giovedì 8 giugno 2017

Chiusi. Tomba della scimmia. Le raffigurazioni tombali? Accompagnatori sicuri, acrobati straordinari e lottatori imbattibili? Goffa mimesi dell’arte pittorica circa la realtà celeste in fatto di rinascita.

di Gigi Sanna


Fig. 1


     Nei precedenti articoli abbiamo visto che la scrittura metagrafica etrusca (1) si estende alle pitture, alle sculture, agli stessi oggetti riposti nelle tombe presso le urne dei defunti.  L’immaginazione e la fantasia  dello scriba lo portano, attraverso le convenzioni della numerologia, dell’ideografia e della acrofonia, a continue variazioni  artistiche, con tematiche assai varie che mirano però tutte a suggerire l’argomento della salvezza attraverso l’intervento delle due divinità astrali Tin e Uni (Sole e Luna).  Abbiamo visto inoltre che la forza di esse è basata sull’osservazione della loro luminosità opposta in un ciclo eterno ternario (2) del sorgere, del distendersi, del curvare (abbassarsi, tramontare). Il sole e la luna sono una unità inscindibile che dà la luce e la vita nel mondo e sono quindi, rispettivamente, padre e madre immortali. La vita non si ha senza di essi che la rinnovano incessantemente con il loro movimento rotatorio. Quindi non stupisce affatto che nelle tombe tutto sia un inno e un appello accorato ai ‘genitori’ celesti perché operino per la rinascita del figlio. 
 Adoperiamo ancora un esempio, tratto dalla pittura, stavolta assai complesso e sofisticato, che ci consenta non solo di vedere confermato il dato tematico di cui sopra ma anche di notare con quale variazioni esso si presenta in virtù del ricorso sapiente alla scrittura a rebus.
  Nella famosissima tomba della Caccia e della pesca della necropoli Monterozzi di Tarquinia, nel frontone della camera centrale con tetto a spioventi (3), si può osservare una scena (fig.1)  che è stata completamente travisata dall’ermeneutica delle pitture etrusche. Infatti la coppia di sposi, sfarzosamente vestiti, sorridenti e in vena di effusioni, è stata generalmente intesa come quella del marito e della moglie defunti in vita e auguranti a se stessi, una volta morti,  la stessa sorte nell’aldilà. Come conseguenza di questa interpretazione si è pensato che  l’urna cineraria di essi sarebbe stata collocata nel vano quadrato ovvero nella nicchia ricavata nel lato destro in alto della parete che interrompe le sei linee continue della cornice.
  Che le cose però non stiano così ma che si tratti di una coppia ben diversa lo si ricava dalla ricca simbologia (ideografia) che in lettura che si potrebbe chiamare analogica e contrapposta si trova, a partire dagli angoli della cornice, procedente verso l’alto per terminare nella scena ‘centrale’ dei due sposi.
Infatti a partire dalla sinistra in basso si notano:
- una coppia di papere
- tre serti appesi
- un canestro
- un’ancella che è intenta a confezionare, ad intrecciare un serto
- una donna ( una matrona?) che vigila, sta attenta
- un giovane suonatore con il doppio aulos
- una sporta (?) sospesa, posta in alto

A partire dalla destra invece si notano:
- un oggetto ‘doppio’ indefinito
- tre recipienti per contenere liquidi dei quali uno è un chiaro cratere ( κρατήρ) per la mescidanza del vino
- un giovane servitore che è intento a ‘confezionare’, a dare la gradazione al  vino
-  un ‘occhio’ alato (?) che vigila
- un personaggio, un probabile musico  che si contrappone figurativamente all’altro con l’aulos
- un altro oggetto appeso?

Per ideografia e numerologia otteniamo sulla sinistra: Dell’ attento intreccio doppio del serto del tre/ doppia alta  armonia
Sulla destra: Dell' attento mix doppio del vigore del vino del tre / [doppia alta armonia]
    La ‘traduzione’ è alquanto ostica, anche per il deterioramento parziale della pittura, ma non tanto da impedire di capire (anche su basi filologiche di numerosi  documenti che abbiamo via via commentato), che  ci troviamo da una parte di fronte all’allusione di un intreccio scrupoloso del serto della luna e dall’altra davanti all’allusione di un dosaggio, altrettanto scrupoloso, del vigore (il vino) del sole. Il dipinto rovinato nella parte alta a destra ci impedisce di ‘tradurre’ la quarta sequenza di senso, in palese opposizione frontale figurativa rispetto alla seconda. Ma la differenza concettuale, date le altre chiare opposizioni, deve essere stata o nulla o minima.
  L’osticità sembra però annullarsi del tutto perché la grande scena centrale della coppia MF adagiata  sulla κλίνη riporta sia il concetto di intreccio (il serto, la corona), di cui si dice chiaramente nella sinistra  sia del dosaggio del vino, di cui si dice altrettanto chiaramente sulla destra. Scena che riporta anche il concetto di ‘sublime armonia’ (musicale) espresso nella parte alta a sinistra (e forse nella parte alta a destra). Tanto che si afferra abbastanza agevolmente che essa (la terza delle tre), stanti gli aspetti e gli oggetti simbolici, altro non è che la sintesi delle altre due. Infatti, la si può rendere così: alta armonia (l’affetto amoroso reciproco che mostrano i due)  dell’intreccio (corona) della madre e del vigore (coppa del vino) del padre. Come forse qualcuno avrà già inteso, lo ‘apac atic’ formulare lo scriba lo ricava per via acrofonica (il terzo espediente dopo quello numerico e quello ideografico)  attraverso il consueto ‘sollevare, stendere, curvare’, cioè con gli atti che compiono astronomicamente il Sole e la Luna, ovvero Tin ed Uni.
    La pittura, che ha un pressoché identico corrispondente raffigurativo e simbologico (fig. 2) in una parte della tomba (4) dei Vasi dipinti di Tarquinia, manifesta un chiaro concetto attinente all’augurio circa la sorte che avrà il defunto; sorte scontata ovvero la salvezza della rinascita, se ci sarà, come sempre c’è in cielo, l’armonico intreccio vigoroso della divinità androgina Tin/Uni. L’atto sessuale delle divinità, così nascosto e delicato, pudicamente esplicitato, è quello che permetterà il nuovo parto, il poter rivedere ancora la luce, il ritorno ciclico alla vita dopo la morte. La rinascita insomma.
 
Fig. 2. Tomba dei Vasi dipinti di Tarquinia (riproduzione).

  Se così è, come ci sembra che sia, se la traduzione delle scene del dipinto è corretta, cade ogni interpretazione del dipinto in chiave sociale ed economicistica del dipinto. Infatti, nel timpano non c’è nessuna coppia terrena che si autocelebra con la sua ricchezza, che addirittura auspicherebbe un aldilà pieno di sfarzo e di pompa preciso al di qua. C’è invece una ‘regale’ e potentissima coppia divina che conta più di tutto e sopra tutto perché è quella che nella rappresentazione tende ad esorcizzare la morte ed il timore di essa come fine assoluta.  Si registra da parte dello scriba pittore il solo intento di narrare, in qualche modo, il mistero celeste che dà luogo alla nuova vita o rinascita attraverso l’unione ‘sessuale’ del padre e della madre; rinascita immaginata, naturalmente,  in relazione ai dati conoscitivi empirici (i fenomeni astronomici) umani e terreni. 
  Naturalmente altri elementi pittorici concorrono, nella parete dipinta (ma anche sulla volta) della tomba, a rafforzare il concetto di fondo espresso nel timpano. Come ad esempio la nicchia quadrata che volutamente interrompe (perché così viene collegata ad essa) la cornice con le sei linee continue. Però lasciamo, come si dice, sulla penna (5) la traduzione non difficile dei σήματα del rebus che non possono che coinvolgere ideografia e numerologia (cioè scrittura); stante il fatto che in quello spazio magico veniva collocato l’oggetto più importante e cioè l’urna cineraria, contenitore principe, a sua volta ‘scritto’, che andava magicamente circondato dalla solita scrittura ternaria inneggiante, in modo nascosto, alla potenza dei due tre (6), della coppia luminosa celeste datrice ciclica di vita. 
   Spiegate le tre scene della pittura del timpano della parete della tomba della Caccia e della pesca, vediamo ora di esaminarne un’altra. Non per insistere circa l’esistenza di un certo tipo di scrittura, che ci sembra ormai assodato, ma per parlare di ciò che uno o più scribi etruschi (e/o greci) pensavano, con notevole spirito di autocritica, circa quella loro arte pittorica funeraria così nascosta, quasi sempre così ricercata e così fantasiosa.

 







Fig. 3. La scena della tomba con l'immagine della scimmia
    Prendiamo l'altrettanto famosa scena pittorica (fig. 3) che si trova sulla parte centrale (cioè sul punto più importante) della cosiddetta Tomba della Scimmia.  Il rebus  è di più facile soluzione rispetto al precedente, anche perché dietro la ‘variatio’ tematica si intuisce che ‘deve’ essere presente lo stesso, anche se non identico, linguaggio formulare e il soggetto riguardante la salvezza e la rinascita del defunto.
   Sulla parte sinistra si ha una persona adulta  barbuta che solleva, distende un ramo   frondoso (7) e curva il braccio. E’ nell’atto di prendere per mano e accompagnare un giovinetto che a sua volta compie gli stessi movimenti del primo e porta disteso sulla spalla un oggetto del tutto simile. Dato il significato chiaro del ramo per il viaggio negli inferi  la traduzione sarà  accompagnamento sicuro e del padre e della madre, espressione a cui si deve aggiungere, immortali (8).
  Nella successiva scena si osservino i due cavalieri sulla sinistra, un uomo e (forse) una donna, che compiono atti acrobatici con i cavalli ma compiendo i movimenti simili del sollevare (la frusta l’uomo e le mani la donna), del distendere (i cavalli l’uomo, le gambe la donna). Si noti poi che la donna  compie l’atto del curvare i piedi così come i cavalli curvano le zampe. L’acrofonia rende quindi la solita formula criptata, formula che è, ancora nascostamente, ripetuta con un tema diverso nella scena seguente che poco o niente sembra che abbia a che fare, stando all’apparenza, con le precedenti. Gli aspetti e gli atti sono anch’essi quelli del sollevare/sollevarsi (la corona del giudice e il corpo  del lottatore), del distendere (il corpo del lottatore e il braccio del giudice), del girare, abbassare  (il corpo del lottatore e il braccio con il bastone (9) dell' ἀγωνοθέτης).
  L’acrofonia e l’ideografia (ovvero l’idea che suggeriscono e le azioni e i movimenti delle persone) rendono, abilità straordinaria del padre e della madre immortali, forza vittoriosa del padre e della madre immortali.
    All’ accompagnamento sicuro  della coppia divina immortale Tin/Uni si aggiunge quindi la loro abilità straordinaria nell’affrontare  il viaggio del mondo dei morti e il loro vigore incontrastabile nel lottare contro i mostri che lo ostacolano. Il defunto tiene conto di queste qualità certe e rassicuranti delle due divinità e le invoca per la salvezza e la rinascita nel mondo della luce.    
    A questo punto la comprensione del dipinto sembrerebbe completa se non rimanesse da interpretare ancora una scenetta singolare e davvero intrigante. Quella di una scimmietta che si trova seduta su di un ceppo dal quale spuntano tre virgulti. Cosa significa un siffatto animale, disegnato a margine, nel contesto delle scene che abbiamo ora illustrate? E’ ‘decorazione’, come spesso si dice, un semplice ‘quadretto’ o allude, così come tutto  il resto della pittura, a qualcosa? E se allusione c’è a cosa si riferisce?

   Credo che un elemento esotico ornamentale siffatto, proprio in quanto ‘ornamento’, strida assai nel contesto e risulti del tutto inspiegabile. Spiegabile invece è se si tiene conto, in un testo tanto ricco di allusioni più o meno nascoste,  del  valore semantico, palese invece  e indiscutibile, di ‘imitazione’ che suggerisce il caratteristico animale. Anzi, quello di ‘comica, goffa imitazione’. Esso però da solo risulterebbe del tutto incomprensibile, un significante enigmatico  se non si aggiungesse il senso del secondo,  costituito da un ceppo da cui spuntano tre vigorosi germogli. Come in numerosi casi raffigurativi  della pittura etrusca (10) il germoglio o i germogli, solo apparentemente aspetti ornamentali e decorativi, alludono alla rinascita (v. fig. 4), al vigore della divinità che consente il ‘verde’ della novella vita del ‘figlio’ defunto.
Fig.4. La nascita del piccolo germoglio (v. il figlio) attraverso la fecondazione della madre terra con il  liquido santo.

Quindi, tenendo conto anche della numerologia, il senso sarebbe, anzi è, ‘comica imitazione del vigore della rinascita del tre immortale.
   Ovviamente quest’espressione, posta all’interno della linea di separazione degli elementi del dipinto e quindi da leggere assieme ad essi, si presenta sulle prime come una incredibile e sbalorditiva affermazione ‘critica’ perché tesa a denunciare, nascostamente e sempre a rebus ma con chiarezza (per chi poteva e sapeva leggere), che quella pittura della parete è assai ridicola, è una scimmia in fatto di imitazione del fenomeno che intenderebbe rappresentare. Ora, io non credo che in tutta la pittura etrusca (e non solo etrusca)  si possa registrare un momento in cui si ‘scrive’, mentre si compone e si realizza arte, una riflessione critica in fatto di arte stessa e in particolare sulla sua debolezza figurativa; affermando con chiarezza quanto pallido sia, nella sostanza, il suo tentativo di imitare l’idea della misteriosa potenza della  rinascita. Nella fattispecie troviamo un momento in cui uno scriba pittore accusa se stesso e la sua arte  che ricorre alla fantasia e all’invenzione di adulti  sicuri che accompagnano smarriti bambini, di cavalieri acrobati di destrezza incredibile, di lottatori dalla insuperabile forza atletica, per dare, in qualche modo,  l’idea del vigore delle divinità preposte alla rinascita. Una vera e propria autocritica per il fatto d’essere la pittura, nonostante la forza presuntuosa della τέχνη, tanto limitata e lontana (e quindi buffa) dal rappresentare un fenomeno grandioso e intraducibile per scrittura figurativa.
    Per ovvi motivi di opportunità e di spazio argomentativo ma, soprattutto, di cronologia (11),  crediamo che non sia il caso di scomodare più di tanto Platone e il suo noto pensiero sulla debolezza dell’arte in fatto di mimesi del reale e dell’ideale (12), ma resta chiaro  il fatto che l’ignoto pittore scriba della tomba accusa la sua stessa pittura di fallimento scontato, di pressoché assoluta incapacità e quindi di comicità di rappresentazione. Ma questo spietato rimprovero si configura come franca dichiarazione di inutilità dell’arte (di ogni arte imitativa) nel ‘scimmiottare’, nel tentare di evocare l’inconoscibile e il sublime? Possiamo parlare di una condanna e sconfessione di essa, su basi filosofiche, circa l’imitazione improduttiva e persino  ingannevole dell’idea?
    Nonostante la suggestiva eco 'platonica' ante Platonem  non pensiamo che questo sia stato lo scopo dell’inserimento del ‘quadretto’ della scimmia. Non sembrano esserci delle 'condanne'. Scorgiamo piuttosto una ammissione di umiltà, un voluto abbassamento del tono dell’orgoglio artistico nel rappresentare scene alludenti al divino e quindi sacre; una doverosa constatazione, privatamente nascosta, circa il fatto che, per quanto intelligenti, sofisticati e fantasiosi possano essere gli espedienti in fatto di allusioni e di imitazioni, la realizzazione pittorica (ogni realizzazione) risultava oggettivamente sempre ‘comica’. Umiltà che porta lo scriba a sorridere, anzi a ridere di sé ‘scimmia’ nella mimesi e a ridere forse di tutti gli altri pittori e scultori impegnati in un’impresa del tutto  impossibile. Infatti, la τέχνη sua e degli altri pittori  poteva essere grande o grandissima, poteva  stupire e suscitare l’ammirazione e l’applauso,  ma nulla essa poteva se non far risaltare il ridicolo della vanità dell’impegno e dello sforzo imitativo.
    La scena pittorica testé esaminata della coppia TIN/UNI della tomba della Caccia e della pesca, sapientissima, come si è visto,  per accorgimenti di τέχνη, sembra fatta apposta, con il ricchissimo corredo di allusioni che si succedono anche nel rimanente della parete, per confermare il concetto di comicità dell’arte, anche la più  geniale, che tenta di definire l’indefinibile. L’artista del dipinto chiusino sembra dire che di questa comicità del linguaggio pittorico metaforico, sempre presente e mai annullabile, deve essere consapevole qualsiasi artista dotato di ironia sia che la rinascita, per mezzo delle divinità, venga  immaginata e descritta astrattamente con dei cipressi, con delle bende e con delle corna, sia concretamente con scenette di vita quotidiana, sia con mostri, demoni e storie mitologiche, sia con vicende storiche del recente passato o, magari, con il ricorso alla raffigurazione di una coppia sublime di bellissimi e innamoratissimi sposi adagiati sulla loro κλίνη celeste.

   Una oggettiva comicità che, del resto, potrebbe essere estesa all’arte vana dell’inconoscibile e dell’assoluto di ogni tempo, compresa quella di oggi. Dove la τέχνη ormai rifiuta caparbiamente ogni μίμησις e si spinge disperatamente, addirittura, oltre la frontiera della τέχνη stessa.

Note e riferimenti bibliografici 


1.  Si vedano: Sanna G., 2017,  Uno spettacolare ‘system’ etrusco di scrittura a rebus. Come invocare segretamente l’aiuto di Tin e di Uni? Del padre e della madre? Scrivendo con cipressi, bende, corna, portoni blindati, scudi di Amazzoni, cacce e cani, bipenni, cavalli, leoni e pantere, ecc. Persino con affettuosi (superdotati) cagnetti cortonesi (II); in maymoni blog (11 aprile); idem, 2017,  Scrittura etrusca: solleva, distende, curva: tre parole magiche per indicare, nascostamente e a rebus, Tin e Uni, il Sole e la Luna, il padre e la madre della luce della salvezza. I simboli astrali della chimera di Arezzo (III) in Maymoni blog  (15 maggio 2017); idem, 2017, ANCHE LA SCRITTURA ETRUSCA, COSI’ COME QUELLA NURAGICA, E’ A TUTTO CAMPO. COME UN AFFIBBIAGLIO PUO’ DIVENTARE UN INNO NASCOSTO ALLA DIVINITA’ CICLICA CELESTE E UNA ACCORATA INVOCAZIONE A TIN E A UNI; in Maymoni blog (24 maggio). 
2. V. Sanna G., 2017, ANCHE LA SCRITTURA ETRUSCA, COSI’ COME QUELLA NURAGICA, E’ A TUTTO CAMPO. COME UN AFFIBBIAGLIO, ecc., cit. fig. 3.3. La volta della tomba etrusca  non è solo ‘decorata’ ma è anche scritta. Infatti, essa si presta a dare l’idea della ‘protezione’ e quindi concorre insieme al resto a fornire senso. L’iterazione fitta dei segni (ad esempio i quadrati) costituiscono un espediente, di antichissima origine culturale tombale (si pensi solo ai quadrati e ai rombi nonché alle spirali delle tombe neolitiche sarde), per dare vigore alla tomba che custodisce e protegge il defunto. Si tenga presente inoltre che la ‘continuità’ e la ripetizione del segno acquistano valore segnico convenzionale di immortalità. Le tombe etrusche (ma anche le urne e i sarcofaghi) sono piene di apparenti cornici decorative  (baccellate, a melagrane, a linee continue, a onde continue, a ‘greche’, ecc. ). Si tratterà allora, di volta in volta, di aggiungerle organicamente al restante di senso. Si vedano ad es. quelle della figura 
3 che tendono a dare il significato di ‘immortale’ o di ‘continuo’ alla coppia celeste del padre e della madre.  
4. Si notino i due strumenti musicali (lituo e trombetta) e la sporta appesa ‘in alto’, ovvero l’alta armonia; quindi la coppia in atteggiamento di sublime armonia per affetto,  con la ‘corona’ intrecciata lei e con la ‘coppa del vino mescidato’ lui. Naturalmente il gusto per la ‘variatio’ porta lo scriba pittore a variare, dove  più dove meno, i soggetti raffigurativi, ma i concetti espressi restano gli stessi, quelli attinenti al tema della rinascita in virtù della ‘unità’ di intenti della coppia celeste.    

5. Dopo così numerosi esempi forse è bene che non tutto venga detto o spiegato. Infatti, solo toccando con mano e sperimentando di persona si può essere in grado di intervenire ‘criticamente’  circa  un certo tipo di scrittura che, per la sua singolarità e la sua ‘stranezza’, risulta sulle prime assai difficile da accettare. Mi chiedo quanti siano stati coloro che, dopo aver visto così spiegato l’affibbiaglio del British Museum, o il cagnetto cortonese o la chimera di Arezzo, abbiano tentato una verifica di scrittura metagrafica con altri oggetti usati a corredo tombale. E mi chiedo soprattutto quanti siano coloro che hanno riflettuto sul vero significato, quello dato dal metagrafico, dei bronzetti della Sardegna collocati tra il corredo tombale. Con funzione chiaramente apotropaica, di annullamento del negativo (timore della non rinascita) a motivo della formula scritta,non certo di allusione a specifici corredi di spose o a quant’altro è stato immaginato per spiegarne il ritrovamento in un contesto funerario o templare lontano da quello di origine. 
6. V. nota 3.  
7. L’oggetto, con ogni probabilità, si configura come un ‘lasciapassare’, come garanzia di viaggio negli inferi. L’accompagnamento sicuro attraverso il regno dei morti da parte della coppia divina (padre e madre: apac atic) si avrà solo se muniti di un ramoscello di vischio. Si ricordi il famoso  aureus ramus di Virgilio (Eneide, VI, 136 -147) con il quale Enea può fare la sua catabasi infera su consiglio della Sibilla cumana: … latet arbore opaca/aureus et foliis et lento uimine ramus/ Iunoni Infernae dictus sacer, ecc. 
8. V. ancora n. 3.
9. Il bastone, tra gli altri numerosi simboli dei popoli antichi, aveva anche quello della rinascita. Non sempre è agevole, come in questo caso,  mettere in luce la pregnanza simbologica che può avere un certo oggetto nelle raffigurazioni tombali. Qui il bastone in riferimento all’atto del giudice che aggiudica la vittoria ha valore certamente strumentale (abbassare il bastone come ‘verdetto’ ), ma il simbolo può essere  esteso alla vittoria della coppia divina,  che è quella che permette la rinascita contro chi si oppone ad essa.  
10. Per restare nell’ambito dell’arte funeraria di Tarquinia (necropoli dei Monterozzi) si pensi alla Tomba dei giocolieri, alla Tomba dei baccanti, alla Tomba dei leopardi, alla Tomba del barone, alla Tomba dei tori, alla Tomba degli auguri e alla Tomba Bertazzoni.
11. La Tomba della Scimmia viene attribuita (ma non con sicurezza) agli anni 470 - 460 a.C., molto prima dunque rispetto al periodo in cui Platone sulla  Politeia (390 - 360 a.C.) formulava  il noto giudizio negativo sulla mimesi della pittura e dell'arte imitativa in genere. Il discorso ovviamente cambierebbe se la tomba fosse databile alla fine del IV secolo a.C.  
12. V.  Vegetti M., 2004, Guida alla lettura della Repubblica di Platone,  Laterza, Roma–Bari.

8 commenti:

  1. Per quanto fin qui espresso mi sembra di trovare anche nella interpretazione epigrafica dell'arte figurativa etrusca, quel senso di fatalismo che permeava lo scorrere della vita di quella società. Il senso di questo lo indica proprio quella scimmia che ci avverte: “per quanto ci sforziamo, non possiamo in alcun modo descrivere la realtà assoluta”. Nelle raffigurazioni entrano in scena tutta una serie di simboli e personaggi allusivi, che sembrano far parte di una pergamena distesa da leggere quasi per compartimenti da unire in sequenza; inoltre mi da l'idea che, benché indecifrabile ai più, quelle scene siano state create con l'intento di evocare, inconsciamente da parte del familiare che vi si accostava e in silenzio le mirava, la lettura nascosta; i suoi occhi erano... i nostri occhi oggi sono il tramite per l'auspicio di rinascita a prescindere dalla consapevolezza del significato profondo del messaggio da parte di chi guarda le varie scene.
    Era forse questo l'intento? Quello di perpetuare in eterno la formula letta attraverso gli occhi del vivo?
    Ancora... vedo una differenza sostanziale tra la lettura metagrafica etrusca e quella nuragica dei bronzetti. Il bronzetto reca amalgamato in se l'intero messaggio in una serie allusiva di particolari che si porta addosso; e benché pure quelli facciano ricorso ad altre figure “vive”, al centro del messaggio c'è sempre lui, l'individuo uomo, col “suo” cane al guinzaglio, col “suo” accompagnatore, col “suo” ariete sulle spalle, il “suo” figlio tenuto in grembo, la “sua” offerta, le “sue” armi etc. Per tanto sembrerebbe si esplichi nei bronzetti una presa di coscienza della realtà assoluta, quella realtà che mette in stretta correlazione la divinità col singolo uomo, in quanto individuo cosciente della propria esistenza quale “singolarità” nell'universo.
    Vedo una diversa interpretazione del messaggio: quello Etrusco auspicava un sicuro viaggio verso gli inferi dell'ormai defunto; il bronzetto auspicava una vita migliore per il vivo. Entrambi chiedevano, in modo nascosto, aiuto alla divinità.
    Certamente la mia è una interpretazione profana, intuitiva di primo acchito, non certo dettata da uno studio sistematico.

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  2. Credo che tra i tanti post a cui ci abituato il prof. Sanna in merito alla scrittura metagrafica, questo abbia per me un valore ulteriore per il trattare il tema della 'platonica ante Platonicam' mimesi nell'arte. Ricordo un post che scrissi e che titolava, a mo' di domanda, “rendere visibile o riprodurre il visibile” che ambiva a introdurre proprio questo tema.
    Certamente l'arte etrusca (nonostante alcuni debiti) si discosta da quella greca 'organicista' (nel senso della mimesis, della rappresentazione analogica e realistica) anche per il suo rappresentare, quasi ossessivamente, gesti e movimenti, dato che casomai la avvicina maggiormente alla rappresentazione figurativa sardo-nuragica, dove il gesto non manca mai di essere rappresentato, benché appaia più convenzionale, rigido e normato.
    Nei libri scolastici non manca mai la definizione “espressionistica' per l'arte etrusca, proprio a riflettere questa necessità volutamente deformativa della rappresentazione, per sottolineare e portare l'attenzione su alcuni particolari specifici che si vuole, appunto, esprimere.
    Senza entrare nello specifico del metagrafico, dunque, raccolgo questa domanda o riflessione sulla scimmia posta a lato, sottolineando come non a caso la parola in uso comune 'scimmiottamento' abbia proprio questa accezione di imitazione grottesca e goffa.

    Aggiungerei che la scimmia (come altre figure mostruose), proprio perchè considerata affine e difforme allo stesso tempo all'umano, si può porre come elemento simbolico del subumano o dell'oltreumano e penso al bronzo numero 191 di Lilliu, che in contrasto con chi ritiene la figura una scimmia (o macaco) ha anche affacciato l'ipotesi che si tratti di “uno sgorbio antropomorfo cioè di una figurina umana vera e propria”, intendendola come una figura liminare, nel tramutamento appunto dall'umano al bestiale (o viceversa).

    Ma sappiamo anche bene quanto il simbolo sia polisemico per definizione e pertanto l'ipotesi è assolutamente plausibile (per quanto ante-platonica).
    Aggiungo anzi un elemento, che traggo da un libro di D'Agostino, Cerchiai “Il mare, la morte, l'amore; gli Etruschi, i Greci e l'immagine” (1999, ed. Donzetti)che riprende un pensiero di Bianchi Bandinelli e che cito testualmente: “Sulla Tomba di Chiusi, condivido pienamente il parere severo di Bianchi Bandinelli: l'artigiano ha ricalcato i suoi schemi da cartoni, senza alcuno spunto di creatività personale, se non forse nella rappresentazione dell'alberello con la scimmia, da cui la tomba ha tratto il nome. Solo lì il graffito preparatorio si fa incerto e ricco di pentimenti...” (p.41).

    Non sono in grado di entrare nel merito della affermazione di Bandinelli e sul suo giudizio critico e tralasciando momentaneamente la riflessione sullo schematismo della prima parte sottolinierei la diversa resa stilistica della figura della scimmia rispetto al resto.
    Si rafforza dunque questa ipotesi se la 'critica' rappresentata dalla scimmia viene estesa anche alla 'facile' copia, cioè allo schematismo pedissequo del cartone privo di “alcuno spunto di creatività personale” Tuttavia questo presuppone che sia presa per buona la riflessione del Bandinelli e della quale mi piacerebbe sapere cosa ne pensi nel merito il Prof. Sanna, dal momento che suppongo che lo schematismo indicato dal Bandinelli potrebbe confliggere con la creativa 'variatio' in senso metagrafico.

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  3. Anche io sono d'accordo con Angelo, sulla scimmia; non so se sono convinta della "comicità" e autoironia. Però vorrei anche che qualcuno mi dicesse che vogliono dire le ultime due righe, perchè il greco non lo so.

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  4. Non so dirti Angelo. Non è il mio mestiere parlare di 'cartoni' ovvero di debolezze artistiche dei pittori che sono scarsi quanto a originalità. Figurarsi poi un confronto con Bandinelli! Però se dovessi proprio sbilanciarmi potrei dire che è troppo poco quel quadretto per parlare di differenza di stili. Ovvero di arte nel disegno della scimmietta e non arte (anzi pessima arte) per il rimanente (e qui spero di aver capito). Chissà perché ciò mi ricorda un certo periodo della critica artistica dove si spezzettava l'unità dell'opera e si cercava l'arte ora qua ora là. E se non la si trovava si usava il lanternino per trovarla comunque. Ma io ho scritto questo articolo perché intendevo parlare d'altro, ovvero dei segni che lo scriba pittore (non a caso lo chiamo scriba) usa per creare immagini per rendere idee come 'sicurezza', 'destrezza' e 'forza nella lotta'. Idee sublimi non in senso estetico ma nel senso della corrispondenza in termini di mimesi con il 'vero' inconoscibile: la vera sicurezza, la vera destrezza e la vera forza. Quanto sono efficaci esse? Quanto sono efficaci esse e tutte quelle che si tentano continuamente da parte dei pittori e degli scultori? Penso che lo scriba che ha disegnato questa intrigante scimmietta si riferisse a questa corrispondenza e solo a questa. La bravura e la genialità della sua arte (e quella altrui) non è in discussione 'critica'. In discussione invece è il 'paragone' azzardato, qualunque paragone perché sa sempre di 'scimmia'. L'abbellimento del paragone o anche l'originalità del paragone stesso c'entrano poco o nulla. Cartoni o non cartoni. Qui si parla di imitazione della rinascita (se ho inteso bene il senso di ceppo e virgulti) che viene definita buffa. E come si può dire di no all'anonimo pittore? Per questo le due ultime righe: 'tecne' e 'mimesi' si riferiscono alla lunghissima stagione dell'arte in cui per millenni l'uomo ha cercato di imitare (scimmiottando) l'inconoscibile (penso ad esempio agli oggettivamente ridicoli tentativi nella pittura e nella scultura di imitare la 'passione' del Cristo). Ora pittori e scultori sembrano consapevoli di questa tragica comicità e preferiscono cercare altro di espressivo, un quid, che in qualche modo, per l'arditezza dell'immagine non immagine, assuma sembianze di meno comicità imitativa; perché magari proveniente dall'inconscio e da movimenti della mano casuali e non razionali. Tentativi sempre e comunque buffi e tragici, naturalmente.

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    1. Sono d'accordo su tutto, e avevo ben inteso il senso di 'comicità' a cui fa riferimebti. Non chiedevo un giudizio sulla critica 'estetica- provo a spiegarmi meglio-ma sul piano metagrafico: da questo punto di vista la scena a sinistra (quella che per bandinelli pecca di originalità sul piano artistico) rivela 'schematismo' oppure, al contrario, presenta elementi di originalità sul piano epigrafico?

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  5. Anche qui non so dirti. C'è un altro dipinto etrusco con una raffigurazione precisa (i dettagli sono minimi) dei lottatori. Con il 'vinto' che si solleva, si distende e curva. Quale dei due viene prima? Non so. Ma è irrilevante. C'è sempre un 'prima' che fa comodo a tutti gli altri e che non può essere modificato nel suo 'schema' pena il mutamento di segno fonetico o la sua incomprensibilità. Semmai il mutamento opera sul piano della sintassi (e anche qui bisognerebbe analizzare tutto per benino) per aggiungere, invertire, mettere una 'voce' al posto di un'altra. Bandinelli ovviamente non può cogliere il mix (sempre che ci sia) della 'scrittura' e analizza secondo un suo modo di vedere e concepire l'arte. Quindi non può capire il valore stesso dello 'schematismo' che cade inesorabilmente sotto l'accetta del suo giudizio. Ma se posso spiegarmi così: il critico e storico dell'arte non può comprendere che il procedimento A + B + C ecc. ha bisogno di un codice dove lo schema è spesso già prefissato. La 'B' (per dire) è quella e la si prende dal codice. Certo, vale sempre l'obbiezione che il vero artista ama essere 'originale' e modificare. Ma questo dell'originalità è (e lo sai bene) requisito della critica recente e contemporanea. Gli antichi ripetevano, spesso pedissequamente, senza imbarazzo le lettere di un codice quasi normato da altri. Se dovessimo trasferire in pittura l'Eneide virgiliana essa non sarebbe che un colossale riporto per schemi dei poemi omerici (per questo il poema latino era detestato dalla critica romantica tedesca). Ma quello che interessa non sono gli schemi di per sé ma come li si usa; in che modo diverso li si usa. Interessava la 'variatio'. Ciò vale per la scrittura metagrafica. Bronzetti nuragici e pitture e sculture etrusche manifestano spesso scarsa originalità (è questo che ama sottolineare il Lilliu analizzando l'arte) ma il saluto nuragico o il riporto della mano sul capo per gli etruschi (ideografia per entrambi, segni 'alfabetici' d'obbligo)quelli sono e quelli vengono ripetuti nello 'schema'. E' da tempo che ti ripeto sempre la stessa cosa: il segno nella sintassi dell'opera (di architettura, di scultura, di pittura) viene prima dell'arte. Deve comunicare, deve dare la formula salvifica e deve dare parole ben precise e inequivocabili. Tu mi ripeti che entrambe le cose possono andare d'accordo. E va bene. Ma io mi sento in dovere di insistere che il segno comunicativo viene prima dell'estetica; viene prima il suono che porta alla salvezza e non l'estetica che può solo ingentilirlo. Ma su questo 'ingentilire' e sul suo significato si dovrebbe discutere per un bel po'. Anche per difendere il presunto schematismo e per non accettare il 'cartonismo' impietoso dei critici.

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  6. ««Ma questo dell'originalità è (e lo sai bene) requisito della critica recente e contemporanea»»
    Interessantissimo!! Grazie!

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  7. Penso (non ne sono sicuro), che il Prof. Sanna abbia voluto darci un po' di compiti a casa.
    Osservando la parte inferiore della tomba della caccia e della pesca, si scorge una miriade di uccelli in volo sotto una fila di serti, un personaggio che cerca di abbatterli con la fionda; delfini, anatre e una barca a mare; certamente anche questa parte della scena ha un significato allusivo particolare; per la quale il Professore non si pronuncia.
    Sulla destra della parete osserviamo un'anatra nell'intento di alzarsi in volo (alzare?), una che a terra cammina (distendere?), una terza in fase di atterraggio (curvare?).
    Nella scena successiva vediamo un personaggio intento a cacciare uccelli in volo (sembrerebbe che sia intento a mirare quelli che gli vanno incontro), che si a lì per ricacciare quelli che vogliono tornare alla vita terrena?).
    Di seguito vi è una barca-delfino dalla quale un pescatore stende la rete; davanti a questa un delfino si tuffa (curvare), un'anatra stante sullo scoglio (distendere), un secondo delfino che si libra in aria assieme ad un'anatra che spicca il volo (alzare o meglio rinascere assieme?).
    Per gli etruschi l'anatra era simbolo sacro di fedeltà coniugale; mentre il simbolismo del delfino è spiegato nello “Inno a Dioniso”.
    Oltre non so andare; ho bisogno di un traghettatore!

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