mercoledì 8 febbraio 2017

SCRITTURA METAGRAFICA DEI SARCOFAGHI ETRUSCHI. LE VARIANTI IDEOGRAMMATICHE. FANTASIA E ORGANICITA'

di Gigi Sanna 


    Fig. 1                                          Fig2.                                     Fig. 3                                                Fig.4

Fig. 5

Figgs. 1. Scrittura  egiziana  2. Scrittura greca pitica  3. Scrittura nuragica. 4. Scrittura maya. 5. Scrittura etrusca 

Si  dice che la lingua etrusca è ancora, per svariati motivi, un enigma e un 'rebus'. Ciò si sostiene, naturalmente, sulla base delle grosse difficoltà che insorgono nel cercare di capire di essa molti degli aspetti lessicali, morfologici e sintattici. In realtà, a mio parere, il 'rebus' sussiste e resiste nel tempo non 'solo' per motivi di carattere grammaticale e linguistico, ma anche e soprattutto perché si stenta a considerare un aspetto essenziale dell'etrusco: che la scrittura è criptica, cioè organizzata e strutturata di proposito con il rebus. E' realizzata per non essere capita se non da pochissimi.  Pertanto nella misura in cui si comprenderanno i meccanismi, spesso sofisticati, del rebus, posti di norma in essere dalle scuole scribali dei santuari, si comprenderà la lingua etrusca scritta. Essi sono simili e spesso gli stessi usati dagli scribi dei templi greci e nuragici. In particolare quelli inventati dagli scribi di  questi ultimi.

1. Preambolo. Decorazione o segni di scrittura? La solita storia.   

 Chi non sa, nella lunga storia della scrittura, la vicenda di studioso di  J.F. Champollion (1790 -1832)? Quanto dovette insistere ed insistere per far comprendere ed infine accettare dal mondo ‘scientifico’ (quello ancora influenzato da incredibili ma osannati elucubratori come il padre gesuita tedesco Athanasius Kircher)  che i glifi egiziani, quelli che a migliaia si trovavano in Egitto nelle tombe e nei monumenti  non costituivano semplici simboli o decorazioni ma scrittura? Dovette lottare adducendo prove su prove prima che accademie, storici dell'arte ed epigrafisti blasonati, si decidessero ad ammettere che i segni pittografici che riguardavano i cartigli di Cleopatra e Tolomeo (1) avevano valore fonetico e che, se quei segni venivano usati alfabeticamente per notare i nomi dei due sovrani, voleva significare che tutte le scritte erano leggibili in quanto estensibili alla lingua egiziana, alla sua fonetica, alla sua grammatica e alla sua sintassi. Oggi parlare di scrittura ‘egiziana’ è un fatto normale;  l’egittologia non solo come archeologia ma anche e soprattutto come ‘epigrafia’ è un dato indiscutibile e costituisce un ramo ben preciso della scienza storica del passato. Non bisogna però dimenticare che appena due secoli fa l’egittologia era solo curiosità di antichisti e affari per mercanti di tutto il mondo.
   
E chi non conosce ancora  la vicenda tutta umana, oltre che di studioso,  del russo Y. V. Knosorov (1922 -1999)  che per alcuni decenni del secolo scorso (1950 -1970), con prove alla mano,  invitò il mondo accademico a riflettere sul dato scientifico che le ‘sculture’ della cultura Maya non erano simboli indecifrabili ma un vero e proprio sistema di scrittura? Per anni e anni furono aspra opposizione e secca negazione, per anni fioccarono anatemi di presuntuosi e di saccenti di tutto il mondo, soprattutto di archeologi non epigrafisti e neppure linguisti (2). Qualcuno parlò con supponenza non di scienza ma di bufale e di ‘stupidaggini’ belle e buone. Oggi però, parlare di scrittura e di simboli fonetici maya organizzati in codice per produrre suoni, grammatica, sintassi e quindi lingua, non fa più scandalo. Tanto che ora tutte le Università che si interessano di ‘system’ di scrittura studiano e fanno studiare agli alunni di tutto il mondo il particolarissimo  (e bellissimo) sistema di scrittura ‘ a rebus’ (3) delle antiche popolazione dell’America centrale.

    Dunque, nella storia della scrittura si assiste a qualcosa di costante e di ripetitivo: il mondo scientifico mostra la ‘normale’ tendenza a respingere, sulle prime,  il fenomeno d’immagine o iconografico che non comprende, a negarlo decisamente come dato di scrittura. Le immagini sono immagini, possono rientrare anche nella categoria dei simboli ma è impossibile che possano costituire, magari insieme ad altre immagini ancora, un sistema di regole che hanno lo scopo di organizzare catene di significanti fonetici esprimenti una determinata lingua. 
    Si capisce  che, anche ai livelli più alti dell’alfabetizzazione,  all’origine della negazione c’è il pregiudizio della norma, della chiara evidenza o ‘visibilità’, per la quale solo gli alfabeti (fenicio, ugaritico, aramaico, greco, latino, ecc.), cioè un certo numero di segni in sequenza, più o meno schematici, sempre quelli e non altri, costituiscono 'scrittura'. L’abitudine della tradizione data dalla ‘scuola’  è tale che anche il meno ‘alfabetizzato’, vale a dire chi conosce le ‘sue’ sole lettere dell’alfabeto strumentale, sa ‘riconoscere’ (o pensa di riconoscere) ciò che è scrittura e ciò che non lo è. Eppure nella nostra esperienza quasi quotidiana ci è dato di constatare che, anche chi riconosce il suo codice e, per analogia e somiglianza, quelli altrui, paradossalmente  ‘intuisce’,  di fronte a dei ‘segni’ chiaramente non accidentali (tipico è il caso della cospicua documentazione sarda del segni ‘astiformi’ accompagnati o non da una certa puntuazione) che anche in quei segni misteriosi, non ‘decifrabili’,  possa nascondersi una qualche manifestazione di ‘scrittura’. In altre parole, le persone riconoscono come ‘scrittura’, anche se non la decifrano, i segni notanti intenzione ‘comunicativa’, suono e quindi linguaggio. Ciò però accade se i segni insistono su di un supporto, su di una superficie più o meno piana e adatta allo scopo del ‘grafein’ (disegnare incidendo e riportare  ‘segni’). Tre o quattro  lettere schematiche in sequenza costituiscono una qualche scrittura, ma anche quattro oggetti (poniamo una rete da pesca, un pesce, le onde del mare ed una barca),  disegnati su di una certa superficie, fanno sospettare che lo siano. E ciò in quanto è intuitivo per l’intelligenza di ognuno, anche se nulla si sa di epigrafia e di paleografia, che possano essere ‘ideogrammi’ ovvero ‘segni’ che suggeriscono un’idea e in quanto tali prodotto di ‘scrittura’.       Scrittura ‘diversa’ ma pur sempre scrittura. Quale archeologo o studioso di antichità non ha fatto l’esperienza d' essere avvertito circa dei massi ‘scritti’ persino quando essi altro non hanno che delle linee accidentali create da aratri e ruspe oppure da chi ha voluto, semplicemente, affilare un coltello, una scure o la punta di una spada?  Il dato epigrafico non sussiste,  ma il sospetto però è sempre quello della presenza di significanti tracciati per organizzare ‘scrittura’ e realizzare senso. Scrittura riconosciuta con/per ‘segni’ arcani era persino  quella che tracciava una ispiridada o coga sarda degli inizi del secolo scorso, pur essendo la donna del tutto analfabeta. Anzi si può dire che essa costituiva, per certe persone, ‘scrittura’  più delle altre scritture perché potente, magica, al di fuori della conoscenza e della possibilità di interpretazione di tutti. Scrittura validissima proprio a motivo del non senso apparente. Tanto che nessuno dei ‘credenti’ poneva in dubbio che i ghirigori di una analfabeta tracciati a caso per un foglietto di  uno scapolare magico potessero costituire scrittura.  I ‘segni’ di per sé, se intenzionali,  qualunque tipo di segni, costituiscono dunque scrittura, sono sempre comunicativi. E non importa se il destinatario di essi possa essere un dio, un demone, un uomo. Non importa addirittura se possano essere ‘strambi’, illogici, anarchici ed evidente esito del capriccio di una mano che agisce con una punta che lascia traccia di sé ovvero ‘segno’.
    
2. La negazione della scrittura spesso frutto del pregiudizio di ‘scuola’. La ‘convenzione’ come base della scrittura.
  Questa introduzione, per altro basata su aspetti molto noti e assai discussi dagli studiosi dei ‘segni’ e del linguaggio scritto (che ‘cosa è’ la scrittura, ‘cosa si intende’ per scrittura e ‘cosa può essere definita’ propriamente scrittura), per dire che la negazione della ‘scrittura’ spesso si attua non su basi scientifiche di riflessione su cosa sia la scrittura stessa e come essa si comporti e possa originalmente comportarsi, ma su dei consolidati ‘tirannici’ pregiudizi dovuti alla ormai millenaria  ‘tradizione’ occidentale sulla trasmissione del linguaggio attraverso i segni ‘alfabetici’. Si dimentica però, molto spesso, che la scrittura è mera ‘convenzione’ e che, senza la conoscenza della convenzione (cioè dell’accordo dei fruitori sull’uso di determinati segni), praticamente la ‘scrittura’  non esiste. L’analfabeta, si sa,  non è altro se non colui che ignora cosa vogliono dire determinati ‘segni’ per consenso della comunità colta.  E’ sempre per convenzione comunicativa per  ‘segni’ che  nella comunità si indossa un abito nero o uno bianco.  Si attua così scrittura per immagini concrete e astratte e nel contempo lettura. Quella scrittura della 'scuola impropria’ che rapidamente annulla, perché aperta a tutti, l’analfabetismo e fa sì che nessun analfabeta e nessun ignorante possa esistere nella comunità. 
  Chiunque di noi può inventarsi una scrittura, magari con un solo fruitore interlocutore, ma bisogna che sussista l’accordo per il quale i ‘segni’ esprimano ‘quello’ e solo quello e non ‘altro’ di senso. Non ci può essere l’arbitrio per l’uso del codice.  Si sa che la prima lettera dell’alfabeto è, comunemente, l’antico segno (reso sempre più schematico e non più pittografico),  della protome del ‘toro, bue’ del semitico consonantico; ma ciò non ha impedito che per ‘convenzione’ il segno, perdendo del tutto la sua antica notazione di consonante aspirata, diventasse solo vocalico. E’ stato per accordo generale che il codice linguistico indoeuropeo, ricchissimo di vocali all’inizio e alla fine delle parole, si è potuto servire addirittura di una consonante (mater lectionis) per esprimere la vocale ‘a’ e non più l’aspirata semitica originaria. Si sarebbe potuto inventare qualsiasi altro segno per notare la ‘vocale’, ma si è preferito,  e per comodità e per facilità di riconoscimento o per gusto (o per altri motivi ancora), adottare un segno ‘noto’ anche se di suono differente. Ma è sempre la ‘convenzione’, una specie di ‘patto segnico’ tra i fruitori,  che lo ha permesso e non altro. Quindi dobbiamo pensare che gli scribi di certi celebrati e potenti santuari del Mediterraneo, ben consapevoli del dato fondamentale della ‘convenzionalità’, non abbiano faticato più di tanto per darsi anche dei segni ‘propri’, creando nel contempo il sistema di regole o codice attraverso il quale la comunicazione scritta poteva diventare reale, sicura, permanente all’interno di una certa comunità. Una convenzione ‘scribale’ per pochi e regolata da pochi, perché la scrittura è per l’interno e non per l’esterno, per la scuola ‘religiosa’ e solo per essa;  a partire da un certo momento in poi ‘sacra’ e immutabile se non per intervento e approvazione della scuola stessa. Le note complessità dei codici ‘religiosi’, in opposizione ai codici ‘laici’ con alfabeto standard, fisso e praticamente ‘aperto’ a tutti i fruitori (protosinaitico, ugaritico, gublitico, aramaico, fenicio, greco, latino, ecc.), si spiegano con la specifica funzionalità elitaria di essi, cioè col fatto che la scrittura deve stare, all’opposto, nel ‘chiuso’, appannaggio di pochi e spesso di pochissimi. Codici ostici come quello greco di Pito (4), quello nuragico e quello etrusco sono tutti autonomi per specifiche ‘convenzioni’ proprie, tanto da diventare ‘nazionali’, anche se è abbastanza chiaro che operano per via sia diacronica che sincronica nei confronti di tutti gli altri codici di scrittura,  tenendoli sempre sott’occhio. Sembra quasi di vedere gli scribi dei santuari che, pur non potendo variare più di tanto circa le tecniche della realizzazione della scrittura, attuano però nelle rispettive scuole degli accorgimenti e delle innovazioni che in qualche modo li rendono originali, mai ‘volgari’ imitatori. Anche perché, nell’organizzazione della scrittura, è lo stesso codice linguistico a fare talvolta  la differenza di sistema e a dettare certe regole. Il codice linguistico consonantico - vocalico degli etruschi, ad esempio, non consente il mero consonantismo, quello che invece, tranne in rarissimi casi,  è tipico del nuragico che si serve del semitico della lingua ‘alta’ e sacra dei testi religiosi cananaici e paleoebraici.   

    Una delle dette convenzioni, anche dei codici più recenti e non solo di quelli antichi ed antichissimi, è quella dell’acrofonia, senza la quale, a quanto sembra,  il sistema scrittorio santuariale si può dire che quasi non riesca ad agire. Nascondere il suono nella catena ordinata  dei segni, anche non specificamente alfabetici, è agevole se si ricorre all’espediente attraverso il quale si ottiene fonetica (fonetica certa e non arbitraria), attraverso il semplice principio che ‘conta’ il suono che viene prima di una determinata parola e solo esso. E’ il principio che adopera anche la scuola scribale del Santuario di Pito (5). Tanto che non è molto difficile, conoscendosi la lingua,  interpretare il significato ‘metagrafico’ (6) dell’Apollino, ovvero della statuina androgina del museo di Glozel. L’invocazione al  Lossia  cacciatore data per via acrofonica (v. fig. 2) è  deducibile perché la sequenza dei significanti acrofonici (Onphalos, Lukos, Ormos, Xiphos, Akmh: O LOXIA),) svela la presenza del greco, di quel greco (tragico e paratragico) impiegato più ‘manifestamente’ nelle interiezioni di invocazione, riportate con scrittura lineare alla base della statuina (7). Sono due tipologie diverse di scrittura ma si comprende in breve che entrambe costituiscono scrittura. E’ inutile dire che i tentativi, non a caso del tutto infruttuosi,  di decifrazione della scrittura di Glozel si sono effettuati esclusivamente sulla base della seconda scrittura, quella lineare e ritenuta essa solo scrittura, e non ‘anche’ sulla base della prima, quella offerta dalle immagini o ideografica, ritenuta viceversa non scrittura. Nel caso specifico per gli ermeneuti di tradizione scolastica la base della statuina aveva certa scrittura (anche se non si capiva quale)  ma la statuina di per sé non ne aveva alcuna. Non ‘poteva’ averne. Tanto che il Corpus  del Morlet (8) riporta i segni ‘alfabetici’ di tutti i documenti quelli che, per pregiudizio, ritiene scritti ma mai, per ignoranza del comportamento del codice greco arcaico,  i ‘significanti’ fonetici costituiti, per acrofonia, da oggetti e da animali (9). In Francia dunque, nella prima metà del Novecento, gli studiosi, senza accorgersene, si comportavano (e ancora si comportano)  nei confronti della scrittura nello stesso identico modo dei colleghi della prima metà dell’Ottocento. Champollion, si può dire,  non aveva insegnato nulla sulle apparenti non scritture.  

    Ci sembra di capire però che gli scribi dei santuari, molto attenti alla non decifrabilità del codice, si siano presto resi conto della vulnerabilità del sistema ‘acrofonico’  che potremmo chiamare ‘diretto’, cioè quello basato sulle voci date dai disegni o pittogrammi subito visibili e riconoscibili. Per scribi abituati, da secoli e secoli, a maneggiare l’acrofonia, leggere e comprendere una certa voce o formula religiosa non era certo difficile;  tanto più poi se le sequenze degli oggetti o degli animali rappresentati, ovvero la direzione della lettura, erano poche o quelle sempre obbligate (10). Escogitarono quindi (almeno così ci risulta dal confronto della scrittura del santuario pitico con quella dei santuari nuragici ed etruschi), sempre su basi convenzionali, il criterio che l’acrofonia non dovesse essere resa solo e non tanto su base diretta e oggettiva, cioè dell’impressione immediata, ma su base indiretta: era l’idea o l’aspetto dato dal segno che suggeriva la voce su cui poi basare l’acrofonia. Insomma, se raffiguriamo  un cane non dobbiamo partire necessariamente dall’acrofonia della voce ‘cane’ ovvero dalla consonante ‘C’, ma dall’acrofonia suggerita per ‘come’ è realizzata la figura o segno ‘cane’. Quindi potrebbe essere quella di  ascolta, assale, ringhia, è contento (scodinzola), ecc. Ognuno può rendersi conto di quanto più difficile sia l’acrofonia indiretta rispetto a quella diretta. Quanto sia problematico inoltre decodificare un testo dove  acrofonia diretta e indiretta possono risultare, per convenzione,  coesistenti o in mix . Ma la prima è l’acrofonia che stava molto bene a chi voleva ‘nascondere’ il più possibile certe parole ‘sacre’ e intoccabili; parole che proprio a motivo della loro sacralità, una volta svelate, avrebbero perso della loro efficacia protettiva e della magia salvifica. Ma forse stava bene anche a chi, semplicemente, considerava la scrittura non strumento per comunicare con gli uomini ma con la divinità. Una scrittura attuata attraverso ‘geroglifici’, insomma.

  Questo dell’acrofonia diretta o indiretta o in mix è dunque il primo scoglio per chi vuole affrontare il compito assai impegnativo dell’interpretazione della scrittura nuragica ed etrusca. Chi vuole capire e ‘tradurre’ un bronzetto o cosa c’è scritto in un sarcofago o in un’urna o in oggetti attinenti alla ‘religio’ etrusca, deve rassegnarsi ad affrontare pazientemente il rebus del lessico (in genere è  greco o latino per l’etrusco e semitico per il nuragico) che si cela dietro l’apparenza delle forme e delle immagini. Non sempre (11) sono un berretto o un elmo nuragico o la collana di un nobile o di una matrona etruschi che  suggeriscono il dato acrofonico ma l’idea che danno il berretto, l’elmo  o la collana. E’ la voce che è resa con l’idea che ha il giusto e vero significato e rende ‘suono’.  

    Le cose però, così già abbastanza complicate, si complicano ancora di più perché, per convenzione, la scritta ‘deve’ possedere anche il dato numerologico e quello ideografico; cioè non solo il messaggio nascosto viene espresso attraverso consonanti e/o vocali, esito di acrofonia (mettiamo ad es. la voce ‘ab(a) in nuragico e la voce ‘apa’ in etrusco), ma anche attraverso numeri (12) che suggeriscono parole (aritmogrammi) o parole che suggeriscono numeri (13) e attraverso immagini che sempre in maniera indiretta suggeriscono lessico (ideogrammi) e non più consonanti o vocali. Un insieme  dunque di non poche convenzioni e norme  che sono fatte apposta, come si è detto,  dagli scribi delle scuole dei santuari per rendere ai più la scrittura (un certo tipo di scrittura) faticosissima o del tutto inafferrabile quanto a significato.

     Ma sarà bene che si passi a degli esempi concreti, cominciando dal dato ideografico della scrittura etrusca e lasciando a  interventi (post) successivi quello relativo alla numerologia e alla stessa acrofonia. Il motivo di questa scelta temporanea e particolare non è altro se non quello della comodità, della più facile comprensione e della più pronta accettabilità se si opera su base ideografica rispetto a quella acrofonica o quella numerologica. L’ideografia poi, in quanto tale, non ha bisogno di specifiche conoscenze linguistiche, perché un ideogramma assume sempre lo stesso significato in qualsiasi lingua lo si voglia riportare. Dire anticamente  in etrusco o in latino o greco oppure dire oggi in inglese o in italiano non cambia nulla. Gli ideogrammi, si sa, in quanto tali,  sono universali.

3. La formula scritta nel coperchio. Il significato dell’anello e del cuscino. Il ‘doppio’ e la coppia divina TIN/UNI.  
    Come abbiamo detto e sostenuto in altri interventi, anche recenti (14), i coperchi dei sarcofaghi etruschi sembrano presentare tutti la formula ‘e del padre e della madre (atic apac ) certo doppio sostegno’. Abbiamo raggiunto questo risultato ermeneutico generale anche e soprattutto perché da subito è maturata in noi la convinzione che il coperchio del sarcofago (ma vedremo che ciò varrà anche per il sarcofago intero) fosse ‘scritto’ e non solo ‘decorato’  sulla base del dato empirico, del topos o significante continuo (15), dell’anello sigillo posto nel dito del defunto e del cuscino (in genere doppio) che ‘segue’ sempre  ad esso. Ora, se consideriamo le immagini  come ‘scrittura’ ideografica, non baderemo alle voci ‘anello’ e ‘cuscino’, ma solo all’idea che a noi può  offrire, in un sarcofago, cioè in una ben determinata ‘situazione’, la sequenza anello sigillo - cuscino. Risalire alla idea che dà la lettura ‘certo, sicuro, garantito ’, dell’anello e a quella di ‘sostegno, appoggio, base’ del cuscino è, crediamo, abbastanza agevole. In un coperchio di un sarcofago, cioè di un oggetto relativo alla custodia dei resti del defunto (16) per il suo passaggio nell’aldilà, leggere ‘garanzia del doppio sostegno’ non è certo operazione arbitraria e campata per aria. Semplicemente perché chi conosce la religio etrusca sa di un particolare ‘doppio’, sa di una coppia inscindibile androgina, cioè Tin e Uni ( Sole e Luna), che sono divinità  (specialmente la seconda), che hanno a che fare, stante la loro potenza  ‘luminosa’, con la ‘religio’ dei morti circa la speranza di rinascita. E chi conosce l’archeologia etrusca sa ancora della significativa ripetizione del ‘doppio cuscino’ (addirittura colorato di ‘rosso’, ovvero con il segno inequivocabile della ‘rinascita’) nei 13 loculi della famosa tomba dei ‘Rilievi dipinti’ della necropoli della Banditaccia di Cerveteri (17). Dato questo assai significativo e che ovviamente fa sospettare che anche il consueto doppio cuscino dei sarcofaghi dei nobili etruschi abbia il valore del rosso e quindi costituisca non tanto ‘decorazione’ quanto segno di scrittura ideografica alludente alla rinascita ad opera di un ‘due’.   
    Si noti subito che, se noi ritenessimo ‘ anello’ e ‘cuscino’ come elementi decorativi,  la nostra ‘lettura’ non potrebbe andare aldilà di una interpretazione in chiave artistico - estetica e di una simbologia attinente allo status sociale del defunto. Per siffatta lettura l’autore del sarcofago avrebbe raffigurato quelle immagini semplicemente perché voleva ‘significare’ l’autorità, la nobiltà e la ricchezza  del defunto sostenuto dal cuscino del divano sul quale abitualmente stava a banchetto (o per altro ancora). Ma così procedendo  nulla vieta di sospettare e di pensare legittimamente che  si resti del tutto in superficie e nel banale perché la simbologia ci parlerebbe solo di potenza, di ricchezza e di fasto terreni, mentre un sarcofago (o urna cineraria che lo si voglia chiamare)  dovrebbe avere, per sua natura, simbologie ‘logiche’ ben più profonde, come quelle legate alla morte e non alla vita. Contenere allusioni prodotte e finalizzate, semmai, ad esorcizzare la ‘catastrofe’, ad allontanare  dubbi e timori,  ad annullare l’ansia del dilemma vita - non vita (18) 
  Come reagiscono in genere  gli studiosi e gli etruscologi di fronte a ciò, di fronte al dato (apparente) di personaggi felici  e banchettanti, ornati e coronati, accompagnati spesso da leggiadre e affettuose concubine, anch’esse con simboli d’onore e di reputazione? Con una risposta semplice e solo apparentemente esaustiva: che gli etruschi immaginavano lo status dell’aldilà non diverso da quello terreno: un mondo di felicità, di banchetti e di passioni amorose che proseguiva senza soluzione di continuità e senza sostanziale diversità. Cosa che può anche essere.  Ma la risposta potrebbe configurarsi come  una ‘decifrazione’ dimidiata in quanto le immagini potrebbero contenere messaggi anche o del tutto  diversi, non immediati, offerti da una scrittura-lettura  nascosta, più complessa  e molto più pertinente. E’ appena il caso di far presente che spesso la ‘prosaicità’ della risposta è tale da far persino congetturare che le dita raffigurate con enfasi  nel coperchio del famoso ‘Sarcofago degli sposi’ di Cerveteri  realizzerebbero atti per sorreggere ‘coppe’ per banchetti, o per tenere uova o afferrare oggetti per versare profumi. Quasi che quelle mani con le dita chiaramente atteggiate a ‘C’, cioè mani esprimenti segni, suoni e linguaggio, non le si riscontrasse più volte nella simbologia delle stesse urne cinerarie e senza la presenza di alcun banchettante e gaudente!     
    Ma, a prescindere da quanto si è detto come preambolo sull’esistenza di un certo tipo di scrittura, etrusca (e non) e su quanto abbiamo già scritto su di essa (19),  come si fa a rendersi meglio conto e a capire senza equivocare, osservando le immagini del coperchio, se ci troviamo a dover considerare solo estetica e decorazione oppure anche altro (e ben altro)? Come si fa a capire se il dato linguistico -  ideografico da noi proposto sia accettabile oppure non, perché magari risultante di  un semplice frutto del caso? Come possiamo dimostrare insomma, senza che possano insorgere dubbi,  che una lettura finale  su basi ideografiche  garanzia di doppio sostegno’  non sia solo parto di fantasia o di pura elucubrazione? Il modo per fortuna c’è e consiste non tanto nel sottolineare la ripetizione continua dell’evento (che sarebbe già di per sé - come sappiamo - un promettente avvio per consistenza di ‘dato’ scientifico) quanto nel rimarcare il fatto che, in modo quanto mai chiaro, il ripetitivo svela, in virtù delle numerose varianti d’immagine escogitate via via  dagli scribi artigiani, che la ‘variatio’ non modifica per nulla (e semmai tende ad accrescere) il significato generale che hanno in comune i significanti. In altre parole, se è vero che noi da un lato nella lettura registriamo il fatto  che non si hanno notevoli  varianti circa la figura - segno ‘cuscino’, dall’altro registriamo anche il dato della presenza di non poche varianti segniche, vale a dire di ideogrammi, sempre molto significativi,  che  tendono a suggerire un’ idea identica o uguale o simile  a quella che offre l’anello sigillo (‘certezza’,  ‘garanzia’, ‘sicurezza’, ecc.); oggetto questo - si badi -  sempre collocato in rapporto stretto di sequenza di lettura con il ‘pulvinar’ (o ‘cervical’).  Infatti, se con operazione comparativa, strettamente filologica, mettiamo a confronto i vari (20) coperchi dei sarcofaghi, ‘leggendo’ proprio in ‘quel punto’  la sequenza delle immagini realizzate, noteremo che gli scribi artigiani etruschi disegnano (o fanno disegnare) su progetto, oggetti o aspetti figurativi che tendono a ‘qualificare’ meglio la voce fissa che si ricava dal ‘cuscino’, ovvero quella di ‘sostegno’. Un sostegno che, evidentemente, non è un appoggio qualsiasi e che pertanto, anche per magia del dato ‘scrittorio’, bisogna che venga enfatizzato circa la sua forza e la sua validità.
4. Esempi relativi alle varianti segniche  ideogrammatiche. Persino il ‘fare le corna’ è variante.
Gli esempi che si possono fare sulla ‘stringa di significato’ finale del coperchio del sarcofago sono numerosi, ma forse basteranno le seguenti immagini di coperchi assai noti per dimostrare che  la ‘variatio’  interviene - talvolta in modo spettacolare e assai sofisticato – rispettando, come si è detto,  sempre la stessa sfera semantica, estensibile,  senza difficoltà, al concetto di ‘sostegno’. Per mera comodità  ci riferiremo ad essi indicandoli con un semplice  numero d’ordine. 
              
                                   N.1                                                                  N.2                                                                     N.3
                                           
    
                               N.4                                                                    N.5                                                             N.6               
      

                            n.7                                                                                                    N.8

                 
N.1
     La mano sinistra della defunta, porta al dito un anello. Il significato sarà quello di ‘garanzia di doppio sostegno’. Ci troviamo di fronte al dato più comune di  significante (il sigillo) estensibile agli ideogrammi  ‘cuscino’ e ‘ sostegno’. Si noti però che Il significante ‘anello’ è preceduto dal significante ‘cintura’ con il nodo. Il valore ideogrammatico di quest’ultimo, ovvero di ‘fermezza, certezza, sicurezza’, si può aggiungere senza difficoltà di senso: certa garanzia del doppio sostegno.
N.2
     Se in questo caso risulta mancante, ma non sembra,  l’anello sigillo, il segno che precede la lettura ‘sostegno’ sarebbe  dato dalla sola cintura che ‘rende ferma , assicura’ la veste (il chitone). E’ più che probabile che il nodo stesso , così come nel n.1, tenda ad accentuare il significato della cintura. Quindi avremo: sicurezza (assoluta certezza) del  doppio sostegno’. Se invece l’anello fosse presente si avrebbe il senso preciso del n.1.
N.3
    Qui il dato non è subito avvertibile e chiaro come nei due casi precedenti. Lo si ricava però dal linguaggio delle mani (21). Infatti, la mano sinistra del defunto ha la palma stesa, rivolta verso l’alto. Il suggerimento ovviamente è quello di ‘palmaris’ che significa in latino  ‘straordinario, eccellente, meraviglioso’. L’aggettivo stavolta qualifica in modo diverso la natura  del  ‘sostegno’, ma il senso della ‘mano palmare’ (che potrebbe avere anche quello di ‘evidente, chiaro’), comunque, non cambia rispetto a quello di sicurezza dato dalla ‘cintura’. Un sostegno ‘eccellente’ è ovviamente un sostegno sicuro. Se, come sembra, la mano (si  noti l’accorgimento della mano - segno dell’uomo disposta proprio al di sopra del doppio cuscino) del nobile defunto porta l’anello sigillo, come negli altri casi, la lettura sarà: straordinaria (oppure evidente) garanzia del doppio sostegno.
N.4
  Stavolta l’allusione si mostra più densa di significato. La lettura chiaramente si complica un po’  in quanto  l’anello sigillo si trova accompagnato da altri due ‘segni’ evidenti: l’indice della mano e l’oggetto  stretto dalla palma della mano. Mano e dita, come vedremo nell’esempio successivo, costituiscono sempre nella singolare scrittura dei coperchi dei sarcofaghi (e non solo in questi: anche nelle urne cinerarie, ad esempio) segni non trascurabili in quanto realizzano ben precisi significanti. A cosa allude il ‘segno’ indice? Esso, a nostro parere,  si riferisce al senso di ciò che viene scritto e specificato prima e che si completa nel cuscino indicato . Se il senso precedente della sequenza scritta  è quello di apac atic vorrà dire che essi (22),  ‘e padre e madre’, costituiscono,  sono ‘indice’ di ‘straordinaria  garanzia del sostegno. Si osservi però che il cuscino presenta tre bottoni, particolare anch’esso non senza significato, come quello dell’indice della mano. Infatti viene specificato  che il sostegno è del ‘tre’, ovvero del numero ternario ciclico che in etrusco, insieme al ‘sei’ ( e non è un caso che talora i segni del cuscino siano 3 +3), ugualmente ciclico, allude e sostituisce la divinità androgina luminosa TIN/UNI (Sole/Luna). Sono  il padre e la madre ad essere entrambi  ‘tre’. Non difficile appare allora il valore segnico dell’oggetto impugnato dal defunto. Se esso è un documento scritto e se  si trova, come si trova, in rapporto di senso con il sigillo, vorrà dire che esso documento  è ‘certo, valido, sicuro’ (certificato). Pertanto  la lettura per ideogrammi non può che suggerire la sequenza:   indice di certa garanzia del  sostegno (23) del tre .
N. 5. 
    Si osservi subito in questo sarcofago di forte espressionismo e ricercatezza (tanto che si potrebbe definire ‘barocco’) che  la mano sinistra della donna mostra l’indice mentre quella sinistra dell’uomo mostra l’indice e il mignolo aperti e il medio e l’anulare chiusi. Nessuno può certo pensare che quei segni della mano dell’uno e dell’altro, così ‘particolari’,  siano senza significato e cioè che non siano ideografici. Il segno gesto della mano dell’uomo inoltre è tale (fare le corna), tanto realistico e tipico, che con molta difficoltà, evidenziato com’è (messo. si direbbe,  in prima ‘fila’), lo si può considerare non intenzionale e non comunicativo.  Un segno siffatto è ovviamente scaramantico perché esso, così come quando la mano pone ad arco sia il pollice che l’indice (24), assume la forma (tarda) squadrata della lettera ‘C’ in etrusco. Lettera apotropaica che allude al ‘tre’ della catena alfabetica. Ma la segnica particolare del fantasioso ma non del tutto originale  (25)  scriba artigiano non si ferma qui. C’è ancora la consistente ‘variatio’ della mano ‘cornuta’ che si trova abbinata ad una ‘schiacciata’. La mano è’ collocata su di un segno inequivocabile per senso come il  ‘pane’  che non può che alludere, offrire l’idea di ‘alimento’, ‘sostentamento, ’energia’  che dà la vita. Si nota però anche che Il ‘doppio cuscino’ stavolta non è messo in evidenza, ‘frontalmente’, come di norma. Risulta quasi annullato e  in secondo piano quanto a visibilità rispetto al segno ‘pane - alimento’. Questo dettaglio sembrerebbe suggerire che il segno ‘pane -alimento’ prende il posto del segno ‘ cuscino doppio - doppio sostegno’ oppure, in subordine,  che esso abbia il valore del semplice numero ‘due’. Se così fosse, aggiungendo il solito valore dell'anello sigillo, la lettura finale del ‘documento’ coperchio, sarebbe: indice di sicura garanzia di doppio sostentamento. Come si vede le cose non cambiano per nulla quanto a significato.  E’ superfluo il dire che il ‘fare le corna’ allude  all’atto magico scaramantico che pone in essere un ostacolo, un impedimento, una difesa sicura, cioè una ‘garanzia’ perché avvenga qualcosa che si desidera contro qualcosa che non si desidera e/o si teme. Pertanto  è atto apotropaico, tendente a dare sicurezza e ad annullare il negativo e cioè il pericolo che la rinascita del defunto non avvenga e che questi non possa godere della luce eterna, servirsi  del ‘sostentamento’ e del padre e della madre celesti.
N. 6.
   In questo sarcofago il dato della ‘variatio’ è assai ricercato, raffinato e, diremmo, spettacolare. E in questo suo essere si presenta ancor più come prova eccellente del nostro assunto, non essendo minimamente equivocabile il suo significato. Quasi come una ‘garanzia’ per l’ermeneutica, sempre soggetta, anche quando si va cauti,  ai rischi di prendere fischi per fiaschi. Per nostra somma fortuna, il coperchio ha subito gravi danni solo nella parte superiore destra (quella però abbastanza scontata, dato il simbolismo della ‘patna’ anticipato forse dal braccio proteso) rimanendo invece del tutto integro in quella inferiore: altrimenti non avremmo potuto godere della bella ‘variatio’ di forma (ma non certo  di senso), posta in essere in virtù di ciò che tiene in mano il personaggio defunto. Infatti, questi mostra, nella palma della mano sinistra, l’immagine di un chiaro fegato, alludente ovviamente all’epatospicina,  pratica  di origine ‘orientale’ tanto in uso, come tutti sanno, nella ‘religio’ etrusca. A cosa mai può alludere il fegato così ostentato, un organo - si badi bene – immacolato, pulito, sano, se non alla sicurezza, alla ‘garanzia’ di buona sorte? E’ col fegato, precipuamente, che si traggono le sorti buone o cattive (26) a seconda del suo presentarsi. Il fegato è garante ,per intervento divino,  di ciò che ineluttabilmente accadrà.  Potrebbe sembrare strano ma risulta del tutto evidente, a questo punto, che un ‘fegato sano’ può stare al posto di un ‘anello sigillo’ oppure (come si vedrà più avanti) ad una melagrana. E ciò perché i ‘segni’ suddetti non costituiscono altro che significanti ideogrammatici, varianti formali d’immagine  che tendono a dare sempre un ‘certo’ significato che rispetti la canonica formula insistente nel coperchio del sarcofago. Tutti tendono a dare il senso della sicurezza e della garanzia, anzi della assoluta certezza e garanzia.  Quindi il significato della parte finale scritta del coperchio del sarcofago sarà ancora quello di ‘certezza assoluta, garanzia del doppio sostegno’, ma con l’aggiunta numerologica (numeri che danno parole)  di Tin/ Uni.  
N.7.              
    Questo coperchio, osservato e ‘letto’ nel suo aspetto generale, testimonia e conferma forse ancora di più degli altri, con le sue non poche  e sofisticate varianti, il dato che i segni offrono acrofonia, aritmogrammi e ideogrammi. Ideogrammatici sono ancora una volta, come quelli che si sono visti attraverso  gli altri esempi,  gli ultimi segni, quelli  dati dalla ‘cintura’ , dal solito ‘doppio cuscino’ e dall’ oggetto tenuto dalla donna nella mano. Si tratta di una melagrana. In questo frutto il segno ideogrammatico è riposto nella colta allusione mitologica del  ‘patto’ che riguardo la giovane Core (27), La melagrana risultava (e non solo per i greci e gli etruschi)  simbolo di   ‘pegno’ e quindi di ‘garanzia’. Essa assume così iI valore identico degli altri significanti da noi addotti ad esempio: fegato, anello sigillo, gesto delle corna.   La lettura sarà dunque: sicuro straordinario doppio sostegno.
 n. 8.
    Rimandando al post successivo la trattazione del resto del documento  e del  valore ideografico  dell’immagine  ‘pane’ (mano destra della donna) non più come segno ideografico ma come segno acrofonico, si può notare anche qui, senza sforzo,  la variante del segno indicante ‘certezza’, realizzata con la ‘cintura annodata’. La lettura sarà dunque come quella dell’esempio n. 1 e n.2.
     Per comodità del lettore forniamo la seguente tabella comparativa delle varianti formali, addotte ad esempio, della parte finale di senso del coperchio dei sarcofaghi.  

(continua)

Note ed indicazioni bibliografiche
 1. V. Duvall J., L’evoluzione dei nomi , in Civiltà antiche. I segreti dei geroglifici, Napoli, 2001, p. 25.
2. V. Florian Coulmas, 1999, Maya writing, in The blackwell Encyclopedia of Writing systems, Blackwell publishing, Oxford, pp. 329 -333: ‘The chief fault of early work on Maya was that no attempts were made to interpret the glyphs as a representation of language. Most of the scholars involved wewrw trained as archaeologists an had no knowledge of any Maya language or linguistics methods vhich could be employed in establishing a link between language an writing (p. 329).
3. V. Florian Coulmas, 1999, Maya writing, in The blackwell Encyclopedia of Writing systems, ecc. cit.  the writing system consist of multifunctional glyphs serving as both logograms and syllabic signs, the latter having acquired their phonetic values on the basis of the REBUS PRINCIPLE (p.331). 
4. V. Sanna G., 2007, Da Tzricotu (Sardegna) a Delfi (Grecia), percorrendo Glozel (Francia). I segni del Lossia Cacciatore. Le lettere ambigue di Apollo e l’alfabeto proto greco di Pito, S’Alvure ed. Oristano. 
5. V. nota precedente.
6. Per ‘metagrafica’ intendiamo quella scrittura che si ottiene non con il riporto dei segni su di un supporto (in genere liscio o levigato: una pietra, una tavola di bronzo o di altro materiale, un oggetto in ceramica, una fusaiola in steatite, ecc.) ma attraverso  il supporto stesso o ‘con’ oggetti  o aspetti in esso raffigurati che rendono acrofonia, numerologia e ideografia (un nuraghe, una tomba di Giganti,  la facciata di un tempio, un oggetto scaramantico o votivo, un  coperchio e la cassa di un sarcofago, un’urna cineraria ecc.).      
7. V. Sanna G., 2007,  ΑΝΑΘΗΜΑΤΑ  4. Icone del Dio Lossia e di persone con scrittura pittografica acrofonica e lineare, in Da Tzricotu (Sardegna) a Delfi (Grecia), percorrendo Glozel (Francia). I segni del Lossia Cacciatore. ecc., cit. pp. 381 - 409.   
8. Morlet A., 1965, Corpus des Inscriptions, Causse et Castelnau, ed., Motpellier.
9.  Persino di fronte a delle vere e proprie  ‘mostruosità’ documentarie, come quelle del ‘serpente abbinato al cavallo’ o  un ‘cavallo accorpato ad un uccello’  (Morlet, Glozel II, p.89 fig.51, 1 -3) non si andò al di là delle simbologie (naturalmente senza spiegazione alcuna), nonostante le evidenti e semplici acrofonie attestanti l’origine delle antichissime interiezioni di acuto dolore (σχετλιαστικὰ ἐπιφωνήματα)  della lingua tragica e paratragica greca ( ἰή, ἰώ, ώ ώ, έ έ, ecc.).   
10. In genere lettura dall’alto verso il basso, in senso antiorario, da sinistra verso destra e ‘davanti dietro’ ( es. il cavallo davanti inscritto su di un’oca).
11. La lettura del ‘metagrafico’ nuragico ed etrusco risulta spesso piuttosto ostica dal fatto che non sempre si riesce a capire se lo scriba artigiano abbia adoperato l’acrofonia diretta o quella indiretta. L’esempio della patella (patna in etrusco’: il piatto per i sacrifici) dei sarcofaghi per formare la voce ‘apa’ è assai indicativo. L’acrofonia sillabica (pa) potrebbe essere data sia dall’oggetto sia dal verbo ‘patēre’ (dall’essere il piatto ‘largo’). E così l’acrofonia vocalica (a) precedente potrebbe essere formata sia dalla voce allex (pollice) sia sa quella di adligare (fermare, trattenere).  

12. Tipico è l’uso del numero ‘sei’ che allude all’unione e alla inscindibilità della coppia (3 + 3) ovvero dell’androgino,  in nuragico Y/H e in etrusco TIN/UNI. Si veda per detta numerologia riguardante il ‘tre’ e il tre + tre’ ovvero  la divinità nuragica ed etrusca il nostro recente articolo: Sanna G., 2016,  Tarquinia. L’ancora della salvezza e il sostegno della luce di TIN /SOLE e di UNI /LUNA. Il greco - cipriota? Non c’entra nulla. Semmai il semitico nuragico di Barisardo, in Maimoni blogspot. com (15 dicembre).  

13. E’ il caso della congiunzione coordinante etrusca etrusca ‘C’ nella formula ‘apaC atiC’ che chiaramente allude al ‘tre’ formale dell’alfabeto etrusco ripetuta due volte e quindi al ‘sei’ di Tin e di Uni. Gli stessi TIN/ UNI e APA/ATI con ‘tre’ consonanti ciascuno danno luogo al lusus del tre, numero ossessivo del sarcofago. Abbiamo fatto notare più volte, anche di recente (v.  bibl. nella nota 12),  che la sequenza APA- C – ATI - C  è numerologica in quanto la somma di essi allude al ‘dodici’  cioè alla luce ciclica dei due astri sole e luna che sono, per la salvezza eterna dei defunti, ‘e padre e madre’.     
14. V. ancora bibl. nota 12.
15. Non possediamo dati statistici (purtroppo, da quanto sappiamo, non esistono cataloghi riguardanti i coperchi dei sarcofaghi etruschi) ma ci sembra di poter affermare che la raffigurazione dell’anello nella mano dei nobili defunti etruschi sia di gran lunga la più frequente.
16. Si vedranno, a conforto di questa (e altre) ipotesi di lettura, le stesse letture delle urne cinerarie etrusche. Tenendo presente per i dati comparativi e per organicità ‘documentaria’ che anche i sarcofaghi - come si sa -  altro non sono che più ‘nobili’ e fastose ‘urne cinerarie’. Il termine greco di ‘sarcofago’ in uso è  -come si sa - solo di comodo e del tutto improprio,  anche dal punto di vista etimologico.  
17. V. Grinsell L.V., 1978, Cimiteri e tombe etrusche; in Piramidi, necropoli e mondi sepolti. Riti e credenze sull’oltretomba  nelle grandi civiltà dell’evo antico, New Compton ed., Roma, p. 214.

18. Sui detti timori e sui tentativi di esorcizzare  morte e annientamento abbiamo cercato di attirare l’attenzione con il nostro, La tomba etrusca del 'Dialogo sublime'  della necropoli di Sarteano (Siena). Il linguaggio del corpo, il numero tre e il trionfo sulla morte; in Sanna G., 2014, Scrittura nuragica: gli Etruschi allievi dei Sardi (I), in Monte Prama blog (1 dicembre).


19. V., tra l’altro, Sanna G., 2014, Stele di Avele Feluskes. I nobili etruschi figli di Tin e di Uni. Scrittura e lingua dei documenti funerari. L'acrofonia sillabica e non, la numerologia e la chiara dipendenza dell'etrusco dal nuragico (II), in Monte Prama blog (28 novembre)

20. I sarcofaghi da noi presi in considerazione per lo studio sono più di 50. Per ovvi motivi (il riscontro completo dei significanti che, in un modo o nell’altro, realizzano sempre la stessa formula) ci siamo affidati a quelli che risultano integri o poco deteriorati e cioè ‘leggibili’ senza notevoli difficoltà. Crediamo che il campione possa essere sufficiente a garantire circa la ‘oggettività’ del dato e quindi sulla intenzionalità degli scribi (di tutta l’Etruria) nel realizzare un certo tipo di scrittura segreta a rebus organica alla magia del sarcofago, garante, con essa e per essa, della certezza, dell’esito sicuro di un felice viaggio e di una pronta rinascita grazie alla luminosità divina materna e paterna.
21. Sulla lettura generale di questo singolare sarcofago e sulla particolare ‘scrittura’ numerologica delle mani intendiamo intervenire con un articolo apposito. Per ora basti il dato, non numerologico, della palma della mano rivolta verso l’alto come quello che accomuna, ma con variante formale ideografica, il significante agli altri significanti con uguale o simile significato.  
22. Ma potrebbe essere, come vedremo, anche qualcosa di diverso e di più particolare ma sempre riguardante l’essenza  e del padre e della madre.
23. Qui il significante ‘cuscino’ è semplice e non doppio. Forse perché ‘condizionato’ dal tre, numero singolo che accomuna la divinità androgina TIN/UNI. Sul detto ‘tre’ singolo (cioè il numero riferito per entrambe le divinità dell’unica luce)  forse sarà il caso di ricordare quello che, secondo noi, costituisce un ‘dialogo sublime’ nell’imminenza della morte. Nella bellissima pittura della tomba di Sarteano, si può ammirare la scena del giovane ‘amasius’ che conforta  l’uomo (il defunto proprietario della tomba), gravemente ammalato, preoccupato e scettico, accarezzandogli dolcemente la mano con la sua destra e con la sinistra mostrante il numero ‘tre’. Dandogli cioè coraggio e tranquillità con il gesto affettuoso e nel contempo indicando  con il gesto la sicurezza, l’aiuto certo  per la rinascita da parte della divinità androgina luminosa, padre e madre. V. per il riferimento bibliografico la nota 18. Non è chi non veda che quella raffinata scrittura per immagini tende a confermare lo stesso dato formulare presente nei sarcofaghi. La nuova luce e la rinascita dei nobili defunti ci saranno  perché ad essa provvede il ‘tre’ ciclico del Sole e della Luna e cioè di Tin e Uni.   
24. V. esempio n.4.
25. Il gesto scaramantico di 'fare le corna' però non è solo di questo sarcofago. Anche coperchi di sarcofaghi chiusini mostrano lo stesso identico ideogramma scaramantico.

26. Si ricordi il famosissimo ‘fegato’ bronzeo di Settima di Cossolengo (Piacenza) con la singolare raggiera (alludente, con ogni probabilità,  al numero ‘sei’ di Tin e di Uni) e le diverse caselle riportanti espressioni o nomi di divinità in alfabeto etrusco.   
27. Core viene raffigurata spesso con il frutto del melograno tra le mani. Il mito narra che, mentre Persefone figlia di Demetra si dilettava a raccogliere fiori, la terra si aprì sotto i suoi piedi e venne rapita e condotta nell’oltretomba da Ade. Demetra si adirò e per dispetto fece in modo che i frutti sulla terra non maturassero più e che così calasse un inverno perpetuo. Zeus preoccupato inviò Ermes, il suo messaggero, da Ade per chiedergli di liberare la bella e giovane Dea. Il dio ubbidì e disse a Persefone che poteva ritornare sulla terra, ma gli offrì dei chicchi di melagrana. Avendone essa mangiato sei  accettò, inconsapevolmente, con quella sua azione,  di passare sei mesi con la madre sulla terra e sei mesi con Ade negli inferi., come sua sposa. La melagrana quindi, oltre che simbolo mortuario riguardante Core e quindi l’allusione della dea del  regno dei morti e del  regno dei vivi (che rinasce e muore ciclicamente) è anche simbolo di ‘patto’, di ‘pegno’ e quindi di ‘garanzia’. La defunta reca in mano il frutto che è stato il motivo per il quale, anche se senza volerlo, Persefone aveva dato la garanzia del ritorno negli inferi come sposa del dio dei morti.   

* Il presente articolo. insieme agli altri che saranno via via pubblicati in questo blog, è solo un'anticipazione informativa di quanto sarà pubblicato nel n.69 della rivista Monti Prama.

4 commenti:

  1. Davvero bella questa analisi. Mi chiedo in quante altre culture sia presente questa triade di elementi "leggibili" sulla sicurezza di un sostegno divino con il sigillo di.. garanzia. Certo qui è bella sofisticata, ma con una tale frequenza e ripetitività di concetti -con variazione- da lasciare pochi dubbi. Sto però pensando anche alle tombe dei faraoni egizi e particolari scarabei (come quelli del cuore); ma lì è più facile: è da tempo che si sono resi conto che nella tomba di Tutankkamon c'è molto da leggere; la scrittura stessa prende vita, i geroglifici diventano perfino antropomorfi (con manine)
    Ma non solo: sto pensando anche ai colori. Sai cosa mi hai ricordato? le barche mortuarie di Abydos, fatte a doppio fallo colorate di giallo sugli scafi per significare la luce e la rinascita.
    Te le ricordi? http://monteprama.blogspot.it/2013/06/foto-del-giorno-le-barche-mortuarie-di.html

    Una cosa: nei sarcofagi non dovrebbe essere esplicitata o criptata anche la "luce", appunto?

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  2. E infatti.La vedrai. Con la seconda puntata.

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  3. Déu miu, de custu passu, liggendi custas cosas bellas, acabbat chi diventu espertu deu puru!
    Ti torru grazias a nomini de chini indiddi parrit bregungia de fai sciri chi no sciiat nudda.

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  4. Anche mi me sun turnau a perde in te shtu mundu che aiva abbandunau pe sdegnu.Shperu primma o poi de fòghia a fove vení a vedde n'uisa dunde i srdn vivaivan.Salüi

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