venerdì 27 maggio 2016

«Monti Prama». Trentacinque anni di «Quaderni Oristanesi».






di Gian Matteo Corrias



Presentando il primo numero della rivista «Monti Prama», uscito come numero 61 della storica rivista oristanese «Quaderni Oristanesi» e sua ideale continuazione, Gigi Sanna, all’atto di raccogliere l’eredità del fondatore e direttore storico don Peppino Murtas e di Giorgio Farris, che gli succedette nel 2001, osservava che la rivista usciva, dopo tre anni di interruzione, all’insegna del rinnovamento. Rinnovamento che investiva la veste grafica, il formato, il titolo e – al fondo di tutto – lo spirito del periodico. «La storia dei “Quaderni” – queste le parole di Sanna – è ormai, come si suol dire, molto ‘datata’, ovvero la storia di un periodo che ha riguardato, per qualche decennio, una certa visione della politica e della società non solo in Sardegna, ma in Italia, in Europa e, come si sa, in molte altre parti del mondo ad economia industriale e post-industriale. [...] Quelle dei “Quaderni” sardi arborensi – continua Sanna – erano allora le risposte, direi obbligate, della cultura e della politica attente e preoccupate per lo snaturamento e l’oppressione dell’uomo. Oggi occorrono ‘nuove’ risposte per affrontare delle problematiche che, pur non cambiando di sostanza, si presentano però in forme molto differenti»[1].




In effetti, già nella sua densa presentazione del nascente progetto culturale dei «Quaderni», Peppino Murtas offriva un’inquadramento programmatico del lavoro che si accingeva ad avviare che ne stabiliva con chiarezza l’impronta militante, localistica e ideologicamente connotata: «Oristano, la città in mezzo agli stagni, sempre abitata, mai amata perché nata da necessità e costrizioni e non da un creativo bisogno di realizzarsi»[2]. Da tale stigma storico il battagliero sacerdote afferma quindi con pacata fermezza che è giunto il momento di liberarsi: il riscatto identitario, culturale e socioeconomico degli oristanesi è posto sotto l’egida della Torre Mariana, simbolo della città nonché della casa editrice (“Sa Porta”) responsabile della pubblicazione della rivista, ma più in profondità (e con maggiore pregnanza simbolica) «sentinella e minaccia, baluardo possente, espressione di un sogno»[3].

I «Quaderni Oristanesi» nascono dunque, secondo le parole del loro fondatore, come «un tentativo per capire aspetti di una certa realtà della nostra storia attuale e meno recente». Capire, esplorare i differenti ambiti nei quali la realtà attuale si è progressivamente costruita e stabilita. Ma il programma operativo della rivista è determinato con una precisione davvero straordinaria (tanto più se consideriamo quanto la storia effettiva dei «Quaderni» si dipanò coerentemente a quella primitiva dichiarazione di intenti), perché concretamente quello che al lettore ci si propone di offrire sono «documenti e scritti della nostra storia; studi su capitoli e aspetti di questa storia, su personaggi e scrittori oristanesi; ricerche e studi sulle molteplici espressioni della nostra cultura: dall’archeologia all’ambiente, dalla natura all’arte, dalla letteratura all’artigianato, dall’ecologia all’urbanistica, dal teatro alla poesia e alla musica, dal costume alla religiosità popolare»[4]. Un’attenzione particolare dovrà infine essere riservata, nelle intenzioni del direttore, anche ai problemi del lavoro, della vita comunitaria, economica e sociale della città, nonché alle voci letterarie di ieri e di oggi che meritino attenzione.  

C’è – come è chiaro – al fondo di tutto una insofferente consapevolezza dei limiti e dei problemi ormai radicati nel tessuto socioculturale ed economico del territorio arborense, ma al tempo stesso una radicale fiducia nella possibilità di un intervento fattivo nelle questioni concrete attraverso la cultura: la riflessione, la conoscenza, l’informazione e la denuncia sono intese come strumenti operativi efficaci, attraverso i quali diventa possibile raddrizzare la barra di un processo involutivo nel segno della marginalizzazione, dell’incuria e del degrado, all’insegna di «una presenza e un protagonismo che se mancasse, ci lascerebbe ai margini nelle decisioni che ci toccano nel vivo della nostra realtà»[5].


La storia dei «Quaderni» si svolge regolare, lungo il solco tracciato da Peppino Murtas, coerente alle dichiarazioni programmatiche esposte nel primo numero. Le successive fasi editoriali e redazionali della rivista si avvicendano tutte, ed esplicitamente, all’insegna della continuità: così quando nel 1996, con il numero 37/38, la pubblicazione passa dall’editrice “Sa Porta” alla “P.T.M.” di Mogoro, vengono conservati il sottotitolo precedente («Beni culturali e Cultura. Rivista quadrimestrale») e la veste grafica; e quando nel 2001 Giorgio Farris succede a Peppino Murtas come direttore di redazione, il numero speciale 45/46, offerto alla figura e all’opera del sacerdote milese, si apre con la dichiarazione di Bruno Pia, che si riserva il ruolo di direttore responsabile, per cui «la rivista continuerà le sue pubblicazioni [...] e manterrà l’impronta data dal suo incomparabile fondatore»[6], cosa che effettivamente accadrà, fino al 2008, anno in cui esce l’ultimo numero (il 59/60) diretto dal Farris, che sarebbe morto un anno dopo. 

 Fin dal primo numero risulta notevole l’orientamento verso la questione dei “beni culturali”, categoria che, con sensibilità in largo anticipo sui tempi, è significativamente estesa anche alla cultura materiale e al patrimonio ambientale: non a caso il primo numero si apre con tre saggi dedicati al tema della conservazione ambientale (a firma di Teresa Olmetto, Maurino Ledda e Giancarlo Fantoni), seguiti da cinque saggi di ambito storico-artistico ed archeologico, che costituirà anche successivamente uno dei cardini tematici essenziali della rivista, firmati dallo stesso Murtas, da Peppetto Pau e da Giorgio Farris, che inizia qui una collaborazione regolare e stabile alla redazione della rivista, con un buon numero di contributi tutti di notevole spessore. Si segnalano in particolare per la loro straordinaria qualità scientifica due saggi sulle chiese storiche di Cabras, San Giovanni e San Salvatore nel Sinis («Q.O.» 31/32 [1993]), uno studio sulla viabilità e le opere ad essa connesse nell’intero giudicato di Arborea («Q.O.» 37/38 [1996]), un saggio su Aquae Ypsitanae (La mitica città del Barigadu, in «Q.O.» 39/40 [1997]) e sopra tutti un’importante ricognizione dell’architettura sacra bizantina nei nostri territori («Q.O.» 51/52 [2004]): ognuno di questi contributi si costituisce assieme come sintesi dei risultati della ricerca più aggiornata sulle questioni trattate e proposta interpretativa originale dall’immediata fruibilità e capacità informativa. Accanto a Farris, contribuiscono ad arricchire il settore degli studi storico-artistici Peppetto Pau, Raimondo Zucca, Luciana Delitala e Maria Manconi de Palmas, autrice di una buona monografia (pubblicata come n. 5 della rivista) sul duomo di Oristano. Notevoli anche i contributi dello storico Paolo Gaviano, tra i quali hanno in particolare attirato la nostra attenzione un bello studio sulla cinta muraria di Oristano (Le mura di Oristano, in «Q.O.» 26/27 [1991]) e un’indagine su Mercanti e marinai nell’Oristano del Trecento («Q.O.» 37/38 [1996]).

L’altro grande nucleo tematico della rivista è quello letterario, cui fin da subito è dedicata la sezione conclusiva del palinsesto, «Oristano e la Sardegna nei libri», intesa come bollettino bibliografico nel quale, accanto ad essenziali segnalazioni, compaiono articolate recensioni e talvolta vere e proprie analisi critiche: spiccano su tutte le pagine del mogorese Francesco Sonis, poeta, attento lettore e fine conoscitore della tradizione letteraria isolana, a partire dalla quale egli inquadra e vaglia la produzione contemporanea attraverso icastiche e ponderate valutazioni. Grande attenzione è dedicata, come è ovvio, alla produzione “in limba”, ambito nel quale ci sono parsi particolarmente degni di nota due studi di Giovanni Perria sulle ragioni socioculturali del «tramonto» di due tra le prassi più sperimentate della produzione poetico-musicale isolana: la poesia d’improvvisazione e il canto a chitarra (Due tramonti, «Q.O.» 31/32 [1993]), e un saggio di Gigi Sanna sulla poetessa bortigalese Maria Placida Passino. Alla figura del poeta tardo-settecentesco Giovanni Battista Madeddu di Ardauli è dedicata l’intera prima parte del n. 57/58 (2007), che offre in apertura gli atti del convegno «Le radici della poesia religiosa della Sardegna», con le relazioni di Claudio Zago, Giuseppe Deiana, Salvatore Tola, Giorgio Farris, Giampaolo Mele e don Giovanni Dore.

Presente, anche se decisamente meno attestata, la riflessione linguistica, cui è dedicato il saggio – buono, anche se forse un po’ troppo tecnico per il pubblico della rivista – di Giovanni Usai, Lingua e società. La variazione sociale della lingua in ambiente rurale del centro Sardegna nel primo dopoguerra («Q.O.» 26/27 [1991]), e alcuni saggi di Giuseppina Simbula sulla varietà locale del campidanese parlato a Cabras (citiamo fra gli altri: A proposito del nuraghe e della zona di Cabras denominati “Muras”; Note su alcune parole composte del parlare di Cabras, in «Q.O.» 47/48 [2002]; Formule di saluto a Cabras; Idiotismi del dialetto di Cabras formatisi per l’influsso del latino della chiesa, in «Q.O.» 49/50 [2003]). Fanno sporadicamente la loro comparsa anche i temi dell’enogastronomia, affidati alla penna di Giampiero Pinna, che nel numero 23/24 dedica un articolo alla gloria enologica oristanese, la vernaccia, e in tre uscite successive (35/36, 37/38, 39/40) affronta i temi della tradizione gastronomica marinara sarda, dei funghi eduli dell’Isola e della suggestiva tecnica di cottura tradizionale detta «a carraxiu», che consisteva – come ho appreso leggendo l’articolo – nella realizzazione di un forno sotterraneo ottenuto entro una buca riscaldata tramite fuoco di legna e coperta, nel quale forno la carne era inserita, dopo l’asportazione dei carboni, avvolta nello stomaco di un montone e adagiata su rami di mirto che le conferivano il loro inconfondibile aroma.

Un filone tematico che, viste le premesse programmatiche, avrebbe forse meritato un’ampiezza e uno sviluppo diversi nell’economia complessiva della rivista è quello ecologico-ambientale, cui sono dedicati gli articoli di Bruno Paliaga su Seu. Un’escursione nel Mediterraneo e dintorni («Q.O.» 31/32 [1993]); Socio-ecologia degli ecosistemi di transizione e L’uomo contro l’ambiente o contro se stesso? («Q.O. 33/34 [1994]»), oltre ai due brevi interventi (cui si è già accennato), entrambi pubblicati in «Q.O.» 2/3 [1982], nel primo dei quali (Itinerari turistici. Cultura, produttività, occupazione in un progetto di mille miliardi) Maurino Ledda e Mauro Costa riflettono sulle concrete ricadute economiche dei recenti interventi legislativi ed economici in ambito turistico, con l’individuazione di alcuni itinerari funzionali al conseguimento di una valorizzazione economica del territorio che non prescinda dall’indispensabile parallela valorizzazione culturale e sociale dello stesso; nel secondo (Turismo e ambiente) Giancarlo Fantoni riflette, con lucida preveggenza, su alcune forme di sviluppo turistico “sostenibile” per il tessuto socioeconomico e ambientale dell’Oristanese, quali quella dell’albergo “diffuso” e dell’agriturismo, che la storia dei decenni successivi ha mostrato essere una soluzione non solo percorribile, ma persino significativa e determinante.

Com’è ovvio, nell’ambito dei “beni culturali” che Oristano deve conoscere e valorizzare non poteva mancare la principale manifestazione tradizionale della città, la Sartiglia, cui è interamente dedicato il numero 25 della rivista, ripubblicato con qualche aggiunta e qualche ampliamento nel numero 28, in cui Giorgio Farris e Giuseppe Murtas ripercorrono e, laddove sia necessario, ricostruiscono la storia della tradizionale cavalcata, ne delineano e ne spiegano il rituale e la simbologia, dal momento della vestizione del Cumponidori, quando, secondo le vibranti parole di Farris «l’uomo assume sembianze irreali e il suo sguardo diventa d’incanto tenebroso, profondo e lontano, come comandato da un misterioso richiamo divino» (Rituali e simbolismi, «Q.O.» 28 [1992]), all’esibizione delle tre insegne simboliche del primo cavaliere – lo stocco, la spada e sa pippia de maiu – di cui viene intuito il riferimento a quei tre ambiti di pertinenza (regalità, forza militare e attività produttive umane) che lo storico delle religioni George Dumézil aveva individuato come le pertinenze specifiche delle tre divinità che si trovano all’apice dei pantheon di tutti i sistemi cultuali delle antiche civiltà indoeuropee.

Grande attenzione è riservata anche a figure particolarmente significative nella storia antica e recente di Oristano e dell’Arborea, prima fra tutte quella di Eleonora, alla quale nel secondo numero sono dedicati tre saggi, trascrizione degli interventi di Francesco Cesare Casula, Nilde Iotti e Nella Manca al seminario di studi sulla giudicessa d’Arborea promosso dall’Associazione “Amici della Casa Gramsci” e tenutosi il 9 maggio 1982 nella nuova sala consiliare di Oristano. Altra figura storica che ha catalizzato l’attenzione della redazione è quella del predicatore cappuccino fra Tommaso di Ardauli, cui è dedicato il numero 19/20 (1989), in cui si pubblicano gli atti del convegno «Fra Tommaso di Ardauli (1655-1720) e la Sardegna del suo tempo» (Ardauli 24 Agosto 1989). La storia recente di Oristano è poi rappresentata da figure certo incomparabili per risonanza a quella di Eleonora, ma non per questo insignificanti: mi riferisco all’avvocato Salvatore Parpaglia («Q.O.» 26/27 [1991]), del quale Peppino Murtas redige una nota biografica col preciso intento di riempire di contenuto quello che per la maggior parte degli oristanesi è solo il nome di una via, e ai contemporanei Peppetto Pau, cui nel numero 21/22 del 1989 Peppino Murtas, Antonio Corrias e Raimondo Zucca dedicano un affettuoso ricordo; Bruno Manai, storico preside del liceo classico “De Castro”, e Bruno Stigliz, ex docente di fisica dello stesso liceo e attivista in diversi paesi dell’America Latina, morti entrambi nel 1991, dei quali (e soprattutto del secondo, che in virtù del dato biografico doveva essere particolarmente congeniale allo spirito del Murtas) è proposta una sobria ma incisiva commemorazione.

Chiudiamo questa carrellata tematica dei «Quaderni» con quello che personalmente mi pare il capitolo più felice e significativo della loro storia, perché in esso quello spirito militante e quella fiducia nella riflessione e nella cultura come strumenti di intervento nella realtà concreta trovano una piena realizzazione e un’espressione compiuta. Come si ricorderà, nel 1993 i portali lignei della cattedrale, più volte ristrutturati nei secoli sempre coerentemente a quelli antichi, furono sostituiti con due portoni bronzei gravati dai rilievi figurativi realizzati dal prete scultore mons. Antonio Desogus. Riaprendo un dibattito che si era caratterizzato per i toni spesso molto accesi e talora astiosi e persino aggressivi, consumatosi nelle colonne dell’Unione Sarda fra l’aprile e il giugno del 1993, la redazione dei «Quaderni» coinvolge ben dieci fra storici dell’arte e artisti perché, a qualche mese dall’installazione dei portali, sine ira et studio sia finalmente possibile «approfondire alcune tematiche legate all’uso dei principali monumenti della città in termini più precisi e senza le semplificazioni imposte dalle pagine di cronaca sui quotidiani»[7]. Tale riflessione critica corale sulla vicenda e sull’oggetto d’arte in questione è affidata alla penna di Luciana Delitala, Antonio Amore, Augusto Biselli, Antonio Corriga, Giorgio Farris, Ivo Serafino Fenu, Salvatore Naitza, Pietro Angelo Usai, cui si aggiungono il biblista Antonio Pinna, che, ricusando l’espressione di un qualsiasi giudizio estetico sui portali, si limita a fornirne una lettura contenutistica, e Filippo Martinez, che dalla vicenda trae lo spunto per la stesura di un surreale dialoghetto fra una propria precedente incarnazione, contemporanea di Gesù, e il Cristo stesso appeso sulla croce, che alle celebri sette ultime parole ne aggiunge qualcuna di disprezzo per l’opera e per il progetto culturale che le è sotteso. Il giudizio degli intervenuti al dibattito è concorde, sebbene espresso con maggiore o minore durezza, nell’evidenziare i limiti artistici ed estetici, di concezione e di esecuzione dell’opera scultorea, priva di chiarezza, di plasticità e di tecnica. Questa decisa stroncatura, francamente condivisibile, assume tutto il suo significato sociale e ideologico (come nello spirito della rivista) quando sia inserita, come fanno gli autori, nel contesto più ampio della “vita” cittadina: così ad esempio Antonio Amore, Antonio Corriga, Ivo Serafino Fenu e Salvatore Naitza lamentano tutti una mancanza di coinvolgimento preventivo della cittadinanza nel dibattito che avrebbe dovuto precedere la sostituzione della vecchia soglia, magari attraverso l’indizione di un concorso pubblico con una selezione meditata e condivisa del progetto da realizzare; Antonio Corriga parla esplicitamente di «un capriccio covato e portato alla luce quasi di soppiatto». Tanto più utile e importante un simile coinvolgimento collettivo sarebbe stato perché avrebbe costituito – come ancora osserva Corriga – un momento di alta consapevolizzazione della cittadinanza, di una cittadinanza che ha progressivamente smarrito il senso della propria appartenenza e della propria identità, e che, per incuria, indolenza e ignoranza, ha tollerato nel tempo «la cancellazione di tante testimonianze di un passato di fulgori». Di più, la finalità stessa intrinseca ad un’opera qual è un portale istoriato, opera «narrativa» – come sottolinea Luciana Delitala – e destinata, tradizionalmente, a «favorire la catechesi e l’edificazione morale anche attraverso le immagini», è radicalmente vanificata dalla palese “illeggibilità” e indecifrabilità del testo iconico. I portoni e le loro formelle rimarranno, conclude Ivo Serafino Fenu, «col loro ingombro». Ma soprattutto «rimarrà questo dibattito che ha avuto il merito di far emergere una prassi discutibile di gestione e intervento sui beni culturali» nella speranza che esso «sia servito almeno ad evitare che tale prassi divenga un modello per i numerosi edifici di culto della provincia». 


Dal 2001 e sino al 2008 comincia la sua collaborazione con i «Quaderni» diretti dal suo «amico fraterno»[8] Giorgio Farris Gigi Sanna, che a partire dal numero 53/54 del 2005, in cui viene pubblicato il testo della Relazione sull’ipotesi di decodificazione dei documenti di Glozel attraverso il codice di scrittura nuragica, letta nella conferenza tenutasi a Parigi il 12 aprile 1995, inaugura anche sulla rivista la sua tenace e generosa opera di ricerca e di divulgazione sulla questione della scrittura nuragica. Proprio lo studio dei documenti scrittorii e la sistematizzazione entro un quadro interpretativo organico delle informazioni che i continui reperimenti documentari andavano e vanno via via offrendo costituisce anche il nucleo essenziale della nuova serie dei «Quaderni», che esce dal 2011 col rinnovato titolo programmatico «Monti Prama». Edizione più snella, graficamente meglio curata, orientata ad un orizzonte meno localisticamente arborense e più aperto ad una visione della storia locale integrata entro le coordinate della storia generale. Una rivista «rinnovata», che abbandona il piglio “socioculturale” militante dei «Quaderni» di Murtas e Farris e inizia una nuova battaglia, quella per una revisione che si vuole radicale della storia antica dell’Isola, quale è possibile far emergere da un ripensamento, alla luce anche delle nuove scoperte, di quegli assiomi che l’archeologia e in generale la cultura accademica ostinatamente conservano. In questo senso l’opera perseguita da Gigi Sanna e da alcuni suoi stretti collaboratori (Angelo Ledda, Sandro Angei fra gli altri) si inserisce nel contesto più ampio del dibattito iniziato sul blog di Gianfranco Pintore, proseguito poi su «Monte Prama» e che continua ancora oggi sul blog «Maymoni», diretto da Sandro Angei. Entro le dinamiche vive e vivaci del dibattito mediatico, che fin da subito ha catalizzato una straordinaria attenzione da parte di osservatori di tutto il mondo nonché – come è noto – l’opposizione più ferma (talvolta degenerata in volgari attacchi alle persone, il che peraltro non fa che attestare l’incisività del lavoro svolto), la rivista svolge – e non potrebbe che essere così – un ruolo piuttosto diverso: quello – per dir così – di “stabilire” alcuni “traguardi” della riflessione la quale, se nell’immediato non può che raggiungere un numero infinitamente inferiore di lettori, è tuttavia destinata a entrare nei luoghi tradizionalmente deputati alla cultura, le biblioteche pubbliche e private, e costituirsi come documento, testimonianza strappata, nei limiti del possibile, all’azione abrasiva del tempo e dei suoi annessi (l’incuria, l’instabilità della rete internet e così via), quell’azione che malauguratamente ha prodotto i suoi disastrosi effetti sul blog di Gianfranco Pintore, rendendo oggi impossibile la lettura di una mole straordinaria di testi ivi pubblicati.

Ma «Monti Prama» è stata ed è anche qualcosa di più: è stata ed è un luogo aperto, ove anche voci tutto sommato trasversali al progetto implicito della rivista hanno potuto trovare uno spazio più ampio di quanto non fosse sperabile. Tra queste voci vi è stata – devo riconoscerlo – anche la mia, se due dei quattro saggi offerti alla rivista non presentano alcuna attinenza con la cultura e la storia della Sardegna: mi riferisco al saggio sulla diffusione di Tucidide nell’Umanesimo, retaggio delle mie ricerche dottorali in ambito umanistico, e a quello sul canzoniere di Konstantinos Kavafis, testo di una relazione letta in occasione del convegno organizzato dalla compagnia teatrale Hanife Ana qui ad Oristano nell’aprile del 2008.

La generosa accoglienza riservatami dal caro professor Sanna non è certo rimasta senza effetti: in un saggio pubblicato nel numero 64 affrontavo infatti un tema, quello del simbolismo del nome di Dio nel canto XXVI del Paradiso dantesco, che avrebbe offerto un’utile conferma alle sue ricerche sul teonimo del dio nuragico YHWH, e che d’altro canto ha consentito anche a me di avvicinarmi al mondo di quella scrittura e di quella dimensione cultuale che i documenti stavano via via consentendo di delineare. Nel numero 66 pubblicavo quindi un saggio nel quale offrivo qualche riscontro documentario e un tentativo di analisi complessiva del simbolismo di un curioso tipo iconografico, quello del “gastrocefalo”, del quale senza avvedersene il professor Sanna aveva offerto precedentemente un notevole documento, un coccio proveniente dal territorio di Allai-Samugheo recante, in duplice codice scrittorio (pittografico e lineare) proprio il nomen del dio nuragico[9].

Queste prime prove di indagine sul simbolismo hanno aperto per me un canale di studi che negli ultimi due anni si è rivelato particolarmente proficuo, e che ha trovato una sua concretizzazione, oltre che nella collaborazione ai blog «Monte Prama» e «Maymoni» di cui ho detto sopra, anche nella pubblicazione di due studi sul sistema religioso-cultuale romano arcaico (Dei e religione dell’antica Roma, Cagliari, Arkadia, 2015) e sui culti misterici diffusisi entro il tessuto della religio romana (Esoterismo e culti misterici nell’antica Roma, Cagliari, Arkadia 2016), nei quali alla dimensione simbolica entro il complesso cultuale generale è riservata un’attenzione preponderante.

Oggi, nel celebrare i trentacinque anni di vita dei «Quaderni Oristanesi» (trentaquattro effettivi di pubblicazioni e uno di “gestazione” e di lavori preparatorii)[10] e nel presentare l’ultimo numero della serie diretta da Gigi Sanna, mi preparo a raccogliere un’eredità e una responsabilità di cui percepisco chiaramente il peso ed il valore. Vorrei entrare “in punta di piedi” in questa storia, portandovi la mia esperienza e il mio “mondo” di ricerche e di studi, ma senza che ciò costituisca uno snaturamento della rivista come mi è stata consegnata. Soprattutto desidererei che quell’apertura e quel senso di libertà intellettuale che hanno ispirato l’accoglienza di voci tanto diverse sopravvivano ancora, facendo delle pagine di «Monti Prama» uno spazio aperto, ricettivo e sensibile al vecchio e al nuovo, attento al locale ma in prospettiva contestuale e prospetticamente inserito entro coordinate più ampie. Potrò contare su un buon numero di amici, giovani e validi studiosi, il cui lavoro si affiancherà a quello dei collaboratori “storici” della rivista. La speranza è quella che la voce di «Monti Prama» possa farsi sentire sempre più chiaramente e arrivi ad un numero sempre crescente di lettori, perché quel dialogo iniziato trentacinque anni fa continui, anche in mezzo alle difficoltà e alle sfide del presente.




[1] G. Sanna, Prefazione, in «Monti Prama» 61 (2011), p. 3.
[2] G. Murtas, I quaderni oristanesi e l’editrice “Sa Porta”, «Q.O.» 1 (1982), p. 5.
[3] Ibid., p. 6 (ove cita le parole di G. Pau, Quattro note storiche per lo stemma della provincia di Oristano, Oristano 1980, p. 45).
[4] Ibid., p. 6.
[5] Ibid. p. 7.
[6] «Q.O.» 45/46 (2001), p. 6.
[7] Sono parole di I. S. Fenu. Il dibattito sui portali della cattedrale si trova in «Q.O.» 31/32 (1993), pp. 81-113.
[8] Cfr. G. Sanna, Omaggio a Giorgio Farris, «Monti Prama» 65 (2013),  p. 3.
[9] Cfr. G. Sanna, YHWH in immagine pittografica, «Monti Prama» 61 (2011), pp. 27-42.
[10] Cfr. G. Murtas, I quaderni oristanesi e l’editrice “Sa Porta”, «Q.O.» 1 (1982).

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