vedi anche parte II
FOTO 1, Mauro Manca, Coppia a cavallo, 1960-62 |
Era
il 1949 quando nell'Ala Napoleonica delle Procuratie Nuove in Piazza
San Marco a Venezia, veniva inaugurata la mostra sulla civiltà
nuragica presentata da Giovanni Lilliu per il quale “uscito dal
buio secolare del proprio spazio, quel segno locale, proprio perché
locale ma pervaso di universale, riuscì a conquistare l'area della
critica internazionale”.
L'Accademico dei Lincei lo ricordava in un articolo del 1975 dedicato alla memoria di Ranuccio Bianchi Bandinelli da poco scomparso, ritenendo l'esposizione di “quelle sculture 'oscene' e 'sciamaniche' (...) il primo e forse unico vero successo della nostra cultura 'altra' (ossia della sardità)” (1)
In quella stessa occasione rievocava un articolo del
1946 dal titolo “Sardegna:
isola anticlassica” (2) nel quale - passando per “persona da
psicoanalizzare” - introduceva il concetto di barbarico (o anticlassico) come costante dell'arte sarda,
rovesciando in positivo il significato che ne aveva dato Winkelmann
nel XVIII secolo.
Così
facendo la produzione artistica sarda (non solo nuragica) veniva inserita in quel lungo dibattito
che interessò il Novecento e che tentava di comporre la storiografia
artistica in coppie di concetti antitetici. Tra queste, quella del
von Schlosser contrapponeva al cubismo o antinaturalismo del mondo barbarico, quella organicista e naturalistica del mondo 'classico'.
L'archeologo così si esprimeva:
“Chi si fa a considerare la civiltà della Sardegna, facendo uso delle antinomie del “classico” e del “barbarico”, non ha da sforzarsi grandemente per inquadrare le sue espressioni figurative nella seconda (…) E davvero non vi è altra terra da noi dove la nota del barbarico risuoni più distinta che in questa landa isolata, la più antica del resto (…) Qui il divenire del tempo sta contro la fissità dell'origine; qui vi è quasi una sorta di terrore religioso della perfettibilità; qui una rude forza ancestrale sembra debba imprimere in tutto il suggello dell'essenziale senza contorni (…) Certo nell'assenza, in genere, di questa sollecitazione amorosa verso il perfetto sta un motivo della deficienza di grandi “creatori” nell'Isola, ed anche del suo arretramento culturale rispetto ad altre regioni del “classico”; ma, d'altro lato, in codesta essenziale soddisfazione delle piccole cose, senza aspri tormenti, è uno dei suoi tratti più suggestivi: la freschezza primordiale caratteristica di ogni mondo barbarico” (il grassetto è mio, ndr).
Nel
corso della sua vita - specie a seguire dalle scoperte del
sito di Monte Prama – Lilliu ebbe modo di ridimensionare, se non
correggere, alcune di queste affermazioni, ma l'impalcatura nel
rapporto tra classico e anticlassico restò in piedi, coerentemente con il
paradigma della “costante resistenziale sarda” dove quel barbarico (che poi sta per straniero) risuonava accanto alla Barbagia, riserva di quella resistenza.
FOTO 3: Giuseppe Biasi, Grande festa campestre (1910-11) olio su tela, cm 102 x 236 coll. Regione Sardegna |
Tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento la 'cultura sarda' veniva rappresentata dagli artisti sardi secondo i dettami del Primitivismo, una concezione artistica diffusa in tutta Europa. Mi pare utile citarne alcuni tra i più rappresentativi: Giuseppe Biasi - la cui opera sarebbe riduttivo e inesatto etichettare come folklorica - mise la
Sardegna al centro del proprio lavoro, come se avesse il compito di
costruire una nuova identità per la sua terra.
Particolare
attenzione merita Francesco Ciusa che con un linguaggio quasi rinascimentale, fu però capace di proiettare i riti comunitari della quotidianità su un piano simbolico, quasi mitico. A
differenza di Biasi e Ciusa, Filippo Figari che già nel 1924 aveva
intitolato un articolo su Il nuraghe: “La civiltà di un popolo
barbaro”, sembra piuttosto orientarsi su una visione eroica
della Sardegna, celebrativa e retorica.
FOTO 4: Francesco Ciusa, La Madre dell'Ucciso (1906-07), cm 81,5 x 72,5 Cagliari, Galleria Comunale d'Arte (da http://www.comune.cagliari.it) |
FOTO 5: Filippo Figari, All'antica capitale della forte Sardegna (1916-24), Palazzo Civico, Salone del Consiglio, Cagliari (da http://www.comunecagliarinews.it/) |
E
fuori dal coro, al grido di “qui tutto è folklore, qui tutto è
paesano / dal mondo civile alfin son lontano”, l'opera del poco conosciuto Tarquinio Sini con la
sua lunga serie di Contrasti, contrapponeva
la modernità cittadina con le usanze e i costumi della Sardegna 'tradizionale', amplificando la distanza tra due mondi apparentemente inconciliabili.
Seppure vi sia differenza tra l'opera degli artisti sardi del primo Novecento, il tratto che parrebbe accomunarli è nelle parole di Lilliu, dove la fissità dell'origine sembra eloquente quanto la rappresentazione di una terra fuori dalla storia e dove il tempo non sembra essere mai trascorso.
FOTO 6: Tarquinio Sini, Purosangue Sardegnolo (1928-30) |
Ma
la classificazione del Lilliu arrivava in un periodo storico particolare e cioè quando “dalle rovine gigantesche della città
(Cagliari) veniva la denunzia dell'eccidio delle bombe americane del
'43” (3).
E' questo un dato storico che richiede particolare attenzione se si considera che il riuso del
'classico' adottato dai regimi totalitari tra le due guerre, Italia e Germania in
primis, con le sue tensioni verso l'Autentico, veniva impiegato come “strumento di fascinazione e di arcaismo
mitico...che dovrebbe guarire la modernità dai suoi guasti” ma
anche “luogo di ordine inalterabile, che si oppone al movimento
caotico della modernità e della storia in generale” (4).
Proposta come matrice di un 'nuovo ordine futuro', con tutta la sua
retorica monumentale, l'architettura di Albert Speer per il suo
Fuhrer fu concepita per un regime 'millenario', pur
prevedendo sin dalla fase progettuale il suo futuro riunenwert,
il 'valore di rovina' che avrebbe avuto alla fine dei
tempi. (5)
Negli anni Quaranta Costantino
Nivola è emigrato con la moglie di origini ebraiche Ruth Guggenheim al Greenwich Village, il quartiere 'europeo' di
New York, centro della diaspora antifascista dopo l'occupazione di
Parigi.
Fu nel
1946 che Nivola conobbe l'architetto svizzero Le Corbusier che si
trovava negli Stati Uniti come delegato francese per il progetto del
Quartier Generale delle Nazioni Unite.
FOTO 7: Costantino Nivola, Totem (1950 ca.) http://www.museonivola.it/ |
Un incontro che segnerà una svolta nel percorso artistico di Nivola che tra il 1948 e il 1949, sperimenterà la tecnica del Sand Casting, che farà propria Le Corbusier stesso.
Nella
prima mostra personale alla Galleria Tibor de Nagy con il titolo
“Totem” presentava alcune “figure
femminili astratte, frontali, ieratiche, proprio come gli idoli
rituali, le “grandi madri” della statuaria pre-classica
mediterranea con seni conici e ventri gonfi”, realizzate con questa tecnica. (6)
Così
facendo interpretava gli idoli della cultura neolitica mediterranea e in particolare quelli ritrovati in Sardegna durante la campagna
archeologica degli anni '40 noti attraverso pubblicazioni ed
esposizioni.
Ruolo
chiave in questa diffusione internazionale delle ricerche sulle
culture del Mediterraneo pre-classico ebbero le edizioni dei “Cahiers
d'Art” diretti da Christian Zervos, storico dell'arte “primitiva”
e contemporanea, allievo, maggior biografo e critico di Picasso e dei
cubisti.
Non
sfugga qui la relazione tra l'arte “primitiva” e il Cubismo,
che ho indicato tra le coppie
antinomiche nella composizione della storiografia artistica.
FOTO 8: Venere neolitica di Senorbì |
Lo
stesso Zervos pubblicò gli studi sulla Sardegna Nuragica nel 1954 in
una pubblicazione dei Cahier d'Art dal titolo
'La civilisation de la Sardaigne: du début de l'enéolithique a la
fin de la pèriode nuragique: IIe millenaire, Ve siecle a.C.'”
Come
afferma Maddalena Mameli in un bellissimo testo sul rapporto tra Le
Corbusier e Costantino Nivola “questo
approccio ha un legame diretto con le ricerche artistiche sull'arte
primitiva ma deve essere considerata in rapporto al contesto
americano e alle ricerche di un linguaggio figurativo di valore
universale, pre-istorico in quanto meta-storico, ossia il linguaggio
dell'Astrazione. Le prime avanguardie artistiche, il Fauvismo,
l'Espressionismo europeo e il Cubismo, avevano glorificato la forza
dell'arte primitiva perché coltivavano l'idea che realizzasse la
sintesi di percezione ed espressione attraverso gestualità istintive
e semplificazioni formali. Una forza espressiva che non applica
modelli formali e visivi ma che è esperienza vissuta: gesto, segno,
colore”.
La
barbarie nazista per gli esuli europei, ed anche gli eventi di
Hiroshima per gli artisti americani, costituiscono ora il terreno per
un ripensamento radicale dei valori 'universali' di una umanità-affatto-umana che si era 'distinta' per quegli eventi tragici:
“Se
da una parte le pratiche artistiche surrealiste 'riscoprono le
possibilità mitiche del quotidiano' facendo riferimento alle
teorie freudiane che indagano l'inconscio individuale nella
dimensione onirica, gli artisti americani attingono dalla teoria
junghiana degli archetipi i temi universali dell'”inconscio
collettivo (…) Il senso di terrore e impotenza
di fronte al male e alla violenza incontrollata, nati nei climi di
guerra, delle armi di distruzione di massa e dei totalitarismi,
spinge a ricercare nuovi valori universali condivisi
“ (7)
Così
l'Espressionismo Astratto (la Scuola di New York) prima di approdare
all'Arte Informale e al dissolvimento della forma in senso
anti-figurativo, aveva indagato proprio il “primitivismo” e in
particolar modo la relazione con il mito (Mytmakers), che per
Nivola, approdato in quel contesto, era già realtà antropologica vissuta.(8)
In
quella ricerca degli artisti europei e americani di nuovi valori
universali condivisi, Nivola (ri)scopre dunque una
'mitologia privata' ora universalizzante,
il paesaggio mitico-figurale del mondo arcaico del Mediterraneo e
delle origini della cultura occidentale (…) Le figure primitive
protagoniste della plastica nivoliana sono la “dea madre” e il
guerriero nuragico che diventa progressivamente 'il costruttore'”. (9)
Da questi pochi cenni penso possa risultare il peso delle vicende storiche e artistiche del Novecento sul modo in cui si è letta (tutta) l'arte
pre-classica, considerata necessariamente primitiva ma con
accezione positiva, perché intesa come deposito di nuovi valori universali. Ma con questa riscoperta del passato antico succedeva che gli artisti e gli storici del Novecento, consideravano il materiale archeologico alla stregua di una materia prima allo stato grezzo.
Anche l'arte nuragica (e non solo) appariva come qualcosa di non finito, non maturo e non compiuto, come qualcosa di ancora “perfettibile”.
Immagino che sia anche a causa di questo sguardo che per quasi tutto il Novecento non è sembrata affatto necessaria la narrazione di un divenire storico sardo, preferendovi la costante fissità dell'origine. Ancora oggi, almeno nell'ambito
della storiografia artistica, l'arte sarda antica sembra intrappolata dentro quei paradigmi, in un
continuo rimbalzo tra ciò che è “indigeno” e ciò che è
“forestiero”, fino all'assurdo di riconoscere in ogni mutamento
della forma e della rappresentazione artistica la presenza di un
“maestro civilizzatore” proveniente dall'esterno e talvolta persino frainteso.
Se
il primo Novecento aveva scoperto (ma direi 'progettato') una Sardegna ancora primitiva dentro una dimensione esotica e folkloristica - letta con uno sguardo che si potrebbe definire 'etnografico' - sarà in
età post-bellica che vi si sommerà uno sguardo 'archeologico' che
finirà per introdurre, come farà Lilliu, la dialettica con ciò che può considerarsi 'classico'.
FOTO 11. Costantino Nivola, La madre sarda e la speranza del figlio meraviglioso, 1986 (da http://www.museonivola.it) |
L'arte
di Nivola, con il suo continuo dialogare tra il materiale
archeologico-antropologico e le esperienze artistiche e storiche
della sua contemporaneità (tra mitologia privata e mitologia
collettiva si potrebbe dire) contribuisce a distruggere quell'idea, storicamente falsa, di un'arte incapace di sollecitazione amorosa
verso il perfetto, motivo della deficienza di grandi “creatori”
nell'Isola, ed anche del suo arretramento culturale rispetto ad altre
regioni del “classico”.
E
qui non voglio affatto riconoscere in Nivola il primo di
questi grandi creatori. Intendo dire che la sua opera è stata capace di considerare quel materiale
come un deposito di frammenti con una invincibile necessità, il germe
di “qualcosa che vale più di un significato, la spinta ossessiva
ad essere completato” (Paul Valery).
Ma
non si dimentichi in questo contesto l'opera di Mauro Manca, che
soprattutto a partire dagli anni '50 e dopo una lunga sperimentazione
dei linguaggi delle Avanguardie e dell'Espressionismo, approdò nelle pieghe del mito. Ed è con le parole di Gianni Murtas che posso tornare all'evento con il quale ho iniziato questo post: “l'origine di un tale
interesse nel pittore è da ricercare nella mostra d'arte sarda che
nel 1949 vede i due fronti della cultura isolana, archeologico e
contemporaneo, confrontarsi a Venezia, presso l'Opera Bevilacqua la
Masa. I reperti archeologici dell'Era Nuragica, che colpiscono anche
Melkiorre e Federico Melis, entrano di prepotenza nella vita di
Manca, che ne raccoglie la severità espressiva e l'estrema sintesi
formale”. (10)
Sarò semplicista,per me arte è emozione e "La madre dell'ucciso"Coppia a cavallo" " Festa campestre" sono opere che creano grande emozione.A Nuoro,in una vecchissima chiesa,vicino a dove abitava Francesco Ciusa, ho visto forse una copia della "Madre dell'ucciso"Con queste opere si vede la grandezza dei pittori e scultori sardi.
RispondiEliminaRicorda bene cara Grazia, una copia in bronzo é all'interno della Chiesa. L'originale si trova a Cagliari, mentre un'altra copia in gesso si trova ancora a Nuoro al Museo Tribu nell'ala permanente dedicata a Ciusa. Soprattutto qui l'allestimento di quest'opera è molto bello e significativo!
RispondiEliminaHo dimenticato di dire che la chiesetta è quella di Santu Caralu.
EliminaGrazie della precisazione signor Ledda.Mi è rimasta impressa nella mente questa copia in bronzo e mi è piaciuta tanto anche la semplicità di questa vecchia chiesa.Menomale che,ogni tanto,si salvano le vecchie e povere architetture sarde.Pur andando fuori tema,mi viene in mente la lotta che faceva Gianfranco per non distruggere le piccole case,come memoria storica della Sardegna.Il problema resta sempre lo stesso:la scarsa fiducia che hanno i sardi verso le nostre ricchezze(anche se povere).Scusate la digressione.
RispondiEliminaHai perfettamente ragione quando scrivi che si arriva all'assurdo di presupporre un maestro che arriva dall'esterno ogni qual volta si assiste ad un qualche segno di naturale dinamismo ed evoluzione nella cultura nuragica. Quasi che i nuragici fossero fatti di pietra
RispondiEliminaIl prof. Placido Cherchi, allievo e continuatore principale dell'opera di Ernesto De Martino, una ventina d'anni or sono tenne una relazione sui Sardi e l'arte, dove fece notare che da noi si censiscono una quantità di pittori, ma anche scultori e poeti, sette volte maggiore che in ogni altra regione italiana.
RispondiEliminaSpiegò la singolare quanto antica inclinazione per l'espressione artistica dei Sardi come l'unico settore della vita sociale che non sia sottoposto al controllo della comunità, dato che il nostro popolo "pensa" risolutamente in modo preminente con l'emisfero destro del cervello, quello in cui prevalgono l'opportunità e la necessità dell'azione in rapporto alle preponderanti esigenze che impongono le forze naturali. Si tratta cioè dell'abitudine al "dovere e dover fare e dover essere", così come si rispecchia anche dalla parlata popolare in lingua sarda, spesso riprodotta anche in lingua italiana.
Libertà dunque esclusivamente nell'espressione artistica che, a stare agli esempi di produzione antica e moderna, non è affatto "infantile" nel senso che riproduce la realtà così come la si osserva, ma molto complessa, piena di simboli e astrazioni che la privano dei caratteri più esteriori e appariscenti, semplificando in modo feroce e a volte grottesco il processo creativo.
Portava come esempi le incisioni delle cassapanche, i disegni dei tappetti tradizionali, i bronzetti nuragici, i menhir sparsi per tutte le campagne sarde.
Parlò dell'esperienza di tre allievi sardi ammessi all'Accademia di Brera, fra i quali appunto Nivola, i quali, di fronte alle tendenze della pittura dell'epoca, il Cubismo, l'Astrattismo e il Surrealismo, non ebbero alcuna difficoltà a intenderne le ragioni di base in quanto erano già intimamente abituati a comprendere le astrazioni che il cervello umano fa della realtà sensibile.
Ecco che, pur parlando apparentemente dei pittori della domenica di oggi, da lì partì il suo discorso, dava un giudizio ragionato sulle manifestazioni artistiche popolari e tradizionali, oltre che a quelle storiche o preistoriche che fossero. Ciò che si collega e rafforza quanto benissimo hai detto tu, Angelo, di cui apprezzo pienamente l'impegno e la bravura, oltre il coraggio di addentrarti in terreni disertati da chi da più tempo profetizza dal pulpito.
Per inciso, l'artista preferito da Placido Cherchi era Paul Klee e non si dava ragione perché non riuscisse ad entusiamarmi l'opera del pittore tedesco, mentre io non capivo come avesse fatto lui a infatuarsi della produzione artistica di Klee.
Questo per dire su che piani diversi abbiamo vissuto la realtà che sino a ieri era più o meno comune.
Già, la 'severità' espressiva. Ma tutto era severo con l'avvento dell'ideologia nuragica. Severi i nuraghi, severe le tombe dei Giganti, severi gli oggetti, severa la scrittura, severa la scultura (basta vedere quella di Giganti). Severo tutto tutto. E il severo non può dare come esito se non l'essenziale. Questo però non è mai il banale, il semplicistico ma tutto il contrario. E' il pregnante, il complesso, il sintetico che lascia ampio campo all'analisi più raffinata che trova però un limite nel fantastico, nell'imaginario, nell'ineffabile, nel mistero. Una Tanit non è un segno: è tutto un mondo. E così un nuraghe, un bronzetto, una statua, un pozzo sacro, uno spillone scritto, il corpo di un faraone sardo inumato con tutta l'immensa severità ed essenzialità. Fanno sorridere se non ridere i tentativi 'razionalistici' degli studiosi di spiegare e descrivere, tentativi che spesso non intaccano neppure la superficie dei significanti del tutto ingannevoli. Basta leggere il libro del Lilliu sui bronzetti, la descrizione minuziosa ma in fondo del tutto epidermica di essi, per capire l'assurdità dello spiegare con strumenti critici inadeguati e con metodologia del tutto arbitraria.
RispondiEliminaIl Severo e l’essenziale. Gardando il costume tradizionale di Cabras ritroviamo l’essenzialità appunto e non da stupore il piede scalzo abbinato al vestito della festa.
RispondiEliminaGrazie caro Francu: Placido Cherchi sintetizzava questo pensiero anche dicendo che il sardo è "fungudu", nel senso di 'profondo' (ma saprà lei meglio di me tradurre questo termine). Perché è evidente che solo chi è fungudu può essere capace di quella "astrazione", di quel trarsi fuori dalla realtà sensibile, come dice lei, per esplorare, con inquieta ricerca, affatto immobile (ecco perchè contesto profondamente questa “fissità dell'origine”). E tutto ciò si ritrova anche in quella che Placido Cherchi chiamava "condizionalità doverosa" (il "diat essere" presente nella parlata sarda) che rendeva tutto (il sardo compreso) un problematico. L'astrazione non è cosa semplice, è molto più di quanto appare, è un percorso di erosione e per tanto richiede radicalità e profondità appunto. Il 30 maggio ho provato a far cenno (e ne vorrò riparlare su queste pagine per chi avrà piacere di leggere) che questa inclinazione all'astrazione è per me molto più "funguda" di quello che una certa parte dell'arte moderna e contemporanea ha teorizzato con l'astrattismo (e Klee però questo lo aveva colto): è una idea di astrazione che non ha come fine, necessariamente o soltanto, il dissolvimento della forma (che inevitabilmente porta al 'suicidio') ma per me è esattamente il contrario..., un saper scegliere e un saper collocare, un saper "tenere tutto insieme" (ossessione simbolica), produrre il massimo di "forma", dare vita a quella giusta. E' difatti come afferma Gigi Sanna dietro un segno a Tanit c'è un "mondo".
RispondiEliminaEd ecco che guardando per esempio al nuragico, ma secondo me anche al romanico e nelle chiese paleocristiane sarde, non mi pare di cogliere un "cogito ergo sum", il “penso, dunque sono”, ma piuttosto il "faccio, dunque sono". E' necessario procedere, erodendo e andando in profondità, togliendo e asciugando perchè possa rimanere in piedi solo ciò che è "essenziale", al prezzo di austerità e severità, nessun fronzolo, nessun elemento applicato, nessun apparato meramente ornamentale, come anche Sandro ha ribadito.
Ma è anche un comporre insieme, anzi fondere o per meglio dire “condere” per trovare una sintesi, tra cose apparentemente distanti e apparentemente incomunicabili che nella vita comune apparirebbero surreali o irreali, al prezzo stavolta di un risultato grottesco.
E' curioso, spero si sia potuto cogliere, che quanto più gli artisti sardi immortalavano una Sardegna “fissa nell'origine”, immobile, incontaminata, pura (almeno all'inizio del Novecento), tanto più era invece dentro le dinamiche della storia europea e americana del Novecento.
E come può essere “fissa” e statica - come fosse fatta di pietra per tornare a quanto diceva Aba - una ricerca che va in profondità, che erode e che compone ossessivamente? Quanta inquietudine (e quindi dinamismo, spesso tormentato) c'è?
Quel dinamismo che, se il Porf. Sanna ha ragione e io so che ha ragione, ritroviamo prepotente nelle iscrizioni nuragiche, che nella loro allucinata ripetizione delle invocazioni alla divinità, sono sempre nella perfetta rivoluzione del rebus scrittorio. Ecco, lì dove tutto a prima vista pare immutato e immutabile, ritroviamo invece le due facce della stessa medaglia: da una parte l’immutato e l’immutabile appunto, riferito alla divinità, che era-è-sarà; dall’altra l’uomo che cerca di ingraziarsi in tutti i modi gli infiniti aspetti della divinità stessa, con infiniti rebus scrittorî, tanto che con pochi grafemi (sempre gli stessi), usati nella universalità dell’uso scrittorio conosciuto (son convinto che se avessero appreso la scrittura cinese, avrebbero scritto usando anche quella) ed un unico grande tema di carattere divino, hanno escogitato una miriade di espedienti scrittori, sempre uguali, sempre diversi.
RispondiEliminaL'ipotesi e il ragionamento che continuamente provo a fare Sandro, sulla base di quanto emerge dalla scrittura (emersa con Gigi Sanna) ma anche dal mondo egizio (e quanto ci dice continuamente Aba), è che non servisse tanto a ingraziare la divinità, o almeno non soltanto, ma che questa "arte" a tutto campo servisse a renderla (solo) presente, e in effetti questo vuol dire 'rappresentare', perchè forse il divino era da loro inteso come un qualcosa che non aveva forma "sensibile" e che non si poteva 'toccare' (luce-vita?) e che al massimo poteva essere evocato, reso manifesto e rappresentato mediante i suoi attributi (taurinicità, corona cornuta e raggiante, androginia, ...?) e i suoi intercessori terreni. Un'arte pertanto che sperimentava continuamente, pur con le sue variazioni, tutti gli "escamotage" possibili per dargli una "forma"...
EliminaHai ragione, ho usato un termine inappropriato; ora riflettendo su questo concetto, penso che per quelle genti non fosse necessario ingraziarsi la divinità, perché nel loro modo di intenderla, nulla portava al dover chiedere scusa a quel dio per qualche offesa fatta o cercarlo pensandolo lontano. E’ un dio sempre presente, appunto,che aiuta tutti e che ognuno evoca per le sue prerogative: y, h, yh, yhh, yhw, yhw.h.
EliminaQuando ho detto che quei quattro versi in lingua nuragica della canzone degli Istendales riportavano indietro la figura di quel popolo che mirava e ammirava la sua divinità senza secondi fini, intendevo qualcosa che Angelo ha specificato meglio di quanto io non riesca, nel senso che quegli uomini cercavano non solo di penetrare il mistero del divino, ma provavano a viverlo, a parteciparvi con uno sforzo che riusciva a fare di essi degli uomini saggi o, per dirla con Placido, fungudus.
RispondiEliminaCertamente io ho riassunto male, da cattivo allievo tostorrudu come sono sempre stato, e in parole povere ciò che il Maestro voleva farci intendere. Per questo, a tutto questo ragionamento, di mio aggiungo una considerazione che viene da lontano, che uno legge una volta e la conserva gelosamente in un cassetto insieme a una biglia colorata degli anni )Cinquanta: uno scrittore antico parlò degli abitatori della Sardegna come di uomini "estremamente benvoluti dal loro dio", e a ragione di ciò non solo vivevano felici nella prosperità, ma lo facevano anche a lungo, superando il secolo di vita. Quello scrittore, e non chiedetemi chi sia, lo faceva con genuina meraviglia e curiosità, perché avrebbe voluto saperne di più, per comprendere perché mai avessero innalzato innumerevoli templi in onore del loro dio.
Sarebbe ora di dirlo, se qualcuno lo sa.
Prima che sia troppo tardi e arrivino gli Illuminati.
Che scrittore?
EliminaHo detto di non chiedermelo.
EliminaHo troppa indulgenza per i peccatori, ma non dimentico i peccati.
Almeno dicci quanto antico. Dai.
EliminaDa Erodoto in qua. Sono letture di cinquant'anni fa, quando aspettavo gli allievi delle scuole popolari di Morgongiori e intanto leggevo Le Storie e tutto quanto trovavo nella biblioteca scolastica.
EliminaLeggevo per pura curiosità, allora non si avevano tanti riscontri da cercare.
Pensa che in quegli anni ho letto la Bibbia tre volte, di cui una tutto in latino. Erano lunghi i pomeriggi d'estate nei paesi!
Nella pagina FB di Monte Prama Blog è stato postato questi stessi giorni un bel post di Atropa che non ricordavo e che contiene e precede molte delle cose che ho scritto (e inizia anch'esso con la data della mostra di Venezia).
RispondiEliminaRimando al link: http://monteprama.blogspot.it/2014/06/il-primo-bronzetto-di-e-borowski-e-le.html