinas, molto interessante e usufruibile anche per i problemi grammaticali e sintattici di chi volesse entrare nel merito della lingua sarda campidanese. Non mancano i riferimenti alla metrica e alla storia della letteratura campidanese.
Per l'occasione, sono stato invitato a relazionare non tanto sul testo in modo specifico - lo hanno fatto Angelo Spiga e Gesuino Murru - ma sulla lingua sarda, lasciandomi libero di esplicitare il mio pensiero in merito.
Ecco perché di ciò che ho detto - e che riporto integralmente di seguito - sono l'unico responsabile, non avendo chiesto il parere di nessuno prima di relazionare, non volendo coinvolgere nessuno nella responsabilità delle enunciazioni.
*****
Da
dove viene e dove va la lingua sarda:
PASSATO
FANTASTICO, FUTURO DA FANTASMA?
di
Francu Pilloni
Il
libro che oggi Giulio Solinas presenta ha molti capitoli specifici,
tutti interessanti, ben scritti e sufficientemente comprensibili
anche a chi non è addentro ai problemi linguistici.
Non
parlerò in modo specifico dei temi del libro, anche se i riferimenti ad esso saranno
ricorrenti, per confermarli o, se del caso, per contrastarli.
Mi
è stata concessa la libertà di parlare di lingua sarda a mio
piacimento.
Chi
mi ha sentito altre volte sull’argomento, suppongo che si meravigli
perché non parlo in sardo del sardo, ma se vi dispiace molto, cambio
subito registro, oppure ammasturu totu, sardu, italianu e, candu
serbit, inglesu puru.
Si
dice spesso che, per capire dove si va, è utile sapere da dove si viene.
Sarà così anche per la lingua sarda?
Nel
libro di
Giulio Solinas esiste
una sezione che riguarda il passato della nostra
lingua,
corroborata da ipotesi e citazioni di studiosi
e di scrittori,
anche
dell’antichità classica (Strabone). Credo che siano situazioni superate dalle
nuove acquisizioni interdisciplinari che, accanto o in vece della
linguistica
storica,
vedono impegnate l’archeologia
e la genetica,
oltre a un nuovo metodo
di studiare
la materia
che viene generalmente inquadrato come linguistica
comparativa.
Fra l’altro, l’idea di comparare due o più lingue diverse non è
nuova -
ci
viene dritta dritta dall’Umanesimo (vedi Giuseppe
Giusto Scaligero)
-,
ma furono i tedeschi Johan
Christoph
Adelung
e Cristian Jacob Kraus,
che oltre
due secoli fa (alla fine del '700, per essere precisi), definirono
negli obiettivi e nel metodo l'approccio scientifico al confronto fra
le lingue.
In
questo modo si è pervenuti all’idea che tutte le lingue derivino
da un antico
ceppo che s’è
visto ramificarsi di continuo per il cambiamento delle lingue stesse.
Recentemente,
nel
1975 e poi nel 2005, nell’opera “Una
guida alle lingue del mondo”,
lo
studioso americano Merritt
Ruhlen ha
classificato tutte le lingue oggi esistenti al mondo, compresa la
maggior parte di quelle estinte, ma a noi note.
Per
fortuna, per le lingue indoeuropee abbiamo a disposizione anche le
classificazioni più recenti e dettagliate del tedesco Ernst
Kausen.
Il
suo libro “Le
lingue indoeuropee, dalla preistoria al presente” risale
al 2012.
Ruhlen e Kausen, presi insieme, consentono di avere una buona visione
di insieme della classificazione delle lingue che
ci riguardano da vicino
che
gli specialisti
identificano
in
10 grandi gruppi di lingue indoeuropee, 8 composti da lingue parlate
ancora ai nostri giorni e 2 esclusivamente da lingue estinte.
In
tale classificazione rientra la specifica delle lingue oggi parlate
in Sardegna, vale a dire il sardo logudorese e il sardo campidanese,
che sono considerate sì dello stesso ceppo, ma abbastanza differenti
da essere valutate
diverse. E
questo perché le
lingue cambiano: quelli
che una volta erano dialetti di una lingua comune
possono
eventualmente divergere
abbastanza da non essere più sufficientemente
intercomprensibili,
e da essere considerati lingue separate.
Giulio
Solinas ha fatto un grande lavoro di ricerca sul campo, giungendo
allo stesso risultato. E questo lo trovate appunto nel libro, molto
ben esplicitato.
Recentemente
però è sorta una nuova teoria, ad opera di Mario
Alinei,
conosciuta come Teoria
della Continuità linguistica,
che è una teoria etnolinguistica,
elaborata in ambito glottologico e archeologico,
con
inizio dagli Anni Novanta del secolo scorso.
La teoria sostiene l'esistenza di una continuità linguistica a
partire
almeno
dal
Paleolitico,
datando
la circostanza a oltre
5000 anni prima dell’era attuale.
Per
quanto riguarda la Sardegna in particolare, la lingua indoeuropea si
è evoluta in una lingua protosarda, parente prossima delle
lingue italiche fra cui il latino antico.
A
dire il vero, la Teoria della continuità linguistica
la si dovrebbe intestare al canonico Vittorio
Angius
di Cagliari, il quale espresse
i
concetti
fondamentali parlando della lingua sarda nel famoso Dizionario
Geografico-storico-statistico-commerciale
dei regi stati, curato
da
Goffredo
Casalis:
“Una
lingua ufficiale, dissimigliante dal vernacolo, può essere
conosciuta da un ristrettissimo numero, da questi pochi praticata; ma
l’immensa pluralità ne resterà ignara e seguirà a favellare
l’idioma, in cui si cominciò a balbettare nella primissima età.
Non sarà mai alterata una lingua nella sua forma nativa, se non si
mescoli al popolo che la parli un gran numero di stranieri di
linguaggio differente né abolita, se
questi immigranti per la loro quantità
non
soverchino di molto il numero degli aborigeni.
Ed
invano si contraddirà nella supposizione che la lingua dei romani
siasi radicata nelle Gallie e nella Spagna,
perché
l’affinità della lingua degli abitatori delle regioni galliche
meridionali e delle iberiche avea sua vera ragione nella loro origine
dalla
stessa stirpe latina.
A
conferma di questo mio sentire valga quello che accadea in altri
paesi dominati dai romani, ma di razza diversa, i quali mantennero la
loro lingua nativa, celtica, germanica, fenicia, egizia, ecc.”
Ecco
dunque condensata in una dozzina di righe la teoria della continuità
linguistica dell’Angius.
E
allora, esaminiamo cosa dice: se una lingua altra, metti pure ufficiale e
potente, è parlata da una ristretta cerchia di persone, il popolo
continuerà a parlare la sua lingua nativa, cioè quella appresa
dalle labbra della propria madre.
Che
dire allora degli scienziati che attribuiscono al fenicio tutto
quanto si trova scritto in Sardegna per un certo periodo, compresa la Stele di Nora, ormai
datata a due secoli prima che un fenicio facesse scalo nell’Isola? Come
è possibile che “4 o
5
vù cumprà” fenici abbiano influito sulla lingua dei migliaia di
sardi di Karalis, di Nora, di Solki, di Tharros? Quando questi non
furono neppure
dominatori,
come successe con i Romani?
E
proprio per questo motivo, fa notale l'Angius, è da stupidi dire che le parlate della
Francia meridionale e quelle iberiche siano derivazioni dalla lingua
latina, e non piuttosto eredi di uno stesso ceppo linguistico, che
Angius chiama latino, ma oggi viene individuato come indoeuropeo.
Infatti, se così non fosse, anche in Germania, nei Paesi nordici, in
Egitto e ovunque vi sia stata dominazione romana, anche là si parlerebbe
neolatino, ma sappiamo che non è vero.
Infine,
è chiaro da dove viene il sardo: pur mutandosi nei secoli, viene dal
quel ceppo indoeuropeo - qualcuno dice anche protoindoeuropeo -, che si parlava già
nel Neolitico e poi nell’Età del Rame e del Bronzo. Parlata popolare che
neppure i Shardana con la loro lingua semitica riuscirono
a scalfire, anche se hanno disseminato di scritte tutto il
territorio.
Nella
ricerca di Gigi Sanna sulla scrittura nuragica, ormai forte di oltre
400 reperti, si trovano molti
elementi semitici accanto ai
pochi
protosardi. La scrittura nuragica sino a qui certificata parla
infatti
esclusivamente di formule religiose, rivolte da un popolo di origine
semita (i Shardana o Sherden che dir si voglia) a un dio unico di
origine cananaica, vale a dire semitica. Così
capiterà coi Romani e coi Bizantini, i quali ultimi hanno
lasciato
scritte nelle loro
lingue, mentre il popolo continuava a parlare il suo vernacolo, per
dirla con l’Angius
(ci sono carte giudicali scritte con caratteri greci, ma
il lessico è in lingua sarda). Altrettanto
è accaduto
coi
Catalani e gli Spagnoli
che
si sovrapposero.
Per
questo motivo gli studiosi del ramo dovrebbero fare attenzione quando
compilano un dizionario del lessico sardo a pontificare e ad
affermare “Questo termine ci viene dal latino, quest’altro dal
catalano, quello dallo spagnolo, ecc.”, senza che abbiano la
presenza di spirito di riferirci quali termini sardi siano stati sostituiti da quelli
indicati come prestiti
provenienti dall’estero.
O vogliono
farci credere
gli questi studiosi che,
prima che
arrivassero gli
spagnoli, i sardi avessero mille cose o
animali o
azioni
o stati d’animo fuori dal loro lessico, impotenti per
10 mila anni nell’impresa
di assegnare a ogni cosa o persona o azione o stato d’animo un
suono specifico della loro
voce?
Caro
Giulio, ci sei cascato anche tu in questo trabocchetto di svendita
del nostro patrimonio lessicale, facendo copia-e-incolla dei dati sin
qui
forniti e
presunti veri in ossequio al principio di
autorità. False autorità, come si capisce, perché non dimostrano ciò
che dicono, ma fanno i saputelli con due o tre vocabolari a portata
di mano.
Così a cominciare dal Canonico Bissenti Porru e da Max
L.
Wagner, a seguire con nomi anche meno altisonanti. Se
la pecora, in sardo brebei,
in francese fa brebis,
significa forse che abbiamo aspettato un turista marsigliese per indicare la
pecora con un suo nome specifico?
Il Porru stesso, che la sa più lunga di tutti gli altri, riferisce
che la
pecora-brebei-berbeche
in
greco si dice brètethon,
in italiano antico berbìce,
e
trova
anche un verveces
cum agnis octoginta
latino antico - vale a dire ottanta brebeis angiadas - : perché
non arriva alla conclusione logica, a
cui pervenne l’Angius qualche decennio dopo, e cioè che si
trattava di lingue derivanti dal medesimo ceppo e pertanto non
potevano che avere un lessico abbastanza somigliante, senza
dare primogeniture a questa o a quella parlata?
Non
è riuscito neppure agli Italiani a
scalzare la lingua sarda dalla bocca dei nativi,
almeno sino agli anni Cinquanta del secolo scorso, cioè
fino
a quando
le mamme sarde, ancora
poco
acculturate,
insegnavano a parlare ai loro figli usando le parole degli avi.
Allora,
siccome la seconda parte del mio ragionamento era: visto che sappiamo
più o meno da dove ci arriva la nostra lingua, abbiamo
contezza di dove sta andando a parare?
Chiediamoci semplicemente:
quante mamme oggi
a
Quartucciu, a Selargius, a
Cagliari, Oristano, Nuoro o Pompu, insegnano le prime parole ai loro
bambini usando il
lessico
sardo?
La
risposta ci fa "tremare le vene e i polsi", come ha detto qualcuno prima di me: il sardo oggi non è più
la
lingua madre maggioritaria.
Tra
breve non sarà lingua madre per nessun sardo, bambino,
giovane o adulto che sia.
Potrei
fare una battuta: E se la colpa fosse delle madri che sono andate a scuola sin troppo? Ah, se fossero rimaste a casa!
Vi
è un’altra affermazione in Angius che dovrebbe farci
riflettere:
Non
sarà mai alterata una lingua nella sua forma nativa, se non si
mescoli al popolo che la parli un gran numero di stranieri di
linguaggio differente né abolita, se
questi immigranti per la loro quantità
non
soverchino di molto il numero degli aborigeni.
Riflettendo sulla possibilità che una lingua venga contaminata (alterata) o addirittura che sparisca (abolita), oggi
due sono gli aspetti palesemente contraddittori:
1° -la lingua sarda
corre il pericolo di estinzione;
2° - attualmente la Sardegna è popolata
nella stragrande maggioranza da aborigeni sardi.
E ora chiediamoci: il gran numero di stranieri di linguaggio differente che ha messo in
crisi la lingua nativa, dov'è? Chi
sono questi stranieri?
Risposta:
siamo
noi,
noi sardi che ci
comportiamo come stranieri nella nostra terra, siamo
noi sardi i nemici mortali per la nostra lingua. E non solamente per
la nostra lingua, s’intende, ma per tutta una cultura, antica di
cinquemila anni almeno, considerando le Culture di Ozieri e di Monteclaro,
quelle dette del Vaso Campaniforme del Neolitico e della Prima Età
del Rame, che si propongono come probabili matrici delle basi culturali del nostro essere sardi.
Io
stesso sono
stato un nemico della lingua sarda, se è vero che,
per tutti gli anni 60 e ‘70 del secolo scorso, ho accolto in classe
bambini sardi che conoscevano solamente il sardo e li ho trasformati
in ragazzini
sardi che sapevano scrivere l’italiano, ma non il sardo.
Lo so che
vi ero costretto, come un soldato al fronte avevo
l’ordine di
conquistare un caposaldo, senza accorgermi,
senza aver capito che in tal modo ne stavo distruggendo un altro a
me
ben
più caro.
Allora,
se queste riflessioni hanno fondamento, dove sta andando a parare la
lingua sarda?
A
essere ottimisti, come serve che si sia, resiste, resiste, …
resiste come sempre ha fatto; a essere realisti, … ditemelo voi!
A
proposito del dualismo vero o presunto in atto tra Campidanese e
Logudorese, termino
con una facezia che ho sentito nei giorni scorsi alla radio: in
un
rapporto dell’UNESCO,
l’agenzia
ONU
interessata
alle lingue a rischio di estinzione, si
riferisce la vicenda relativa a una lingua andina parlata ormai solamente da due persone: queste si
incontravano ogni giorno per discorrere nella loro lingua nativa. Capita che un
giorno
hanno bisticciato e da
allora non
si parlano più: non
si
sono resi conto
che
in tal modo hanno
ucciso
prematuramente la loro lingua.
Quando
l’ho sentita, mi
è venuto spontaneo
di
sorridere.
Poi
ho pensato: e
se
questa
situazione fosse nel futuro dei
Sardi? Metti insieme
un
campidanese e un logudorese: quanto
resisterebbero
all’idea malsana
di
impiantare
unu
kertu fra
di loro?
Unu
kertu, una lite pubblica, così come individuato nel Condaghe
di Santa Maria di Bonarcado.
La
risposta non
mi
fa per
niente sorridere:
su
kertu
infatti è già in essere. E non da ieri.
P. S.: siccome ho menzionato il condaghe di Santa Maria di Bonarcado (S. M. de Bonaccatu), sappiamo tutti che un Condaghe-condaxi-condake è un atto pubblico di compravendita o donazione. Oggi diremmo un atto notarile.
Bene: M. L. Wagner, che si fa forte del parere di altro studioso (ah, anche qui il benedetto principio di autorità!), afferma che il nostro lemma proviene dal greco-bizantino kontàkion che fu ed è un canto religioso.
Quanta fantasia serve per mettere insieme una giaculatoria con un atto notarile?
Bonaccatu, alla stessa maniera, dovrebbe giungere dal greco-bizantino Panàchrantos che significa Immacolata, purissima, mentre bonaccatu benagatau, vuol dire che uno è stato ricevuto bene, o anche che si è trovato un affare nella compravendita.
E allora?
La risposta sta tutta nel comportamento pressapochista stigmatizzato in un provverbio popolare marmillese: Bastat chi assimbillit a babbu, incortileimiddu a domu! (Basta che assomigli a babbo, portatemelo a casa!)
Hai fatto bene a dire certe cose. Perché è davvero tutto un copia e incolla. Tanto che mi chiedo come si faccia a non capire che più grigi di così non si possa essere. L'iterazione perenne delle corbellerie. Ma figurati! Toccare (anzi sfiorare) un Wagner o un Meyer Lubke! Mica si può. Se poi azzardi e parli di Alinei rischi le famigerate 250 firme di Frau e l'essere 'comodoumenos' a vita grazie al teatro goliardico delle Ifigonie, tantocare ai vecchi eterni bambinoni dell'Accademia. Ma non sei solo, non rattristarti: ho cercato di dare una mano a Frau sull'origine degli Etruschi e sulla stessa lingua sarda 'esistente da sempre' (parlandogli anche dell'Angius). Domani o dopodomani, con un post riguardante un bellissimo documento nuragico pubblicato dall'archeologo E.Atzeni vedrò di darla anche a te. Piccola naturalmente (ma forse non tanto).
RispondiEliminaGran bell’intervento, Francu. Vuoi dirci come è stato preso (dai Solinas, Spiga e Murru, per cominciare)?
RispondiEliminaUn anno fa, ad Assolo, ho avuto l'occasione di praticare i bambini delle scuole elementari di quello stesso territorio dove operai come insegnante alla fine degli Anni Sessanta.
RispondiEliminaAi bambini di Assolo e dintorni ho chiesto, per prima cosa, chi sapesse parlare in sardo; come seconda, chi mi comprendesse se parlavo in sardo.
Ebbene, visto che il mio sardo è proprio come quello di Assolo e dintorni, mi capivano quasi tutti, salvo degli immigrati, tre o quattro in mezzo a una sessantina di scolari. Chi lo sapeva anche parlare correntemente erano ancora tre o quattro.
Considerando le proporzioni, mi risultò chiaro che solo il 10% - a largheggiare - dei ragazzi delle elementari aveva come prima lingua il sardo (o anche il sardo).
Adesso, lasciate passare una generazione e questi ragazzi avranno fra i trenta e i quarant'anni, quanti di loro saranno in grado di parlare in sardo ai propri figli? E fra quelli che potrebbero, in quanti lo faranno davvero?
Ecco perché c'è poco da stare allegri sul futuro della lingua sarda.
Nella relazione che presentai ad Assolo il giorno dopo, così come in quella del febbraio scorso (mi pare che le abbiamo passate ambedue nel blog) parlai anche dell'aspetto politico della questione linguistica.
Questa volta, visto che ho accettato l'invito di Giulio Solinas proprio perché avevo campo libero a parlare di lingua sarda, ho detto altre cose che rimugino da tempo e ho cercato di supportarle con dati derivanti da letture che avevo fatto e di altre che ho fatto per l'occasione. Ecco da dove viene la relazione. D'altronde l'ho detto chiaramente.
Vi ringrazio, dico Gigi e Francesco, per il sostegno morale. Gigi me ne promette un altro anche più organizzato. Lo aspettiamo.
Come ci sono rimasti?
Spiga e Murru mi conoscono abbastanza e non si sono meravigliati affatto.
Giulio invece - e la cosa mi dispiace - non l'ha presa bene e se ne è lamentato nell'intervento che ha seguito il mio.
Quanto al pubblico intervenuto, non ho visto visi contrariati, non mi è sembrato che gli applausi, a fine discorso, siano stati quelli stanchi dovuti solo per educazione: ho avuto la sensazione che qualcuno fosse contrariato perché avevo terminato di parlare.
Alla fine ho constatato come molte persone che neppure conosco, mi si sono avvicinate per complimentarsi. Onestamente dico che sono state più di quanto mi aspettassi (non me ne aspettavo nessuna, a dire il vero!).
Questo non significa che il libro di Giulio Solinas non sia un bel libro. Anzi è molto utile perché approfondisce le questioni della grammatica e della sintassi della lingua sarda campidanese, oltre a preziosi suggerimenti sull'uso della metrica.
Quanto alle scomuniche, caro Gigi, io sono un signor nessuno e per loro sono soltanto come un cane che abbaia alla Luna. Pensa se si lamentassero in pubblico! Farebbero pubblicità alle parole che probabilmente li disturbano.
RispondiEliminaNon sono così fessi.
A proposito dell'Angius, riferisce di un frammento di documento in lingua sarda arborense che risale all'anno 740. Come mai non ne ha parlato più nessuno?
RispondiEliminaDovrebbe averlo trovato negli archivi della Curia Tarrense.
Se si pensa che i primi documenti finora repertoriati risalgono a tre secoli dopo...
Le "false autorità" non mollano.......Francu e i tentativi folcloristici in atto per salvare la lingua Sarda sono uno specchio per le allodole.Solo I piccoli centri continuano a resistere e gli stessi che hanno affossato la lingua Sarda ora sono in prima fila a gracchiare.....Con il dialetto tabarchino è lo stesso cra cra cra .......Saluti
RispondiEliminaPenso con rammarico quando criticai mio fratello Gianfranco che al figlio Carminu,parlava solo in sardo;solo dopo un po' mi resi conto che sbagliavo io,infatti mio nipoti sa benissimo la nostra lingua come sa parlare bene la lingua italiana.Non so se lei,signor Francu,ha detto per scherzo che la colpa di non parlare in limba sia delle mamme,ma credo che sia proprio così.Lo stesso errore lo fecero,a suo tempo, i miei genitori.Meno male,dopo tanti anni fu proprio mio nipote Carminu ad insegnarmi,a bellu a bellu, la nostra meravigliosa e significativa lingua.
RispondiEliminaCerto che era una battuta!
RispondiEliminaPer le donne sarde fu una sfida insegnare ai propri figli l'italiano, che esse stesse ben poco avevano in pratica. Pensavano però, in buona fede, di migliorare le loro prospettive di futuro.
Ricordo un episodio riferito nel mio libro del 1998, Ogus Citius, in cui c'è la mamma che riciama a casa la figlia bambina, apostrofandola con queste parole: "Annamaria, sa 'udda pei bia perdasta, vieni qui!". Le parole in sardo significano: che tu perda il basso ventre per strada.
Dico anche che quella di frastimai, vale a dire augurare il peggio, era solamente un vezzo popolare, e veniva scelto il malaugurio che rispondeva alla rima. Infatti, nell'aneddoto, bia fa rima con Annamaria, mentre il verbo, che poteva anche essere eluso, veniva comunque pronunciato come un'aggiunta, con tono calante rispetto al resto.
Anche oggi ha dovuto sorbirsi una lezione di educazione popolare. La prenda per il verso giusto, signora Grazia.
Tutti i suoi insegnamenti,sono importanti,signor Francu e le dico che mia mamma mi parlava sempre in italiano ma le maledizioni erano sarde tipo:"sas manos cancheradas chi iuches" perchè mi cascava tutto di mano per la paura che avevo di lei.
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