martedì 16 giugno 2015

Simbolismo cosmico della lettera resh

di Matteo Corrias


Come è noto, il grafema resh negli alfabeti semitici antichi () trae origine dall’evoluzione di un primitivo pittogramma raffigurante una testa umanai, e nell’alfabeto fenicio (quindi in quello greco) assume la forma di un’asta verticale sormontata e chiusa da un occhielloii. In questo modo il simbolo sviluppa ed esplicita quel valore eminentemente macrocosmico già implicito nel simbolismo originario e – direi quasi – “biologico” che al capo umano in quanto centro e deposito del principio vitale è unanimemente attribuito dalle culture arcaicheiii: l’unione dell’asta e dell’occhiello schematizza infatti nella sua forma più elementare uno dei composti simbolici più universalmente diffusi ed operanti, che si declina nelle differenti varianti dell’Axis Mundi, della “Colonna Solare”, dell’Albero della Vita, della Scala Paradisi, della cruna dell’ago, del carro, dell’ “occhio della cupola”, dell’ “Uomo cosmico”, del monogramma di Cristo costantiniano, e fors’anche della croce ansata (Ankh) egiziaiv.

Lo studio di questo complesso elemento simbolico può utilmente trarre avvio dall’analisi del significato che la cosiddetta “croce di luce” – e cioè la croce tridimensionale “a sette raggi” (trivrd vajra) – ha nella tradizione vedicav, in cui essa appare come una rappresentazione geometrica dell’universo, la cui estensione spaziale è sintetizzata dalle quattro direzioni Nord, Est, Sud, Ovest che si dispongono sul piano orizzontale, e i cui elementi fondamentali, il Cielo e la Terra, sono al tempo stesso divisi e tenuti insieme dai due segmenti verticali che si sviluppano dal centro verso lo zenith e il nadirvi: quest’ultimo asse corrisponde esattamente all’Axis Mundi (skambha divo dharunha; il qutb della tradizione islamica) che all’atto della creazione fu introdotto come pilastro a dividere il Cielo dalla Terra, e che del Cosmo intero è l’esemplare: «È perché sono separati e sorretti da questo Pilastro che il Cielo e la Terra stanno fermi; il Pilastro è tutto quest’universo fornito di spirito»vii; «in esso sono stabiliti il futuro e il passato dei mondi»viii. Ora, i bracci della croce tridimensionale sono rappresentati come i sei raggi del Sole, che è l’ “occhio dell’universo” ix, il punto d’attacco al quale i mondi sono legati proprio attraverso i suoi raggi come a dei cavicchix. Principio formale della complessione cosmica, ciò che misura i mondi come l’occhio misura lo spazioxi, il Sole ha però un settimo raggio, il «miglior raggio» («param bhas»), non rappresentabile geometricamente per il fatto che costituisce l’elemento di congiunzione tra l’universo manifestato e Brahman, tra il mondo immanente e la trascendenza metafisica principiale: in quanto tale, il settimo raggio coincide esattamente con il disco solare stessoxii.

Osserviamo anzitutto la doppia valenza simbolica dell’astro solare, nonché la sua centralità sul piano metafisico e quindi, di riflesso, su quello del cosmo fisico, del quale occupa realmente la posizione centrale, se attraverso di esso passa l’Asse del Mondo e se per mezzo dei suoi raggi tutto viene sorretto come a dei pioli. Tale concezione corrisponde evidentemente all’immagine eliocentrica che dell’universo hanno sviluppato tutte le culture arcaiche, e che quindi non andrà in alcun caso interpretata come un’ingenua rappresentazione prescientifica della realtà fisica, ma come il riflesso simbolico di una precisa concezione metafisica. In secondo luogo sottolineiamo il ruolo dell’occhio solare come “porta” che consente da un lato il passaggio dall’unità principiale aspaziale e atemporale alla realtà manifestata nell’atto della creazione, quindi il transito delle correnti pneumatiche discendenti e ascendenti di Prajapati e dei Deva.

Tale passaggio lungo l’Asse del Mondo e attraverso la Porta solare può infatti essere percorso nei due sensi, e cioè come discesa delle influenze spirituali dall’alto verso il basso e viceversa come ascesa mistica dal basso verso l’alto. Questo aspetto del simbolismo assiale è precisato, nelle differenti tradizioni, segnatamente nell’analogo simbolico della scala: la scala di Ra, che collega la Terra e il Cieloxiii; la scala di Giacobbe lungo cui salivano e scendevano gli angelixiv; la Scala Paradisi di Giovanni Climaco; la scala aurea che Dante descrive in Pd XXI 28-34; la scala del Cielo utilizzata dalla dea Amaterasu nella tradizione scintoistaxv; la scala per mezzo della quale Budda discende dal monte Meruxvi, e infine la scala che nel mitraismo simboleggia i gradi dell’ascensione iniziatica, associati ognuno emblematicamente ad un metallo e ad un pianetaxvii.

Anche l’albero – altro simbolo dalla straordinaria diffusione e complessità semantica – può espletare la funzione di rappresentare il duplice passaggio, ascendente e discendente, attraverso gli stati dell’essere: proprio a partire da questo dato si spiega la duplice declinazione iconografica del simbolo, raffigurato sia come un albero che affonda le sue radici nel fondo oscuro della divinità da cui per emanazione trae origine la realtà manifestata, e che dunque appare rovesciatoxviii, sia come un albero la cui chioma si innalzi oltre il tetto del Mondo, come accade nei templi ipetrali, costruiti intorno ad alberi la cui chioma era lasciata fuoriuscire rispetto all’edificio, templi che in India in origine erano santuari dedicati agli Yaksha (divinità della natura selvaggia) e che in seguito divennero templi buddistixix. In questo caso, oltre al senso più limitato di via mistica ascensionalexx, il simbolo, che appare bipartito in una porzione cosmica e in una sovracosmica, assume propriamente il valore di Axis Mundi, vera e propria forma materiale di Brahman, l’«Albero di tutti i semi», forma unica cui tutti gli altri princìpi sono inerentixxi. A tale concezione corrisponde con straordinaria esattezza quanto Dante dice in Pg XXVIII 118-119, dove il Paradiso Terrestre viene descritto come una «campagna santa» che «d’ogni semenza è piena», e costituisce perciò il “prototipo” trascendente di tutto ciò che esiste nel mondo manifestato (il principio formale dell’universo, ciò che precisamente è l’Asse del Mondo). Si noterà altresì che nel Paradiso Terrestre della Genesi, esattamente «in mezzo al giardino» si trovano due alberi, l’«Albero della conoscenza del bene e del male» e l’«Albero della Vita»xxii, che coincidono con le due porzioni (cosmica e sovracosmica) dell’Albero-Axis Mundi, delimitate – come si è visto – dalla porta del Sole il quale, come si legge in un passo della Maitri Upanishad, è dotato di una «duplice natura» avente «come scopo l’esperienza sia del vero [il “bene”] che del falso [il “male”]»xxiii. Noteremo infine che il segmento superiore dell’Albero della Vita è sempre identificato nei testi vedici con la divinità stessa, con il Brahmanxxiv, idea che coincide con l’arcana indicazione fornita da Dante in chiusura di Pd XXVI, per cui il nome originario di Dio sarebbe stato «I»xxv.

Ma ritorniamo al simbolo arboreo “vettoriale” da cui siamo partiti, i due alberi contrapposti (quello dritto attraverso cui si ascende misticamente alla divinità e quello rovesciato da cui origina la manifestazione e da cui discendono le influenze spirituali). Si tratta anche in questo caso di un simbolo universale, attestato ad esempio nelle civiltà mesopotamiche, in quella semitica, in quella islamica e in quella cristiana: due palme contrapposte sono infatti raffigurate su un pregiato sigillo assiroxxvi, molto simile all’immagine rappresentata su un sigillo cilindrico fenicioxxvii, mentre una tavoletta islamica ora conservata al museo bizantino di Atene presenta l’effigie di un albero rovesciato sostenuto da due leonixxviii. L’immagine dell’albero rovesciato si trova descritta anche nello Zohar, dove il fatto che esso sia caratterizzato come «albero di Luce» significa chiaramente la sua natura sovraceleste e principiale, per le stesse ragioni per cui l’emblema è impiegato da Dante in Pd XVIII 29 proprio a designare il Paradiso stesso come «l’albero che vive de la cima», “l’albero – cioè – che trae vita dall’alto”. Ora, occorre osservare che il capovolgimento dell’Albero cosmico ha un significato ed un valore esclusivamente prospettici, dal momento che l’universo e la sua origine principiale possono essere rappresentati come un albero rovesciato solo se considerati dal punto di vista della manifestazione immanente, e non già in sè e per sè. Si è tuttavia detto sopra che l’albero (ovviamente nella sua tipologia eretta) rappresenta la via ascensionale attraverso cui è addirittura possibile oltrepassare la Porta solare e giungere alle regioni trascendenti fino alla fusione con il Principio: una simile ascesa si costituisce di fatto come una “rettifica” della posizione invertita dell’Albero, a somiglianza di quanto compirono i Deva che, eseguendo il sacrificio primordiale, lo «reintegrarono» e lo «eressero». A imitazione di questo Sacrificio primordiale, ogni rito sacrificale ha lo scopo dichiarato di pemettere al Sacrificatore, partecipe dei divini misteri e ad essi iniziato, di “reintegrare ed erigere” il mondo dell’immanenzaxxix, che altro non è se non il reale rovescio della realtà trascendente principialexxx.


Compiere il sacrificio significa insomma rovesciare l’Albero e risalire l’Asse del Mondo fino ad oltrepassare la Porta del Sole. Per questa ragione, nel culto vedico, i riti di ascesa sono eseguiti in relazione al palo sacrificale (yupa), che è uno degli aspetti più caratteristici dell’Axis Mundi, poiché «il sacrificatore ne fa una scala e un ponte per raggiungere il mondo celeste»xxxi; per la stessa ragione l’erezione dell’Altare del Fuoco garhapatya consiste di fatto nella posa di tre pietre perforate naturalmente al centro, secondo quanto attesta il Satapatha Brahmana, da cui è anche possibile arguire il significato simbolico delle tre pietre anulari sovrapposte e dell’intera strutturaxxxii: esse rappresentano i tre mondi (Terra, Aria e Cielo) e sono tra loro collegati attraverso il “Soffio” (“Vento”, il Pranah) che attraversa la cavità longitudinale internaxxxiii. Ciò che tiene unita questa complessione di mondi è dunque il Vento, che è descritto come il Soffio emesso dalle narici del Cavallo Solarexxxiv, che vivifica tutto ciò che esiste, e che come un filo (sutram) passa in mezzo ai tre mondi (come l’aria può passare attraverso il foro delle tre pietre anulari dell’altare) tenendoli uniti. Così «il Sole è lo spirito di tutto ciò che si muove o sta fermo»xxxv; «il filo teso su cui questa progenie è infilata, che altro è se non il Grande Sole, che ha la natura del Brahmanxxxvi; «chi conosce quel filo [...] conosce Tutto»xxxvii. Caratterizzato da una simile pregnanza semantica, l’Altare del Fuoco attraversato al centro dall’unico Soffio divino si costituisce come l’analogo simbolico che meglio precisa il significato dell’Albero della Vita (Asse del Mondo), quale vettore di ascesa mistica: ciascuno dei fori dei tre perforati è infatti simbolicamente una “vagina” (yoni), perché chiunque vi passi attraverso muore a un precedente stato di esistenza e nasce ad uno stato di esistenza superiorexxxviii, fino alla definitiva morte alla propria esistenza individuale ed alla rinascita ultima alla “vita eterna” nella pienezza trascendente del Principioxxxix. E la “morte a se stessi” è realmente il requisito definitivo ed indispensabile senza il quale la Porta del Sole, simboleggiata dalla pietra anulare superiore dell’Altare del Fuoco, è sbarrata o nascosta dai suoi stessi raggi, non dunque un passaggio pervio, ma al contrario una barriera impenetrabilexl: questa terza pietra è il tetto del cosmo, la corona dell’Albero della Vita, la porta del mondo attraverso la quale l’iniziato, il «morto a se stesso»xli, può «evadere dall’universo»xlii, passare dalla condizione mortale all’immortalità, dall’immanenza della manifestazione cosmica alla trascendenza dell’unità principiale.

La dottrina egizia della “Porta del Sole”, esposta nel Libro dei Morti, è essenzialmente la stessa di quella vedica: il cielo vi è descritto come il soffitto della Terra e il pavimento del Cielo, raggiungibile attraverso una scala (analogo, come già si è visto, dell’asse/albero), alla sommità della quale siede il dio-sole Horo e dove il cuore del defunto viene pesato. Se giudicato degno, può accedere attraverso la porta solare al banchetto dell’immortalità, poiché ritenuto degno di «essere un Osiride» e a lui completamente identificato (quindi ormai totalmente privo del proprio io individuale)xliii. Lo stesso attraversamento del Sole come accesso alla beatitudine eterna nel ricongiungimento al Principio è presente anche nello Zohar (dove la porta G’bilon è tuttavia collocata «al centro di tutti i cieli») e nei Vangeli, dove Cristo, «Sole di Giustizia» che «sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre»xliv, dice di se stesso: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo»xlv.

Se ora componiamo quanto abbiamo osservato a proposito della rappresentazione dell’ascesa mistica attraverso i mondi come passaggio ascendente attraverso i tre perforati dell’altare vedico percorso dal Soffio come da un filo e l’idea del compimento dell’opera iniziatica come attraversamento della Porta Solare, otteniamo la corretta chiave esegetica di un altro simbolo assiale del “passaggio di stato”, quello cioè della cruna dell’ago. L’immagine, in genere intesa come una semplice metafora dal tono iperbolico, è nota in Occidente attraverso un famoso passo evangelicoxlvi, ma ha un singolare parallelo in un importante testo vedico (Brhadaranyaka Upanishad II 4, 2), dove è chiaro che la “cruna” altro non è se non proprio la Porta Solare attraverso la quale passa chi abbia risalito il Pilastro dei mondi. Nella tradizione vedica, inoltre, l’ago e il filo che ne attraversa la cruna sono lo strumento per mezzo del quale la Dea Madre “cuce” la sua operaxlvii, e, conseguentemente, l’uso linguistico comune del sanscrito assimila anche ogni atto procreativo e la generazione dei figli all’azione stessa del cucirexlviii. Come si è del resto già detto, la metafora del filo che attraversa le tre pietre anulari dell’Altare è, ancora nella cultura vedica, la più precisa e pertinente designazione simbolica del Soffio vitale divino che attraversa l’universo e lo oltrepassa collegandolo al suo Principio metafisico. A queste concezioni fa eco un passaggio straordinariamente incisivo (in cui non si ometterà di notare, oltre al resto, la centralità attribuita al prerequisito iniziatico essenziale dell’estinzione dell’io) del già citato Mathnavi del mistico persiano Jalal al-Din Rumi, che evocando proprio il momento supremo del superamento della Porta del cosmo recita: «Egli bussò alla porta. L’amico lo chiamò: “Chi c’è alla porta?”. Egli rispose: “Sei tu alla porta, tu che incanti i cuori”. “Ora – disse l’amico – poiché che tu sei me, entra, o me stesso: non c’è posto in casa per due io. La doppia estremità del filo non si confà all’ago: dal momento che sei unico, entra nella cruna di questo ago. È il filo che è collegato con l’ago: la cruna dell’ago non è adatta al cammello»xlix.


Quest’escursione attraverso le diverse declinazioni del simbolismo assiale deve includere anche tre simboli costruttivi apparentemente piuttosto difformi, ma che in realtà – come si vedrà – sono del tutto equivalenti tra loro e rispetto alle tipologie presentate sopra, salvo forse evidenziare aspetti differenti della medesima verità metafisica: si tratta dei simboli del carro, dell’edificio a pilastro centrale e della cupola.

Le ruote appaiate del carro rappresentano infatti il Cielo e la Terra, separate e al tempo stesso unite dall’asse, che consente la stabilità del veicolo e la rotazione delle due ruote: esso è il principio strutturale dell’intera costruzione, che simbolicamente corrisponde all’Asse del Mondol; allo stesso modo il mozzo della ruota che rappresenta il Cielo è la Porta del Sole «attraverso cui si sfugge definitivamente» al cosmo rotante per giungere alla stasi perfetta dell’empireoli. Analogo simbolismo è quello dell’edificio sacro a pilastro centrale, sul tipo dello stupa buddista, o della cupola aperta al centro da un foro tradizionalmente denominato “occhio”lii, tipologia costruttiva caratteristica, nel mondo indiano, tanto degli edifici sacri quanto delle dimore private, dove il foro centrale del tetto aveva anche la duplice fuzione pratica di far penetrare la luce e di far fuoriuscire il fumo, che si innalzava dall’altare domestico come una colonnaliii, similmente a quanto accadeva nelle case tradizionali romane, nelle quali l’altare domestico dedicato ai Penati era «nudo sub aetheris axe»liv. Nel caso dello stupa (monumento sepolcrale buddista) è evidente il maggior rilievo attribuito all’elemento assiale, laddove nel caso dell’edificio a cupola con foro centrale maggior risalto è accordato invece alla sezione apicale del simbolo, ossia dalla Porta Solare attraverso la quale è possibile “uscire dal mondo” manifestato e giungere alla pienezza trascendente. Notiamo ancora che, a quanto dice Ovidio, nel tetto del tempio capitolino di Giove Ottimo Massimo un «exiguum foramen» era stato lasciato intenzionalmente aperto sopra la colonna che rappresentava il dio Terminus, il cui significato assiale appare, al di là di tutte le altre possibili considerazioni, piuttosto evidentelv.


Nella tradizione vedica così come in quella estremo-orientale, in quella greco-romana e in quella giudaico-cristiana, il più preciso equivalente microcosmico del simbolismo cosmico sopra presentato è tuttavia l’uomo stesso. Il corpo umano infatti custodisce nel suo più intimo penetrale, il «loto del cuore», «l’aurea Persona del Sole»lvi «sempre presente nel cuore degli uomini»lvii, «luogo di incontro tra Cielo e Terra»lviii, allo stesso modo in cui, secondo Gen. I 26, l’uomo è stato creato «a immagine e somiglianza di Dio». Come «incontro tra Cielo e Terra», ma a svolgere la precisa funzione di Pilastro cosmico che al tempo stesso, puntellandole, unisce e tiene distinte le due regioni dell’universolix, l’uomo compare in Atharvaveda-samhita X 7, dove egli è descritto come centro e principio unificatore del Mondo, al quale «i Deva si appoggeranno come i rami dell’albero intorno al tronco. Colui al quale i Deva apportano sempre un tributo illimitato nello spazio limitato». In questo modo, assimilato al Pilastro e all’Albero, l’uomo è sussunto a simbolo cosmico, esattamente secondo il famoso principio dell’equivalenza di macrocosmo e microcosmo che troviamo enunciato nella Tabula Smaragdina, secondo cui «quod est inferius est sicut quod est superius, et quod est superius est sicut quod est inferius, ad perpetranda miracula rei unius»lx. Come albero l’uomo è descritto anche nella Bradharanyaka Upanishad (III 9, 28): «come un albero [...] così è invero l’uomo», nel libro di Giobbe (XVIII 16) e nel Timeo di Platone (90a-b), dove ritroviamo il simbolismo specifico dell’Albero rovesciato, le cui radici (ossia la testa) sprofondano nel Principio celeste: «noi siamo alberi non terrestri, ma celesti. [...] Infatti, tenedo sospesa con la testa la nostra radice, proprio là, da dove l’anima ha tratto la sua prima origine, la divinità erige tutto quanto il nostro corpo». La corrispondenza fra testa umana e Cielo è stabilita con molta chiarezza anche dalla tradizione taoistalxi, che, analogamente a quanto abbiamo constatato nella concezione vedica, definisce la compagine cosmica attraverso la struttura triadica Cielo-Terra-Uomo (Tien-Ti-Jen), in cui l’uomo, «in virtù della duplice natura che gli viene dall’uno e dall’altra [dei quali è il prodotto], diventa il termine mediano o “mediatore” che li unisce e che [...] costituisce per così dire il “ponte” gettato tra loro»lxii. Una preciso paragone fra universo sferico e capo umano è istituito anche da Platone, secondo il quale «gli dei, imitando la figura dell’universo che è rotonda, legarono i due circoli divini in un corpo sferico, quello che ora chiamiamo capo, che è cosa divinissima e domina tutto ciò che è in noi»lxiii. Infine, come omologo del cielo (immaginato concavo) il cranio umano è considerato anche nel Grimnismal islandese, dove la testa del gigante Ymir diviene, alla sua morte, la volta del cielolxiv.

Tale assimilazione fra testa e Cielo giustifica l’idea, radicata nella cultura vedica, secondo cui lo spirito dell’uomo che abbia risalito l’Asse del Mondo ed estinto completamente il suo io individuale esca attraverso la sutura, ancora aperta alla nascita, posta in cima alla cupola cranica, il brahmarandhra, che costituisce l’equivalente simbolico del foramen della cupola di un edificio, della pietra anulare apicale dell’Altare del Fuoco, della cruna dell’ago e della Porta Solare del Cielo, attraverso cui è possibile passare da uno stato all’altro, dall’immanenza alla trascendenza: a quest’idea è certamente da associare la pratica funeraria, attestata in numerose civiltà arcaiche (oltre che in India, essa si ritrova infatti nel Pacifico, nelle civiltà americane precolombiane e in Tibet) di eseguire post-mortem la perforazione del cranio del defunto in corrispondenza proprio del brahmarandhralxv. Come forma attenuata e allusiva della perforazione cranica va certamente interpretata anche la pratica della tonsura del clero presso il Cristianesimo latino precedentemente all’ultimo concilio, e quella analoga dell’asportazione di un ciuffo di capelli dal cranio del catecumeno durante la celebrazione del battesimolxvi, e della stessa forma di tonsura dei consacrati agli ordini ecclesiastici esistente a tutt’oggi contestualmente al rito della cheirothesia nel Cristianesimo orientalelxvii.


L’ampia parabola che si è percorsa consentirà a questo punto di stabilire con certezza gli elementi cardinali del simbolismo specifico (che, come ogni simbolismo attinge in profondità agli archetipi mentali dell’umano e si connota dunque di quel carattere universale che si è potuto constatare) della lettera resh, stilizzazione del capo umano (rappresentato come un occhiello) che sormonta il corpo eretto (sintetizzato dal segmento verticale sottostante), e l’etimologia semitica del cui nome è propriamente quella di “testa”lxviii. Simbolo “doppio” del cosmo e del (possibile) superamento dello stesso come manifestazione immanente del Principio, il resh conserva tale significato profondo anche nella sua evoluzione greca, la lettera rho, che infatti troviamo implicata nel celebre simbolo noto come “monogramma di Cristo” ( = X + P), equivalente esatto del trivrd vajra vedico, la croce tridimensionale che riassume l’universo come possibilità e determinazione principiale, al quale è però aggiunto l’«occhio del Cielo», cioè la Porta Solare della trascendenza. Non sarà allora un caso se nel passo della Genesi (XXVIII 12) in cui si descrive la già menzionata scala di Giacobbe, tramite dei moti ascendenti e discendenti degli angeli di Dio, la sommità della scala medesima, posta a diretto contatto con le regioni celesti, è definita proprio, e significativamente, ro’sh, “testa”lxix. Nel capolavoro della letteratura cabalistica, lo Sefer Yetzirah (Libro della Formazione), opera tenuta in così grande considerazione da essere addirittura attribuita ad Abramolxx, si legge: «Il a fait régner la lettre resh sur la Paix et Il l’a ceinte d’une couronne et Il a permuté l’une avec l’autre et Il en a formé Saturne dans l’Univers, Vendredi [le sixième jour] dans l’Année, la narine gauche dans l’Ame, mâle et femelle»lxxi. Ora, ognuna delle indicazioni fornite in questo passo, denso e pregnante, e nel quale non si mancherà di osservare l’evidente messa in relazione dell’ambito macrocosmico con quello microcosmico, conferma in maniera sorprendente quanto siamo andati via via delineando a proposito del complesso di simboli assiali che abbiamo presentato: la lettera resh regna sulla Pace, e per suo mezzo Dio ha creato, nel cosmo, il pianeta Saturno, il cui valore nella più antica tradizione atrologica a noi nota (quella babilonese) è proprio quello di pace e stabilità nell’ordine universale come in quello socialelxxii; inoltre il sesto giorno, cui il resh è associato, è quello del compimento dell’opera divina di creazione, e simboleggerà dunque l’intero universo creatolxxiii. La lettera resh presiede insomma alla stabilità del Cosmo, così come il Pilastro o l’Uomo cosmico reggono la complessione del Mondo, tenendo – come si è ribadito più volte – uniti e distinti il Cielo e la Terra. La lettera è poi cinta da Dio con una corona, sul senso simbolico della quale non occorrerà dilungarsi: la corona, con la sua forma circolare, è ornamento della sommità del capo, ed evidenzia da un lato la sacralità dello stesso come sede del principio vitale individuale, dall’altro suggerisce, essendo di fatto un foramen, l’idea del passaggio verticale verso la trascendenza celeste, cui la testa umana è “radicata” (come un albero rovesciato): rammentiamo soltanto che proprio nella letteratura cabalistica kether (la corona) sormonta l’albero delle Sefirot, e ad essa è attribuito il significato di Ein Sof (l’Assoluto)lxxiv; la corona ha poi in latino, anche etimologicamente, lo stesso significato dei cornua, da interpretare come escrescenza e manifestazione esterna del principio vitale contenuto nella testalxxv. Da ultimo il testo istituisce uno specifico legame fra la lettera resh e la narice sinistra (alla narice destra è associata la lettera dalet, che presiede alla «Semenza», l’elemento di perpetuazione della vitalxxvi): si è già argomentato ampiamente sul fatto che l’Altare vedico del Fuoco si considerasse attraversato al suo centro, cavo, dal Soffio vitale divino come da un filo, che tiene uniti i tre mondi tra loro e li connette al tempo stesso al Principio, e si è già istituito il parallelo tra questa particolare struttura di altare e i due simboli della cruna dell’ago e dell’Ankh egizia.



Come a questo punto dovrebbe risultare chiaro, la lettera resh, come ogni altro segno grafico attestato nell’uso scrittorio delle culture arcaiche, non sarà in alcun modo da intendere come un semplice “grafema”, un arbitrario espediente grafico finalizzato a fissare la volatilità dei fonemi di una lingua, ma è realmente, nella coscienza degli antichi, l’affioramento di un complesso sistema di significati che avviluppavano tutta intera la vita dei parlanti (davvero la stessa “materia prima” di cui Dio si sarebbe servito, secondo la concezione cabalistica, per creare l’intero universo) e che esprimevano nella forma condensata del simbolo, ma con precisione matematica, un’immagine del Mondo, la stessa – come si è visto – o quasi, in tutte le culture arcaiche: un Mondo come manifestazione “invertita” di un Principio al tempo stesso ontologicamente altro rispetto alla realtà immanente, ma con il quale i più alti destini individuali sono chiamati alla riunificazione, oltre ogni individualità, oltre l’occhio della cupola del Cosmo.


i O. Goldwasser,   Canaanites Reading Hieroglyphs. Horus is Hathor? in The Invention of the Alphabet in Sinai, p. 142,leggibile online all’indirizzo:
https://www.academia.edu/6465685/Canaanites_Reading_Hieroglyphs._Part_I_Horus_is_Hathor_Part_II_The_Invention_of_the_Alphabet_in_Sinai.

ii Cfr. il repertorio alfabetico fenicio costruito a partire da iscrizioni provenienti da Biblo, Cartagine, Karatepe, El Hofra e Leptis Magna pubblicato online a cura della Scuola Normale Superiore di Pisa:
http://lila.sns.it/mnamon/index.php?page=Simboli&id=23.

iii Cfr. G. M. Corrias, Il tipo iconografico del gastrocefalo. Lettura comparativa di un documento di scrittura nuragica in «Monti Prama», 66 (2014), pp. 27-45, spec. pp. 32-33.

iv Per tralasciare simboli di tradizione più recente quali il “quattre de chiffre” massonico e l’ “Appeso” dei tarocchi, la cui caratteristica postura non può tuttavia non richiamare quella che, nell’iconografica vedica tradizionale, appare tipica di Prajapati, dio supremo e creatore del pantheon induista.

v La maggior parte delle informazioni sulla tradizione vedica utili alla stesura di questo saggio sono state ricavate da A. Coomaraswamy, Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, Milano 1987, pp. 323-495.

vi Cfr. Jaiminiya Brahmana I 247; Satapatha Brahmana I 9, 3, 10; Jaiminiya Upanishad Brahmana I 30, 4. Cfr. Coomaraswamy, Il grande brivido cit., p. 368 n. 11

vii Cfr. Atharvaveda-samhita X 8, 2.

viii Cfr. Ibidem X 7, 22.

ix «L’occhio del corpo cosmico di Prajapati», secondo Maitri Upanishad VI 6, che coincide con l’«oculus mundi» di Ov.,Met. IV 228.

x Cfr. Satapatha Brahmana VI 7, 1, 17; VIII 7, 3, 10; Rigveda-samhita I 115, 1; Atharvaveda-samhita X 7, 42 e 8, 37-38.

xi Cfr. Maitri Upanishad VI 6.

xii Cfr. Satapatha Brahmana I 9, 3, 10; Jaiminiya Upanishad Brahmana I 30, 4.

xiii Cfr. J. Chevalier – A. Geerbrant, Dizionario dei simboli, Milano 1986, s. v. «Scala».

xiv Cfr. Gen. XXVIII 12.

xv Cfr. Chevalier – Gheerbrant, Dizionario cit., s. v. «Scala».

xvi Ph. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Milano 2001, s. v. «Meru».

xvii Cfr. Origene, Contra Celsum VI 22. I sette gradi della scala sono: 1) Piombo – Saturno; 2) Stagno – Venere; 3) Bronzo – Giove; 4) Ferro – Mercurio; 5) lega da monete – Marte; 6) Argento – Luna; 7) Oro – Sole; 8) Cielo delle stelle fisse.

xviii La descrizione più precisa di quest’albero si trova in Maitri Upanishad VI 4; Baghavad Gita XV 1-3; Katha Upanishad VI 1, dove si legge che «quest’albero perenne ha le radici in alto e i rami in basso: quello è il Sole luminoso, quello è Brahman, quello è chiamato Immortale, in Lui sono fondati tutti i mondi, al di là di Esso nessuno va».

xix Cfr. Coomaraswami, Il grande brivido cit., p. 448. Templi ipetrali erano anche i santuari sciamanici della tradizione altaica (per cui cfr. U. Holmberg, Der Baum des Lebens, in «Annales Academiae Scientiarum Fennicae», XVI [1922-1923], pp. 28; 30; 142).

xx Cfr. Jaiminiya Upanishad Brahmana I 3, 2.

xxi Cfr. Rigveda-samhita X 82,6; Atharvaveda-samhita X 7, 38.

xxii Cfr. Gen II 9.

xxiii Cfr. Maitri Upanishad VII 11, 8.

xxiv Cfr., ad esempio, Satapatha Brahmana I 3, 3, 9; VI 6, 3, 7; VII 1, 1, 5.

xxv Cfr. G. M. Corrias, Il simbolo dell’asta e il nome di Dio nel XXVI del Paradiso di Dante, in «Monti Prama» 64 (2012), pp. 13-24.

xxvi Cfr. Coomaraswamy, Il grande brivido cit., p. 331 n. 21.

xxvii Cfr. Ibidem.

xxviii Cfr. Ibidem.

xxix Cfr. Jaiminiya Upanishad Brahmana I 3; Satapatha Brahmana VII 1, 2, 1 e 11: «reintegrando il padre Prajapati sì ch’Egli sia tutto intero, lo erige».

xxx Lo attestano numerosi testi vedici, tra i quali, ad esempio, Rigveda-samhita I 164, 19: «Coloro che gli uomini definiscono presenti, gli Dei li definiscono lontani, e quelli che gli uomini chiamano lontani, gli Dei li chiamano presenti»; Baghavad Gita II 69: «Quella che per tutti gli esseri è la notte, per l’Uomo raccolto è tempo di veglia, e quella in cui gli esseri sono svegli è notte per il Saggio che vede».

xxxi Taittiriya samhita VI 6, 4, 2. Cfr anche Satapatha Brahmana V 2, 1, 5: «il sacrificatore alza la testa al di sopra del palo dicendo: “Siamo diventati immortali”». Osserviamo che uno strumento analogo al palo vedico, ossia la “lancia”, è impiegata nel solenne e mistico rito bizantino della Proskomidia, il memoriale del sacrificio incruento di Cristo, durante il quale il pane che sarà consacrato durante la Liturgia è simbolicamente trafitto con la lancia stessa (Cfr. B Katsanevakis, Il Culto Ortodosso, Napoli 1957, pp. 27-35; 97-121).

xxxii Cfr. Satapatha Brahmana IX 5, 1, 58; VII 1, 2, 21; 3, 2, 12-13; VIII 7, 3, 10.

xxxiii Non si può omettere di notare una straordinaria affinità tra la struttura di questa forma simbolica e la morfologia che la croce ha assunto nella tradizione del cristianesimo orientale (), dove appare come un asse verticale attraversato non da una, ma da tre traverse trasversali la superiore delle quali si trova in corrispondenza della testa, quella centrale in corrispondenza del petto (dei polmoni), quella inferiore in corrispondenza dei piedi del Crocifisso.

xxxiv La concezione del soffio come agente divino vivificante è universale ed archetipica: ricorre ad esempio in Genesi II 7, dove Dio, dopo aver plasmato l’uomo, soffia sulle sue narici, trasmettendogli in questo modo la vita; di qui passa nel rituale cristiano del battesimo, che tra gli atti simbolici compiuti dal sacerdote sul catecumeno annovera anche il soffiare sul volto di quest’ultimo, iniziato a nuova vita. Particolarmente interessante appare la corrispondente idea del soffio vitale che attraversa le narici propria della cultura egizia («È soffio di vita nelle narici il vedere i tuoi raggi», recita un inno al dio Sole [cfr. J. H. Breasted, The dawn of conscience, New York – London, 1933, p. 291]), concezione che ha la sua più pertinente traduzione simbolica nel noto geroglifico della croce ansata Ankh (), che significa “vita”, costituito da una croce sormontata da un’occhiello, e di cui non sarà necessario evidenziare la chiara analogia con gli altri simboli assiali presentati nel corso di questo studio. Nei dipinti parietali egizi l’Ankh è sempre raffigurata come attributo delle divinità, che la tengono in mano, al gomito o sul petto, e che spesso, significativamente, la tendono verso il naso del faraone. Cfr. M. Damiano-Appia, Dizionario enciclopedico dell’Antico Egitto, Milano, 1997, s. v. Il simbolo ha goduto di straordinaria longevità, essendo stato assunto nel cristianesimo copto come forma specifica della croce, la cosiddetta “croce copta”.

xxxv Rigveda-samhita I 115, 1.

xxxvi Atharvaveda-samhita X 8, 38.

xxxvii Brhadaranyaka Upanishad III 7, 1-2.

xxxviii Cfr. Jaiminiya Upanishad Brahmana III 8, 9 – III 9, 6; Aitareya Aranyaka II 5; Manavadharmasastra II 169.

xxxix A questo fa riferimento il continuo richiamo all’ “anonimia” dell’iniziato, il cui io è realmente e definitivamente estinto (cfr., ad esempio, Katha Upanishad II 18; Maitri Upanishad VI 30; Jaiminiya Upanishad Brahmana III 14, 1-5), e che ha evidenti paralleli nella dottrina dell’estinzione dell’io presente nella tradizione mistica taoista (cfr. Zhuang-zi §§ 15; 20; 33), in quella islamica (cfr. Rumi, Mathnawi I 3055) e in quella cristiana (cfr. Gv XII 24-25).

xl Le differenti tradizioni insistono variamente sull’essenzialità del possesso delle qualificazioni iniziatiche per il conseguimento della pienezza mistica. Cfr, ad esempio, Plat., Fedro 247b; Phil. Alex., De opificio mundi 71; Mt XVI 24-25.

xli Cfr. Jaiminiya Upanishad Brahmana III 7-9; Satapatha Brahmana III 8, 1, 2; Rumi, Mathnawi VI 744.

xlii Cfr. Ermete Trismegisto, XI 2, 9.

xliii Cfr. Il libro dei morti degli antichi Egizi, a c. di B. Rachewiltz, Roma 1992.

xliv Lc I 78-79

xlv Cfr. Gv X 9.

xlvi Cfr, Mt XIX 23-24.

xlvii Cfr. Rigveda-samhita II 32, 4.

xlviii Cfr. Ibidem.

xlix Cfr. Rumi, Mathnawi I 3055. Testo inglese a cura di E.H Whinfield, leggibile online all’indirizzo http://www.omphaloskepsis.com/Library/masnavi.pdf. (La traduzione italiana è nostra).

l Cfr. Rigveda-samhita X 89, 4.

li Jaiminiya Upanishad Brahmana I 3, 5-6: «È attraverso il mozzo della ruota, il centro del Sole, la fenditura del cielo tutta ricoperta di raggi, che ci si libera completamente».

lii Cfr. Panhini, Ashtadhyayi V 4, 76.

liii Cfr. M. Stevenson, The Rites of the Twice Born, Londra 1920, p. 354 (leggibile online all’indirizzo https://archive.org/details/ritesoftwiceborn00steviala).

liv Verg. Aen. II 512-514.

lv Cfr. Ov. Fast. II 671-672. Cfr. anche Serv. Ad Aen. IV 48.

lvi Maitri Upanishad VI 2.

lvii Katha Upanishad VI 17.

lviii Bradharanyaka Upanishad IV 2, 3; Maitri Upanishad VII 11.

lix Analoga funzione strutturale la mitologia greca attribuisce alla figura di Atlante, figlio di Giapeto e Climene, costretto da Zeus – a quanto dice Esiodo (Teog. 507-531) – a sorreggere l’intera volta celeste. Come «pilastro del Cielo» lo troviamo descritto anche da Omero nel primo libro dell’Odissea.

lx Cfr. S. Gentile – C. Gilly, Marsilio Ficino e il ritorno di Ermete Trismegisto, Firenze 1999, p. 202.

lxi Cfr. Chevalier – Gheerbrant, Dizionario cit., s. v. «Uomo».

lxii R. Guénon, La Grande Triade, Milano 1980, p. 31. Osserviamo che tracce di una simile struttura triadica possono essere rinvenute anche nella “Triade” romana arcaica costituita da Giove (dio celeste per eccellenza), Marte (dio della difesa in armi, terrestre per competenza e per simbolismo), Quirino (dio della società degli uomini, che presiede a tutte le attività funzionali al loro sostentamento): cfr. G. M. Corrias, Dei e religione dell’antica Roma, Cagliari 2015, pp. 27-41.

lxiii Plat., Tim. 44d.

lxiv Cfr. Chevalier – Gheerbrant, Dizionario cit., s. v. «Cranio».

lxv Cfr. la ricca bibliografia fornita da Coomaraswamy, p. 406 n; 490.

lxvi Cfr. B. Katsanevakis, I Sacramenti nella Chiesa Ortodossa, Napoli 1954, p. 105.

lxvii Cfr. Ibidem pp. 241-243.

lxviii Nella forma re’sh il sostantivo è attestato in aramaico, mentre in ebraico biblico troviamo la forma equivalente ro’sh(Cfr. Brown – Driver – Briggs – Gesenius, Theological Word Book of the Old Testament, consultabile online all’indirizzo http://www.biblestudytools.com/lexicons/hebrew/kjv/).

lxix Cfr. Ibidem, s. v. «ro’sh».

lxx L’opera, circolante già a partire dal X sec., esiste in due versioni, una breve, generalmente considerata il libro propriamente detto (anche perché più sfruttata e più nota), e una lunga, talvolta pubblicata in appendice. Tra i due testi sussistono differenze redazionali anche piuttosto significative, che non importa qui esaminare. Cfr. G. Scholem, La Kabbale, Paris 1998, p. 72 e n. 1. Qui si cita la versione breve, consultabile online all’indirizzo http://soued.chez.com/SY%20texte.html.

lxxi Sefer Yetzirah IV 13.

lxxii Cfr. M. Baigent, Il cielo di Babilonia, Milano 2007, pp. 126s; 208.

lxxiii Si noterà che la lettera resh, associata a Saturno, il sesto pianeta, e al sesto giorno della settimana, ha un legame speciale con il numero 6, che nella numerologia ebraica tradizionale corrisponde proprio all’opera della creazione, al Mondo: «[Il numero sei] può essere visto come formato da due ternari, uno dei quali è il riflesso rovesciato dell’altro; ciò è rappresentato dai due triangoli del Sigillo di Salomone, simbolo del Macrocosmo o del Mondo creato» (R. Guénon, Il Demiurgo e altri saggi, Milano 2007, p. 93).

lxxiv Cfr. G. Scholem, La Kabbale, Parigi 1998, pp. 168ss.

lxxv Cfr. G. M. Corrias, Nota sul simbolismo apollineo delle corna (http://monteprama.blogspot.it/2014/01/nota-sul-simbolismo-apollineo-delle.html). Per un’analisi delle attestazioni nelle culture extra-europee della corona si rimanda a Chevalier – Gheerbrant, Dizionario cit., s. v. «Corona».

lxxvi Sefer Yetzirah IV 10.

5 commenti:

  1. Bene, Corrias deve aver letto il mio post e si è fatto coraggio: "Se è passato quello - si sarà detto - perché non questo?".
    E ha ragione da vendere e da distribuire sui tanti che come lui ne hanno trattato, vedi elenco allegato.
    Ora, io non so se Carminati (quello di Mafia Capitale) si sia riferito a qualcuna di queste antiche filosofie per elaborare la sua teoria economicista del "Mondo di mezzo", ma dico che mi è servito leggere questo post per comprenrne i contorni.
    Grazie.

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  2. Difficile da leggere velocemente, occorre pazienza e chiudere la porta agli altri pensieri; per questo probabilmente, è difficile da commentare questo articolo. Si entra in un mondo tutto nuovo per noi materialisti, un mondo invece antichissimo evolutosi nei millenni, difficile da concepire e da studiare con la dovuta serenità mentale. Questo è necessario fare per arrivare a quelle antiche menti; occorre entrare con serenità mentale in sintonia con quei meccanismi per capirli fino in fondo, benché arduo anzi, quasi impossibile nella sua interezza.
    Fin quando un albero è solo un albero, un albero rovesciato desta solo stupita sorpresa, un asse con due ruote serve solo a trasportare materia, di un foro apprezziamo solo quello che gli sta attorno e di un foro simile posto nel tetto troviamo solo la sua efficacia materiale di evacuare fumi e far entrare luce per i nostri occhi, non riusciremo a capire i sentimenti di quelle genti, così come non riusciremo a capire perché il reš è tanto importante.
    Il reš è il “principio”,tanto che la prima parola del Genesi, che non a caso in questo articolo è stata inserita in bella mostra, recita proprio “be reš ith”, “In principio”. Principio che in italiano ha la stessa radice di “principe”, ossia colui che sta a capo; “principale, primo, preannunciare, precostituire, preconcetto, premonizione, ma anche prestare.
    Lettera il reš che si vocalizza assieme allo šin, che lo segue immediatamente nell’elencazione alfabetica; šin che ha il significato di “dente”. Testa e dente, ma i denti sono, nella bocca, la porta che apre o chiude l’accesso alla testa, sarà per questo che in semitico «š‛r» significa «porta»? (Solo elucubrazione la mia… forse).

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    1. Sull'incipit della Genesi la letteratura cabalistica ha esercitato gran parte delle sue elucubrazioni, e non a caso. Certo è che in tutte le culture arcaiche - come spero sia facile evincere dal mio studio - la testa occupa un ruolo simbolico davvero straordinario. Chiedeva qualcuno commentando una parte (mi pare la seconda) del saggio di Pilloni, come sia possibile che alcuni miti si ritrovino praticamente identici in culture che con tutta evidenza non potevano avere alcun contatto materiale: forse, a questo riguardo, il mito della torre di Babele ha ancora tanto da insegnarci.

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    2. Una risposta molto convincente a questa domanda l'hanno data De Santillana e Von Dechend ne " Il Mulino di Amleto", un'opera che ha mutato radicalmente e una volta per tutte l'idea di mito, della struttra del tempo, del pensiero arcaico.
      Il mito come scienza esatta, di natura astronomica e cosmologica.
      Come codificazione,innanzitutto, della precessione degli equinozi.
      De Santillana:
      "Questo libro riflette la convinzione sempre più profonda che, innanzitutto, a questi nostri padri è
      dovuto onore. I primi capitoli saranno, credo, di facile lettura. Poi, come ci lasceremo alle spalle il limite
      estremo della vegetazione, il lettore si troverà a poco a poco assediato da difficoltà non imputabili a
      noi: sono le difficoltà inerenti a una scienza che fu fondamentalmente tenuta segreta, e in modi tali che
      noi non riusciamo bene a immaginare. Ma la difficoltà maggiore deriva dal fatto che non abbiamo potuto
      far uso della nostra tradizionale logica catenaria, così semplice e onesta, in cui prima si pongono i
      princìpi e poi segue la deduzione. Non così facevano i pensatori arcaici; essi pensavano invece in un
      modo paragonabile forse alla fuga musicale, dove tutte le note non possono esser costrette entro
      un'unica scala melodica, dove si viene tuffati in medias res e si deve seguire l'ordine temporale creato
      dai loro pensieri. È nella natura della musica, dopotutto, che le note non possano essere suonate tutte
      assieme. L'ordine e la sequenza, il significato stesso della composizione, si riveleranno - con la pazienza
      - a tempo debito. Il lettore, suggerirei, dovrà porsi nell'antico «Ordine del Tempo».
      Nel Troilo e Cressida la medesima idea viene espressa con un'immagine diversa: «Chi vuole aver
      focaccia dal frumento, deve aspettare con pazienza la macinatura".

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  3. "A questi nostri padri è dovuto onore", sì. A questi padri la cui logica contrappuntistica parte sempre dai principi, o dal Principio, e da essi si snoda, per li rami, fino alla manifestazione.
    Grazie per la segnalazione bibliografica.

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