Fig. 1 Fig2. Fig. 3 Fig.4 |
Fig. 5 |
Figgs. 1. Scrittura egiziana 2. Scrittura greca pitica 3. Scrittura nuragica. 4. Scrittura maya. 5. Scrittura etrusca
Si dice che la lingua etrusca è ancora, per svariati motivi, un enigma e un 'rebus'. Ciò si sostiene, naturalmente, sulla base delle grosse difficoltà che insorgono nel cercare di capire di essa molti degli aspetti lessicali, morfologici e sintattici. In realtà, a mio parere, il 'rebus' sussiste e resiste nel tempo non 'solo' per motivi di carattere grammaticale e linguistico, ma anche e soprattutto perché si stenta a considerare un aspetto essenziale dell'etrusco: che la scrittura è criptica, cioè organizzata e strutturata di proposito con il rebus. E' realizzata per non essere capita se non da pochissimi. Pertanto nella misura in cui si comprenderanno i meccanismi, spesso sofisticati, del rebus, posti di norma in essere dalle scuole scribali dei santuari, si comprenderà la lingua etrusca scritta. Essi sono simili e spesso gli stessi usati dagli scribi dei templi greci e nuragici. In particolare quelli inventati dagli scribi di questi ultimi.
1. Preambolo. Decorazione o segni di scrittura? La solita storia.
Chi non sa, nella lunga storia della scrittura, la vicenda di studioso di J.F. Champollion (1790 -1832)? Quanto dovette insistere ed insistere per far comprendere ed infine accettare dal mondo ‘scientifico’ (quello ancora influenzato da incredibili ma osannati elucubratori come il padre gesuita tedesco Athanasius Kircher) che i glifi egiziani, quelli che a migliaia si trovavano in Egitto nelle tombe e nei monumenti non costituivano semplici simboli o decorazioni ma scrittura? Dovette lottare adducendo prove su prove prima che accademie, storici dell'arte ed epigrafisti blasonati, si decidessero ad ammettere che i segni pittografici che riguardavano i cartigli di Cleopatra e Tolomeo (1) avevano valore fonetico e che, se quei segni venivano usati alfabeticamente per notare i nomi dei due sovrani, voleva significare che tutte le scritte erano leggibili in quanto estensibili alla lingua egiziana, alla sua fonetica, alla sua grammatica e alla sua sintassi. Oggi parlare di scrittura ‘egiziana’ è un fatto normale; l’egittologia non solo come archeologia ma anche e soprattutto come ‘epigrafia’ è un dato indiscutibile e costituisce un ramo ben preciso della scienza storica del passato. Non bisogna però dimenticare che appena due secoli fa l’egittologia era solo curiosità di antichisti e affari per mercanti di tutto il mondo.
Dunque, nella storia della scrittura si assiste a qualcosa di costante e di ripetitivo: il mondo scientifico mostra la ‘normale’ tendenza a respingere, sulle prime, il fenomeno d’immagine o iconografico che non comprende, a negarlo decisamente come dato di scrittura. Le immagini sono immagini, possono rientrare anche nella categoria dei simboli ma è impossibile che possano costituire, magari insieme ad altre immagini ancora, un sistema di regole che hanno lo scopo di organizzare catene di significanti fonetici esprimenti una determinata lingua.
Si capisce che, anche ai livelli più alti dell’alfabetizzazione, all’origine della negazione c’è il pregiudizio della norma, della chiara evidenza o ‘visibilità’, per la quale solo gli alfabeti (fenicio, ugaritico, aramaico, greco, latino, ecc.), cioè un certo numero di segni in sequenza, più o meno schematici, sempre quelli e non altri, costituiscono 'scrittura'. L’abitudine della tradizione data dalla ‘scuola’ è tale che anche il meno ‘alfabetizzato’, vale a dire chi conosce le ‘sue’ sole lettere dell’alfabeto strumentale, sa ‘riconoscere’ (o pensa di riconoscere) ciò che è scrittura e ciò che non lo è. Eppure nella nostra esperienza quasi quotidiana ci è dato di constatare che, anche chi riconosce il suo codice e, per analogia e somiglianza, quelli altrui, paradossalmente ‘intuisce’, di fronte a dei ‘segni’ chiaramente non accidentali (tipico è il caso della cospicua documentazione sarda del segni ‘astiformi’ accompagnati o non da una certa puntuazione) che anche in quei segni misteriosi, non ‘decifrabili’, possa nascondersi una qualche manifestazione di ‘scrittura’. In altre parole, le persone riconoscono come ‘scrittura’, anche se non la decifrano, i segni notanti intenzione ‘comunicativa’, suono e quindi linguaggio. Ciò però accade se i segni insistono su di un supporto, su di una superficie più o meno piana e adatta allo scopo del ‘grafein’ (disegnare incidendo e riportare ‘segni’). Tre o quattro lettere schematiche in sequenza costituiscono una qualche scrittura, ma anche quattro oggetti (poniamo una rete da pesca, un pesce, le onde del mare ed una barca), disegnati su di una certa superficie, fanno sospettare che lo siano. E ciò in quanto è intuitivo per l’intelligenza di ognuno, anche se nulla si sa di epigrafia e di paleografia, che possano essere ‘ideogrammi’ ovvero ‘segni’ che suggeriscono un’idea e in quanto tali prodotto di ‘scrittura’. Scrittura ‘diversa’ ma pur sempre scrittura. Quale archeologo o studioso di antichità non ha fatto l’esperienza d' essere avvertito circa dei massi ‘scritti’ persino quando essi altro non hanno che delle linee accidentali create da aratri e ruspe oppure da chi ha voluto, semplicemente, affilare un coltello, una scure o la punta di una spada? Il dato epigrafico non sussiste, ma il sospetto però è sempre quello della presenza di significanti tracciati per organizzare ‘scrittura’ e realizzare senso. Scrittura riconosciuta con/per ‘segni’ arcani era persino quella che tracciava una ispiridada o coga sarda degli inizi del secolo scorso, pur essendo la donna del tutto analfabeta. Anzi si può dire che essa costituiva, per certe persone, ‘scrittura’ più delle altre scritture perché potente, magica, al di fuori della conoscenza e della possibilità di interpretazione di tutti. Scrittura validissima proprio a motivo del non senso apparente. Tanto che nessuno dei ‘credenti’ poneva in dubbio che i ghirigori di una analfabeta tracciati a caso per un foglietto di uno scapolare magico potessero costituire scrittura. I ‘segni’ di per sé, se intenzionali, qualunque tipo di segni, costituiscono dunque scrittura, sono sempre comunicativi. E non importa se il destinatario di essi possa essere un dio, un demone, un uomo. Non importa addirittura se possano essere ‘strambi’, illogici, anarchici ed evidente esito del capriccio di una mano che agisce con una punta che lascia traccia di sé ovvero ‘segno’.
2. La negazione della scrittura spesso frutto del pregiudizio di ‘scuola’. La ‘convenzione’ come base della scrittura.
Questa introduzione, per altro basata su aspetti molto noti e assai discussi dagli studiosi dei ‘segni’ e del linguaggio scritto (che ‘cosa è’ la scrittura, ‘cosa si intende’ per scrittura e ‘cosa può essere definita’ propriamente scrittura), per dire che la negazione della ‘scrittura’ spesso si attua non su basi scientifiche di riflessione su cosa sia la scrittura stessa e come essa si comporti e possa originalmente comportarsi, ma su dei consolidati ‘tirannici’ pregiudizi dovuti alla ormai millenaria ‘tradizione’ occidentale sulla trasmissione del linguaggio attraverso i segni ‘alfabetici’. Si dimentica però, molto spesso, che la scrittura è mera ‘convenzione’ e che, senza la conoscenza della convenzione (cioè dell’accordo dei fruitori sull’uso di determinati segni), praticamente la ‘scrittura’ non esiste. L’analfabeta, si sa, non è altro se non colui che ignora cosa vogliono dire determinati ‘segni’ per consenso della comunità colta. E’ sempre per convenzione comunicativa per ‘segni’ che nella comunità si indossa un abito nero o uno bianco. Si attua così scrittura per immagini concrete e astratte e nel contempo lettura. Quella scrittura della 'scuola impropria’ che rapidamente annulla, perché aperta a tutti, l’analfabetismo e fa sì che nessun analfabeta e nessun ignorante possa esistere nella comunità.
Chiunque di noi può inventarsi una scrittura, magari con un solo fruitore interlocutore, ma bisogna che sussista l’accordo per il quale i ‘segni’ esprimano ‘quello’ e solo quello e non ‘altro’ di senso. Non ci può essere l’arbitrio per l’uso del codice. Si sa che la prima lettera dell’alfabeto è, comunemente, l’antico segno (reso sempre più schematico e non più pittografico), della protome del ‘toro, bue’ del semitico consonantico; ma ciò non ha impedito che per ‘convenzione’ il segno, perdendo del tutto la sua antica notazione di consonante aspirata, diventasse solo vocalico. E’ stato per accordo generale che il codice linguistico indoeuropeo, ricchissimo di vocali all’inizio e alla fine delle parole, si è potuto servire addirittura di una consonante (mater lectionis) per esprimere la vocale ‘a’ e non più l’aspirata semitica originaria. Si sarebbe potuto inventare qualsiasi altro segno per notare la ‘vocale’, ma si è preferito, e per comodità e per facilità di riconoscimento o per gusto (o per altri motivi ancora), adottare un segno ‘noto’ anche se di suono differente. Ma è sempre la ‘convenzione’, una specie di ‘patto segnico’ tra i fruitori, che lo ha permesso e non altro. Quindi dobbiamo pensare che gli scribi di certi celebrati e potenti santuari del Mediterraneo, ben consapevoli del dato fondamentale della ‘convenzionalità’, non abbiano faticato più di tanto per darsi anche dei segni ‘propri’, creando nel contempo il sistema di regole o codice attraverso il quale la comunicazione scritta poteva diventare reale, sicura, permanente all’interno di una certa comunità. Una convenzione ‘scribale’ per pochi e regolata da pochi, perché la scrittura è per l’interno e non per l’esterno, per la scuola ‘religiosa’ e solo per essa; a partire da un certo momento in poi ‘sacra’ e immutabile se non per intervento e approvazione della scuola stessa. Le note complessità dei codici ‘religiosi’, in opposizione ai codici ‘laici’ con alfabeto standard, fisso e praticamente ‘aperto’ a tutti i fruitori (protosinaitico, ugaritico, gublitico, aramaico, fenicio, greco, latino, ecc.), si spiegano con la specifica funzionalità elitaria di essi, cioè col fatto che la scrittura deve stare, all’opposto, nel ‘chiuso’, appannaggio di pochi e spesso di pochissimi. Codici ostici come quello greco di Pito (4), quello nuragico e quello etrusco sono tutti autonomi per specifiche ‘convenzioni’ proprie, tanto da diventare ‘nazionali’, anche se è abbastanza chiaro che operano per via sia diacronica che sincronica nei confronti di tutti gli altri codici di scrittura, tenendoli sempre sott’occhio. Sembra quasi di vedere gli scribi dei santuari che, pur non potendo variare più di tanto circa le tecniche della realizzazione della scrittura, attuano però nelle rispettive scuole degli accorgimenti e delle innovazioni che in qualche modo li rendono originali, mai ‘volgari’ imitatori. Anche perché, nell’organizzazione della scrittura, è lo stesso codice linguistico a fare talvolta la differenza di sistema e a dettare certe regole. Il codice linguistico consonantico - vocalico degli etruschi, ad esempio, non consente il mero consonantismo, quello che invece, tranne in rarissimi casi, è tipico del nuragico che si serve del semitico della lingua ‘alta’ e sacra dei testi religiosi cananaici e paleoebraici.
Una
delle dette convenzioni, anche dei codici più recenti e non solo di quelli
antichi ed antichissimi, è quella dell’acrofonia, senza la quale, a quanto
sembra, il sistema scrittorio santuariale
si può dire che quasi non riesca ad agire. Nascondere il suono nella catena
ordinata dei segni, anche non
specificamente alfabetici, è agevole se si ricorre all’espediente attraverso il
quale si ottiene fonetica (fonetica certa e non arbitraria), attraverso il
semplice principio che ‘conta’ il suono che viene prima di una determinata
parola e solo esso. E’ il principio che adopera anche la scuola scribale del
Santuario di Pito (5). Tanto che non
è molto difficile, conoscendosi la lingua, interpretare il significato ‘metagrafico’ (6) dell’Apollino, ovvero della statuina androgina del museo di Glozel.
L’invocazione al Lossia cacciatore data per via acrofonica (v. fig.
2) è deducibile perché la sequenza dei
significanti acrofonici (Onphalos, Lukos, Ormos, Xiphos, Akmh: O LOXIA),) svela la presenza del
greco, di quel greco (tragico e paratragico) impiegato più ‘manifestamente’ nelle
interiezioni di invocazione, riportate con scrittura lineare alla base della
statuina (7). Sono due tipologie
diverse di scrittura ma si comprende in breve che entrambe costituiscono
scrittura. E’ inutile dire che i tentativi, non a caso del tutto infruttuosi, di decifrazione della scrittura di Glozel si
sono effettuati esclusivamente sulla base della seconda scrittura, quella
lineare e ritenuta essa solo scrittura, e non ‘anche’ sulla base della prima,
quella offerta dalle immagini o ideografica, ritenuta viceversa non scrittura. Nel caso specifico per gli ermeneuti di
tradizione scolastica la base della statuina aveva certa scrittura (anche se
non si capiva quale) ma la statuina di
per sé non ne aveva alcuna. Non ‘poteva’ averne. Tanto che il Corpus del Morlet (8) riporta i segni ‘alfabetici’ di tutti i documenti quelli che, per
pregiudizio, ritiene scritti ma mai, per ignoranza del comportamento del codice
greco arcaico, i ‘significanti’ fonetici
costituiti, per acrofonia, da oggetti e da animali (9). In Francia dunque, nella prima metà del Novecento, gli
studiosi, senza accorgersene, si comportavano (e ancora si comportano) nei confronti della scrittura nello
stesso identico modo dei colleghi della prima metà dell’Ottocento. Champollion,
si può dire, non aveva insegnato nulla
sulle apparenti non scritture.
Ci sembra di capire però che gli scribi dei
santuari, molto attenti alla non decifrabilità del codice, si siano presto resi
conto della vulnerabilità del sistema ‘acrofonico’ che potremmo chiamare ‘diretto’, cioè quello
basato sulle voci date dai disegni o pittogrammi subito visibili e
riconoscibili. Per scribi abituati, da secoli e secoli, a maneggiare
l’acrofonia, leggere e comprendere una certa voce o formula religiosa non era
certo difficile; tanto più poi se le
sequenze degli oggetti o degli animali rappresentati, ovvero la direzione della
lettura, erano poche o quelle sempre obbligate (10). Escogitarono quindi (almeno così ci risulta dal confronto
della scrittura del santuario pitico con quella dei santuari nuragici ed etruschi),
sempre su basi convenzionali, il criterio che l’acrofonia non dovesse essere
resa solo e non tanto su base diretta e oggettiva, cioè dell’impressione
immediata, ma su base indiretta: era l’idea
o l’aspetto dato dal segno che suggeriva la voce su cui poi basare l’acrofonia.
Insomma, se raffiguriamo un cane non dobbiamo
partire necessariamente dall’acrofonia della voce ‘cane’ ovvero dalla
consonante ‘C’, ma dall’acrofonia suggerita per ‘come’ è realizzata la figura o
segno ‘cane’. Quindi potrebbe essere quella di ‘ascolta, assale, ringhia, è contento
(scodinzola), ecc. Ognuno può rendersi conto di quanto più difficile sia
l’acrofonia indiretta rispetto a quella diretta. Quanto sia problematico inoltre
decodificare un testo dove acrofonia
diretta e indiretta possono risultare, per convenzione, coesistenti o in mix . Ma la prima è l’acrofonia che stava molto
bene a chi voleva ‘nascondere’ il più possibile certe parole ‘sacre’ e
intoccabili; parole che proprio a motivo della loro sacralità, una volta
svelate, avrebbero perso della loro efficacia protettiva e della magia
salvifica. Ma forse stava bene anche a chi, semplicemente, considerava la scrittura
non strumento per comunicare con gli uomini ma con la divinità. Una scrittura
attuata attraverso ‘geroglifici’, insomma.
Questo dell’acrofonia diretta o indiretta o
in mix è dunque il primo scoglio per chi vuole affrontare il compito assai
impegnativo dell’interpretazione della scrittura nuragica ed etrusca. Chi vuole
capire e ‘tradurre’ un bronzetto o cosa c’è scritto in un sarcofago o in un’urna
o in oggetti attinenti alla ‘religio’ etrusca, deve rassegnarsi ad affrontare pazientemente
il rebus del lessico (in genere è greco o latino per l’etrusco e semitico per
il nuragico) che si cela dietro l’apparenza delle forme e delle immagini. Non
sempre (11) sono un berretto o un
elmo nuragico o la collana di un nobile o di una matrona etruschi che suggeriscono il dato acrofonico ma l’idea che
danno il berretto, l’elmo o la collana. E’
la voce che è resa con l’idea che ha
il giusto e vero significato e rende ‘suono’.
Le cose però, così già abbastanza complicate,
si complicano ancora di più perché, per convenzione, la scritta ‘deve’
possedere anche il dato numerologico
e quello ideografico; cioè non solo il messaggio nascosto viene espresso
attraverso consonanti e/o vocali, esito di acrofonia (mettiamo ad es. la voce
‘ab(a) in nuragico e la voce ‘apa’ in etrusco), ma anche attraverso numeri (12) che suggeriscono parole (aritmogrammi) o parole che suggeriscono
numeri (13) e attraverso immagini
che sempre in maniera indiretta suggeriscono lessico (ideogrammi) e non più consonanti o vocali. Un insieme dunque di non poche convenzioni e norme che sono fatte apposta, come si è detto, dagli scribi delle
scuole dei santuari per rendere ai più la scrittura (un certo tipo di scrittura)
faticosissima o del tutto inafferrabile quanto a significato.
Ma sarà bene che si passi a degli esempi
concreti, cominciando dal dato ideografico
della scrittura etrusca e lasciando a interventi
(post) successivi quello relativo alla numerologia e alla stessa acrofonia. Il
motivo di questa scelta temporanea e particolare non è altro se non quello
della comodità, della più facile comprensione e della più pronta accettabilità se
si opera su base ideografica rispetto a quella acrofonica o quella numerologica.
L’ideografia poi, in quanto tale, non ha bisogno di specifiche conoscenze
linguistiche, perché un ideogramma assume sempre lo stesso significato in
qualsiasi lingua lo si voglia riportare. Dire anticamente in etrusco o in latino o greco oppure dire
oggi in inglese o in italiano non cambia nulla. Gli ideogrammi, si sa, in quanto tali, sono universali.
3. La formula
scritta nel coperchio. Il significato dell’anello e del cuscino. Il ‘doppio’ e
la coppia divina TIN/UNI.
Come abbiamo detto e
sostenuto in altri interventi, anche recenti (14), i coperchi dei sarcofaghi etruschi sembrano presentare tutti
la formula ‘e del padre e della madre
(atic apac ) certo doppio sostegno’.
Abbiamo raggiunto questo risultato ermeneutico generale anche e soprattutto perché
da subito è maturata in noi la convinzione che il coperchio del sarcofago (ma
vedremo che ciò varrà anche per il sarcofago intero) fosse ‘scritto’ e non solo
‘decorato’ sulla base del dato empirico,
del topos o significante continuo (15),
dell’anello sigillo posto nel dito
del defunto e del cuscino (in genere
doppio) che ‘segue’ sempre ad esso. Ora,
se consideriamo le immagini come
‘scrittura’ ideografica, non baderemo alle voci ‘anello’ e ‘cuscino’, ma solo
all’idea che a noi può offrire, in un
sarcofago, cioè in una ben determinata ‘situazione’, la sequenza anello sigillo - cuscino. Risalire alla idea
che dà la lettura ‘certo, sicuro, garantito ’, dell’anello e a quella di
‘sostegno, appoggio, base’ del cuscino è, crediamo, abbastanza agevole. In un
coperchio di un sarcofago, cioè di un oggetto relativo alla custodia dei resti del defunto (16) per il suo passaggio nell’aldilà,
leggere ‘garanzia del doppio sostegno’ non è certo operazione arbitraria e campata
per aria. Semplicemente perché chi conosce la religio etrusca sa di un
particolare ‘doppio’, sa di una coppia inscindibile
androgina, cioè Tin e Uni ( Sole e Luna), che sono divinità (specialmente la seconda), che hanno a che
fare, stante la loro potenza ‘luminosa’,
con la ‘religio’ dei morti circa la speranza di rinascita. E chi conosce
l’archeologia etrusca sa ancora della significativa
ripetizione del ‘doppio cuscino’ (addirittura colorato di ‘rosso’, ovvero
con il segno inequivocabile della ‘rinascita’) nei 13 loculi della famosa tomba
dei ‘Rilievi dipinti’ della necropoli della Banditaccia di Cerveteri (17). Dato questo assai significativo e che ovviamente fa
sospettare che anche il consueto doppio cuscino dei sarcofaghi dei nobili
etruschi abbia il valore del rosso e
quindi costituisca non tanto ‘decorazione’ quanto segno di scrittura
ideografica alludente alla rinascita ad opera di un ‘due’.
Si noti
subito che, se noi ritenessimo ‘ anello’ e ‘cuscino’ come elementi decorativi, la nostra ‘lettura’ non potrebbe andare aldilà
di una interpretazione in chiave artistico - estetica e di una simbologia
attinente allo status sociale del defunto. Per siffatta lettura l’autore del sarcofago avrebbe raffigurato
quelle immagini semplicemente perché voleva ‘significare’ l’autorità, la
nobiltà e la ricchezza del defunto
sostenuto dal cuscino del divano sul quale abitualmente stava a banchetto (o
per altro ancora). Ma così procedendo nulla
vieta di sospettare e di pensare legittimamente che si
resti del tutto in superficie e nel banale perché la simbologia ci parlerebbe
solo di potenza, di ricchezza e di fasto terreni, mentre un sarcofago (o urna cineraria
che lo si voglia chiamare) dovrebbe
avere, per sua natura, simbologie ‘logiche’ ben più profonde, come quelle
legate alla morte e non alla vita. Contenere allusioni prodotte e finalizzate, semmai,
ad esorcizzare la ‘catastrofe’, ad allontanare dubbi e timori,
ad annullare l’ansia del dilemma vita - non vita (18).
Come reagiscono in genere gli studiosi e gli etruscologi di fronte a
ciò, di fronte al dato (apparente) di personaggi felici e banchettanti, ornati e coronati,
accompagnati spesso da leggiadre e affettuose concubine, anch’esse con simboli
d’onore e di reputazione? Con una risposta semplice e solo apparentemente
esaustiva: che gli etruschi immaginavano lo status dell’aldilà non diverso da
quello terreno: un mondo di felicità, di banchetti e di passioni amorose che
proseguiva senza soluzione di continuità e senza sostanziale diversità. Cosa
che può anche essere. Ma la risposta potrebbe
configurarsi come una ‘decifrazione’
dimidiata in quanto le immagini potrebbero contenere messaggi anche o del tutto diversi, non immediati, offerti da una
scrittura-lettura nascosta, più
complessa e molto più pertinente. E’
appena il caso di far presente che spesso la ‘prosaicità’ della risposta è tale
da far persino congetturare che le dita raffigurate con enfasi nel coperchio del famoso ‘Sarcofago degli
sposi’ di Cerveteri realizzerebbero atti
per sorreggere ‘coppe’ per banchetti, o per tenere uova o afferrare oggetti per
versare profumi. Quasi che quelle mani con le dita chiaramente atteggiate a ‘C’,
cioè mani esprimenti segni, suoni e linguaggio, non le si riscontrasse più volte nella
simbologia delle stesse urne cinerarie e senza la presenza di alcun
banchettante e gaudente!
Ma, a prescindere da quanto si è detto come
preambolo sull’esistenza di un certo tipo di scrittura, etrusca (e non) e su
quanto abbiamo già scritto su di essa (19),
come si fa a rendersi meglio conto e a
capire senza equivocare, osservando le immagini del coperchio, se ci troviamo a
dover considerare solo estetica e decorazione oppure anche altro (e ben altro)?
Come si fa a capire se il dato linguistico - ideografico da noi proposto sia accettabile oppure
non, perché magari risultante di un
semplice frutto del caso? Come possiamo dimostrare insomma, senza che possano
insorgere dubbi, che una lettura finale su basi ideografiche ‘garanzia
di doppio sostegno’ non sia solo
parto di fantasia o di pura elucubrazione? Il modo per fortuna c’è e consiste
non tanto nel sottolineare la ripetizione continua dell’evento (che sarebbe già
di per sé - come sappiamo - un promettente avvio per consistenza di ‘dato’
scientifico) quanto nel rimarcare il fatto che, in modo quanto mai chiaro, il ripetitivo svela, in virtù delle numerose
varianti d’immagine escogitate via via dagli scribi artigiani, che la ‘variatio’ non
modifica per nulla (e semmai tende ad accrescere) il significato generale che
hanno in comune i significanti. In altre parole, se è vero che noi da un lato nella
lettura registriamo il fatto che non si
hanno notevoli varianti circa la figura
- segno ‘cuscino’, dall’altro registriamo anche il dato della presenza di non
poche varianti segniche, vale a dire di ideogrammi, sempre molto significativi,
che
tendono a suggerire un’ idea identica o uguale o simile a quella che offre l’anello sigillo (‘certezza’, ‘garanzia’, ‘sicurezza’, ecc.); oggetto
questo - si badi - sempre collocato in
rapporto stretto di sequenza di lettura con il ‘pulvinar’ (o ‘cervical’). Infatti, se con operazione comparativa, strettamente
filologica, mettiamo a confronto i vari (20)
coperchi dei sarcofaghi, ‘leggendo’ proprio in ‘quel punto’ la sequenza delle immagini realizzate, noteremo
che gli scribi artigiani etruschi disegnano (o fanno disegnare) su progetto, oggetti
o aspetti figurativi che tendono a ‘qualificare’ meglio la voce fissa che si
ricava dal ‘cuscino’, ovvero quella di ‘sostegno’. Un sostegno che,
evidentemente, non è un appoggio qualsiasi
e che pertanto, anche per magia del dato ‘scrittorio’, bisogna che venga enfatizzato
circa la sua forza e la sua validità.
4. Esempi relativi
alle varianti segniche ideogrammatiche. Persino
il ‘fare le corna’ è variante.
Gli esempi che si possono
fare sulla ‘stringa di significato’ finale del coperchio del sarcofago sono
numerosi, ma forse basteranno le seguenti immagini di coperchi assai noti per dimostrare che la ‘variatio’ interviene - talvolta in modo spettacolare e assai
sofisticato – rispettando, come si è detto, sempre la stessa sfera semantica, estensibile, senza difficoltà, al concetto di ‘sostegno’. Per
mera comodità ci riferiremo ad essi indicandoli con
un semplice numero d’ordine.
N.1
La mano sinistra della defunta, porta al
dito un anello. Il significato sarà quello di ‘garanzia di doppio sostegno’. Ci
troviamo di fronte al dato più comune di significante (il sigillo) estensibile agli
ideogrammi ‘cuscino’ e ‘ sostegno’. Si
noti però che Il significante ‘anello’ è preceduto dal significante ‘cintura’
con il nodo. Il valore ideogrammatico di quest’ultimo, ovvero di ‘fermezza,
certezza, sicurezza’, si può aggiungere senza difficoltà di senso: certa
garanzia del doppio sostegno.
N.2
Se in questo caso risulta mancante, ma non
sembra, l’anello sigillo, il segno che
precede la lettura ‘sostegno’ sarebbe dato dalla sola cintura che ‘rende ferma ,
assicura’ la veste (il chitone). E’ più che probabile che il nodo stesso , così
come nel n.1, tenda ad accentuare il significato della cintura. Quindi avremo: sicurezza
(assoluta certezza) del
doppio sostegno’. Se invece l’anello
fosse presente si avrebbe il senso preciso del n.1.
N.3
Qui il dato non è subito avvertibile e chiaro
come nei due casi precedenti. Lo si ricava però dal linguaggio delle mani (21). Infatti, la mano sinistra del
defunto ha la palma stesa, rivolta verso l’alto. Il suggerimento ovviamente è
quello di ‘palmaris’ che significa in latino ‘straordinario, eccellente, meraviglioso’.
L’aggettivo stavolta qualifica in modo diverso la natura del ‘sostegno’, ma il senso della ‘mano palmare’
(che potrebbe avere anche quello di ‘evidente, chiaro’), comunque, non cambia
rispetto a quello di sicurezza dato
dalla ‘cintura’. Un sostegno ‘eccellente’ è ovviamente un sostegno sicuro. Se,
come sembra, la mano (si noti l’accorgimento
della mano - segno dell’uomo disposta proprio al di sopra del doppio cuscino)
del nobile defunto porta l’anello sigillo, come negli altri casi, la lettura
sarà: straordinaria (oppure
evidente) garanzia del doppio sostegno.
N.4
Stavolta l’allusione si mostra più densa di
significato. La lettura chiaramente si complica un po’ in quanto
l’anello sigillo si trova accompagnato da altri due ‘segni’ evidenti: l’indice della mano e l’oggetto stretto dalla palma della mano. Mano e dita,
come vedremo nell’esempio successivo, costituiscono sempre nella singolare scrittura
dei coperchi dei sarcofaghi (e non solo in questi: anche nelle urne cinerarie,
ad esempio) segni non trascurabili in quanto realizzano ben precisi
significanti. A cosa allude il ‘segno’ indice? Esso, a nostro parere, si riferisce al senso di ciò che viene scritto
e specificato prima e che si completa
nel cuscino indicato . Se il senso precedente della sequenza scritta è quello di apac atic vorrà dire che essi (22),
‘e padre e madre’, costituiscono, sono ‘indice’ di ‘straordinaria garanzia del sostegno. Si osservi però che il
cuscino presenta tre bottoni,
particolare anch’esso non senza significato, come quello dell’indice della mano.
Infatti viene specificato che il
sostegno è del ‘tre’, ovvero del numero ternario ciclico che in etrusco,
insieme al ‘sei’ ( e non è un caso che talora i segni del cuscino siano 3 +3),
ugualmente ciclico, allude e sostituisce la divinità androgina luminosa TIN/UNI
(Sole/Luna). Sono il padre e la madre ad
essere entrambi ‘tre’. Non difficile appare
allora il valore segnico dell’oggetto impugnato dal defunto. Se esso è un
documento scritto e se si trova, come si
trova, in rapporto di senso con il sigillo, vorrà dire che esso documento è ‘certo, valido, sicuro’ (certificato). Pertanto la lettura per ideogrammi non può che
suggerire la sequenza: ‘ indice
di certa garanzia del sostegno (23) del tre .
N. 5.
Si osservi subito in questo sarcofago di
forte espressionismo e ricercatezza (tanto che si potrebbe definire ‘barocco’)
che la mano sinistra della donna mostra
l’indice mentre quella sinistra dell’uomo mostra l’indice e il mignolo aperti e
il medio e l’anulare chiusi. Nessuno può certo pensare che quei segni della mano
dell’uno e dell’altro, così ‘particolari’, siano senza significato e cioè che non siano
ideografici. Il segno gesto della mano dell’uomo inoltre è tale (fare le corna), tanto realistico e
tipico, che con molta difficoltà, evidenziato com’è (messo. si direbbe, in prima ‘fila’), lo si può considerare non
intenzionale e non comunicativo. Un
segno siffatto è ovviamente scaramantico perché esso, così come quando la mano
pone ad arco sia il pollice che l’indice (24),
assume la forma (tarda) squadrata della lettera ‘C’ in etrusco. Lettera
apotropaica che allude al ‘tre’ della catena alfabetica. Ma la segnica
particolare del fantasioso ma non del tutto originale (25) scriba artigiano non si ferma qui. C’è ancora la
consistente ‘variatio’ della mano ‘cornuta’ che si trova abbinata ad una
‘schiacciata’. La mano è’ collocata su di un segno inequivocabile per senso come
il ‘pane’ che non può che alludere, offrire l’idea di ‘alimento’,
‘sostentamento, ’energia’ che dà la
vita. Si nota però anche che Il ‘doppio cuscino’ stavolta non è messo in
evidenza, ‘frontalmente’, come di norma. Risulta quasi annullato e in secondo piano quanto a visibilità rispetto
al segno ‘pane - alimento’. Questo dettaglio sembrerebbe suggerire che il segno
‘pane -alimento’ prende il posto del segno ‘ cuscino doppio - doppio sostegno’
oppure, in subordine, che esso abbia il
valore del semplice numero ‘due’. Se così fosse, aggiungendo il solito valore dell'anello sigillo, la lettura finale del
‘documento’ coperchio, sarebbe: indice di sicura garanzia di doppio sostentamento. Come si vede le cose
non cambiano per nulla quanto a significato. E’ superfluo il
dire che il ‘fare le corna’ allude
all’atto magico scaramantico che pone in essere un ostacolo, un impedimento,
una difesa sicura, cioè una ‘garanzia’ perché avvenga qualcosa che si desidera contro
qualcosa che non si desidera e/o si teme. Pertanto è atto apotropaico, tendente a dare sicurezza
e ad annullare il negativo e cioè il pericolo che la rinascita del defunto non
avvenga e che questi non possa godere della luce eterna, servirsi del ‘sostentamento’ e del padre e della madre
celesti.
N. 6.
In
questo sarcofago il dato della ‘variatio’ è assai ricercato, raffinato e, diremmo,
spettacolare. E in questo suo essere si presenta ancor più come prova eccellente
del nostro assunto, non essendo minimamente equivocabile il suo significato. Quasi
come una ‘garanzia’ per l’ermeneutica, sempre soggetta, anche quando si va
cauti, ai rischi di prendere fischi per
fiaschi. Per nostra somma fortuna, il coperchio ha subito gravi danni solo
nella parte superiore destra (quella però abbastanza scontata, dato il
simbolismo della ‘patna’ anticipato forse dal braccio proteso) rimanendo invece
del tutto integro in quella inferiore: altrimenti non avremmo potuto godere
della bella ‘variatio’ di forma (ma non certo di senso), posta in essere in virtù di ciò che
tiene in mano il personaggio defunto. Infatti, questi mostra, nella palma della
mano sinistra, l’immagine di un chiaro fegato, alludente ovviamente
all’epatospicina, pratica di origine ‘orientale’ tanto in uso, come
tutti sanno, nella ‘religio’ etrusca. A cosa mai può alludere il fegato così ostentato, un organo - si badi bene –
immacolato, pulito, sano, se non alla sicurezza, alla ‘garanzia’ di buona
sorte? E’ col fegato, precipuamente, che si traggono
le sorti buone o cattive (26) a
seconda del suo presentarsi. Il fegato è garante ,per intervento divino, di ciò
che ineluttabilmente accadrà. Potrebbe sembrare
strano ma risulta del tutto evidente, a questo punto, che un ‘fegato sano’ può
stare al posto di un ‘anello sigillo’ oppure (come si vedrà più avanti) ad una melagrana. E
ciò perché i ‘segni’ suddetti non costituiscono altro che significanti
ideogrammatici, varianti formali d’immagine che tendono a dare sempre un ‘certo’
significato che rispetti la canonica formula insistente nel coperchio del
sarcofago. Tutti tendono a dare il senso della sicurezza e della garanzia, anzi
della assoluta certezza e garanzia. Quindi
il significato della parte finale scritta del coperchio del sarcofago sarà ancora
quello di ‘certezza assoluta, garanzia
del doppio sostegno’, ma con l’aggiunta numerologica (numeri che danno
parole) di Tin/ Uni.
N.7.
Questo
coperchio, osservato e ‘letto’ nel suo aspetto generale, testimonia e conferma forse
ancora di più degli altri, con le sue non poche e sofisticate varianti, il dato che i segni
offrono acrofonia, aritmogrammi e ideogrammi. Ideogrammatici sono ancora una
volta, come quelli che si sono visti attraverso
gli altri esempi, gli ultimi
segni, quelli dati dalla ‘cintura’ , dal
solito ‘doppio cuscino’ e dall’ oggetto tenuto dalla donna nella mano. Si
tratta di una melagrana. In questo frutto il segno ideogrammatico è riposto
nella colta allusione mitologica del
‘patto’ che riguardo la giovane Core (27), La melagrana risultava (e non solo per i greci e gli
etruschi) simbolo di ‘pegno’ e quindi di ‘garanzia’. Essa assume
così iI valore identico degli altri significanti da noi addotti ad esempio:
fegato, anello sigillo, gesto delle corna.
La lettura sarà dunque: sicuro straordinario doppio sostegno.
n. 8.
Rimandando al post successivo la
trattazione del resto del documento e del
valore ideografico dell’immagine ‘pane’ (mano destra della donna) non più come
segno ideografico ma come segno acrofonico, si può notare anche qui, senza
sforzo, la variante del segno indicante
‘certezza’, realizzata con la ‘cintura annodata’. La lettura sarà dunque come quella
dell’esempio n. 1 e n.2.
Per comodità del lettore forniamo la
seguente tabella comparativa delle varianti formali, addotte ad esempio, della
parte finale di senso del coperchio dei sarcofaghi.
(continua)
1. V. Duvall
J., L’evoluzione dei nomi , in Civiltà antiche. I segreti dei geroglifici,
Napoli, 2001, p. 25.
2. V. Florian Coulmas, 1999, Maya writing, in The blackwell Encyclopedia of Writing systems, Blackwell
publishing, Oxford, pp. 329 -333: ‘The
chief fault of early work on Maya was that no attempts were made to interpret
the glyphs as a representation of language. Most of the scholars involved wewrw
trained as archaeologists an had no knowledge of any Maya language or
linguistics methods vhich could be employed in establishing a link between
language an writing (p. 329).
3. V. Florian Coulmas, 1999, Maya writing, in The blackwell Encyclopedia of Writing systems, ecc. cit. ‘the
writing system consist of multifunctional glyphs serving as both logograms and syllabic signs, the latter having
acquired their phonetic values on the basis of the REBUS PRINCIPLE
(p.331).
4.
V. Sanna G., 2007, Da Tzricotu (Sardegna) a Delfi (Grecia), percorrendo Glozel (Francia). I segni del Lossia Cacciatore. Le lettere
ambigue di Apollo e l’alfabeto proto greco di Pito, S’Alvure ed.
Oristano.
5.
V. nota precedente.
6.
Per ‘metagrafica’ intendiamo quella scrittura che si ottiene non con il riporto
dei segni su di un supporto (in genere liscio o levigato: una pietra, una
tavola di bronzo o di altro materiale, un oggetto in ceramica, una fusaiola in
steatite, ecc.) ma attraverso il
supporto stesso o ‘con’ oggetti o
aspetti in esso raffigurati che rendono acrofonia, numerologia e ideografia (un
nuraghe, una tomba di Giganti, la
facciata di un tempio, un oggetto scaramantico o votivo, un coperchio e la cassa di un sarcofago, un’urna
cineraria ecc.).
7.
V. Sanna G., 2007, ΑΝΑΘΗΜΑΤΑ 4. Icone
del Dio Lossia e di persone con scrittura pittografica acrofonica e lineare,
in Da Tzricotu (Sardegna) a Delfi (Grecia), percorrendo Glozel (Francia). I
segni del Lossia Cacciatore. ecc., cit. pp. 381 - 409.
8.
Morlet A., 1965, Corpus des Inscriptions,
Causse et Castelnau, ed., Motpellier.
9. Persino di fronte a delle vere e proprie ‘mostruosità’ documentarie, come quelle del
‘serpente abbinato al cavallo’ o un
‘cavallo accorpato ad un uccello’
(Morlet, Glozel II, p.89
fig.51, 1 -3) non si andò al di là delle simbologie (naturalmente senza
spiegazione alcuna), nonostante le evidenti e semplici acrofonie attestanti
l’origine delle antichissime interiezioni di acuto dolore (σχετλιαστικὰ ἐπιφωνήματα) della lingua tragica e paratragica greca ( ἰή,
ἰώ, ώ ώ, έ έ, ecc.).
10.
In genere lettura dall’alto verso il basso, in senso antiorario, da sinistra
verso destra e ‘davanti dietro’ ( es. il cavallo davanti inscritto su di un’oca).
11.
La lettura del ‘metagrafico’ nuragico ed etrusco risulta spesso piuttosto ostica
dal fatto che non sempre si riesce a capire se lo scriba artigiano abbia
adoperato l’acrofonia diretta o quella indiretta. L’esempio della patella (patna in etrusco’: il piatto
per i sacrifici) dei sarcofaghi per formare la voce ‘apa’ è assai indicativo.
L’acrofonia sillabica (pa) potrebbe
essere data sia dall’oggetto sia dal verbo ‘patēre’ (dall’essere il piatto
‘largo’). E così l’acrofonia vocalica (a)
precedente potrebbe essere formata sia dalla voce allex (pollice) sia sa quella di adligare (fermare, trattenere).
12. Tipico è
l’uso del numero ‘sei’ che allude all’unione e alla inscindibilità della coppia
(3 + 3) ovvero dell’androgino, in
nuragico Y/H e in etrusco TIN/UNI. Si veda per detta numerologia riguardante il
‘tre’ e il tre + tre’ ovvero la divinità
nuragica ed etrusca il nostro recente articolo: Sanna G., 2016, Tarquinia. L’ancora della salvezza e il
sostegno della luce di TIN /SOLE e di UNI /LUNA. Il greco - cipriota? Non
c’entra nulla. Semmai il semitico nuragico di Barisardo, in Maimoni
blogspot. com (15 dicembre).
13.
E’ il caso della congiunzione coordinante etrusca etrusca ‘C’ nella formula
‘apaC atiC’ che chiaramente allude al ‘tre’ formale dell’alfabeto etrusco
ripetuta due volte e quindi al ‘sei’ di Tin
e di Uni. Gli stessi TIN/ UNI e
APA/ATI con ‘tre’ consonanti ciascuno danno luogo al lusus del tre, numero ossessivo del sarcofago.
Abbiamo fatto notare più volte, anche di recente (v. bibl. nella nota 12), che la sequenza APA- C – ATI - C è
numerologica in quanto la somma di essi allude al ‘dodici’ cioè alla luce ciclica dei due astri sole e
luna che sono, per la salvezza eterna dei defunti, ‘e padre e madre’.
14.
V. ancora bibl. nota 12.
15.
Non possediamo dati statistici (purtroppo, da quanto sappiamo, non esistono cataloghi
riguardanti i coperchi dei sarcofaghi etruschi) ma ci sembra di poter affermare
che la raffigurazione dell’anello nella mano dei nobili defunti etruschi sia di
gran lunga la più frequente.
16.
Si vedranno, a conforto di questa (e altre) ipotesi di lettura, le stesse
letture delle urne cinerarie etrusche. Tenendo presente per i dati comparativi
e per organicità ‘documentaria’ che anche i sarcofaghi - come si sa - altro non sono che più ‘nobili’ e fastose
‘urne cinerarie’. Il termine greco di ‘sarcofago’ in uso è -come si sa - solo di comodo e del tutto
improprio, anche dal punto di vista
etimologico.
17.
V. Grinsell L.V., 1978, Cimiteri e tombe
etrusche; in Piramidi, necropoli e
mondi sepolti. Riti e credenze sull’oltretomba
nelle grandi civiltà dell’evo antico, New Compton ed., Roma, p. 214.
18. Sui detti timori e sui tentativi di esorcizzare morte e annientamento abbiamo cercato di attirare l’attenzione con il nostro, La tomba etrusca del 'Dialogo sublime' della necropoli di Sarteano (Siena). Il linguaggio del corpo, il numero tre e il trionfo sulla morte; in Sanna G., 2014, Scrittura nuragica: gli Etruschi allievi dei Sardi (I), in Monte Prama blog (1 dicembre).
19. V., tra l’altro, Sanna G., 2014, Stele di
Avele Feluskes. I nobili etruschi figli di Tin e di Uni. Scrittura e lingua dei
documenti funerari. L'acrofonia sillabica e non, la numerologia e la chiara
dipendenza dell'etrusco dal nuragico (II), in Monte Prama blog (28 novembre)
20.
I sarcofaghi da noi presi in considerazione per lo studio sono più di 50. Per
ovvi motivi (il riscontro completo dei significanti che, in un modo o
nell’altro, realizzano sempre la stessa formula) ci siamo affidati a quelli che
risultano integri o poco deteriorati e cioè ‘leggibili’ senza notevoli
difficoltà. Crediamo che il campione possa essere sufficiente a garantire circa
la ‘oggettività’ del dato e quindi sulla intenzionalità degli scribi (di tutta
l’Etruria) nel realizzare un certo tipo di scrittura segreta a rebus organica
alla magia del sarcofago, garante, con essa e per essa, della certezza,
dell’esito sicuro di un felice viaggio e di una pronta rinascita grazie alla
luminosità divina materna e paterna.
21.
Sulla lettura generale di questo singolare sarcofago e sulla particolare
‘scrittura’ numerologica delle mani intendiamo intervenire con un articolo
apposito. Per ora basti il dato, non numerologico, della palma della mano
rivolta verso l’alto come quello che accomuna, ma con variante formale
ideografica, il significante agli altri significanti con uguale o simile
significato.
22.
Ma potrebbe essere, come vedremo, anche qualcosa di diverso e di più
particolare ma sempre riguardante l’essenza e del padre e della madre.
23.
Qui il significante ‘cuscino’ è semplice e non doppio. Forse perché
‘condizionato’ dal tre, numero
singolo che accomuna la divinità androgina TIN/UNI. Sul detto ‘tre’ singolo
(cioè il numero riferito per entrambe le divinità dell’unica luce) forse sarà il
caso di ricordare quello che, secondo noi, costituisce un ‘dialogo sublime’
nell’imminenza della morte. Nella bellissima pittura della tomba di Sarteano, si
può ammirare la scena del giovane ‘amasius’ che conforta l’uomo (il defunto proprietario della tomba),
gravemente ammalato, preoccupato e scettico, accarezzandogli dolcemente la mano
con la sua destra e con la sinistra
mostrante il numero ‘tre’. Dandogli cioè coraggio e tranquillità con il
gesto affettuoso e nel contempo indicando con il gesto la sicurezza, l’aiuto certo per la rinascita da parte della divinità
androgina luminosa, padre e madre. V. per il riferimento bibliografico la nota
18. Non è chi non veda che quella raffinata scrittura per immagini tende a
confermare lo stesso dato formulare presente nei sarcofaghi. La nuova luce e la
rinascita dei nobili defunti ci saranno
perché ad essa provvede il ‘tre’ ciclico del Sole e della Luna e cioè di
Tin e Uni.
24.
V. esempio n.4.
25.
Il gesto scaramantico di 'fare le corna' però non è solo di questo sarcofago. Anche coperchi di sarcofaghi chiusini mostrano lo stesso identico ideogramma scaramantico.
26. Si ricordi il famosissimo ‘fegato’ bronzeo di Settima di Cossolengo (Piacenza) con la singolare raggiera (alludente, con ogni probabilità, al numero ‘sei’ di Tin e di Uni) e le diverse caselle riportanti espressioni o nomi di divinità in alfabeto etrusco.
26. Si ricordi il famosissimo ‘fegato’ bronzeo di Settima di Cossolengo (Piacenza) con la singolare raggiera (alludente, con ogni probabilità, al numero ‘sei’ di Tin e di Uni) e le diverse caselle riportanti espressioni o nomi di divinità in alfabeto etrusco.
27. Core
viene raffigurata spesso con il frutto del melograno tra le mani. Il mito narra
che, mentre Persefone figlia di Demetra si dilettava a raccogliere fiori, la
terra si aprì sotto i suoi piedi e venne rapita e condotta nell’oltretomba da
Ade. Demetra si adirò e per dispetto fece in modo che i frutti sulla terra non
maturassero più e che così calasse un inverno perpetuo. Zeus preoccupato inviò Ermes,
il suo messaggero, da Ade per chiedergli di liberare la bella e giovane Dea. Il
dio ubbidì e disse a Persefone che poteva ritornare sulla terra, ma gli offrì dei
chicchi di melagrana. Avendone essa mangiato sei accettò, inconsapevolmente, con quella
sua azione, di passare sei mesi con la
madre sulla terra e sei mesi con Ade negli inferi., come sua sposa. La
melagrana quindi, oltre che simbolo mortuario riguardante Core e quindi
l’allusione della dea del regno dei
morti e del regno dei vivi (che rinasce
e muore ciclicamente) è anche simbolo di ‘patto’, di ‘pegno’ e quindi di
‘garanzia’. La defunta reca in mano il frutto che è stato il motivo per il
quale, anche se senza volerlo, Persefone aveva dato la garanzia del
ritorno negli inferi come sposa del dio dei morti.
* Il presente articolo. insieme agli altri che saranno via via pubblicati in questo blog, è solo un'anticipazione informativa di quanto sarà pubblicato nel n.69 della rivista Monti Prama.
Davvero bella questa analisi. Mi chiedo in quante altre culture sia presente questa triade di elementi "leggibili" sulla sicurezza di un sostegno divino con il sigillo di.. garanzia. Certo qui è bella sofisticata, ma con una tale frequenza e ripetitività di concetti -con variazione- da lasciare pochi dubbi. Sto però pensando anche alle tombe dei faraoni egizi e particolari scarabei (come quelli del cuore); ma lì è più facile: è da tempo che si sono resi conto che nella tomba di Tutankkamon c'è molto da leggere; la scrittura stessa prende vita, i geroglifici diventano perfino antropomorfi (con manine)
RispondiEliminaMa non solo: sto pensando anche ai colori. Sai cosa mi hai ricordato? le barche mortuarie di Abydos, fatte a doppio fallo colorate di giallo sugli scafi per significare la luce e la rinascita.
Te le ricordi? http://monteprama.blogspot.it/2013/06/foto-del-giorno-le-barche-mortuarie-di.html
Una cosa: nei sarcofagi non dovrebbe essere esplicitata o criptata anche la "luce", appunto?
E infatti.La vedrai. Con la seconda puntata.
RispondiEliminaDéu miu, de custu passu, liggendi custas cosas bellas, acabbat chi diventu espertu deu puru!
RispondiEliminaTi torru grazias a nomini de chini indiddi parrit bregungia de fai sciri chi no sciiat nudda.
Anche mi me sun turnau a perde in te shtu mundu che aiva abbandunau pe sdegnu.Shperu primma o poi de fòghia a fove vení a vedde n'uisa dunde i srdn vivaivan.Salüi
RispondiElimina