Francu Pilloni
Chi mi conosce sa che sono un INDOLENTE che, però, non sta con le mani in mano.
Piuttosto le poso sulla tastiera del pc e … Dio ce la mandi buona.
Fu per questo che, nell’era del lockdown, mi scappò di mano la favola della “Luna di miele con una sconosciuta” che alcuni di voi hanno iniziato a leggere, pochi l’hanno finito, la più parte ha rinunciato a comprarlo. Peccato, perché so che veramente in pochi avrebbero rinunciato a siffatta luna di miele
In era di zona bianca (ho scritto zona, non zanna!), ho racimolato una dozzina di racconti “perduti”, ne ho confezionato quasi altrettanti e, sentite questa!, ho convinto l’architetto Francesco Tabacco fiorentino di darne una sua libera interpretazione, nel bene e nel male. Così è nato “Il contadino e la Luna – persone e miti del villaggio”, il mio naturalmente, che però assomiglia maledettamente al vostro.
Poi ho pensato: a chi vuoi che interessino le vicende di un paesello sperduto tra La Giara e il Monte Arci?
Da indolente quale sono, ho risposto da par mio: boh!
E così (ma non per questo), le ho pubblicate.
Per effetto delle illustrazioni di Tabacco, questa pubblicazione si è dovuta realizzare in carta speciale che supporta il colore. Il prezzo ne risente ma l’ebook costa solamente 2,69 euro (di meno non potevo, altrimenti per ogni copia che comprerete mi toccava aggiungere 30 centesimi).
I 21 racconti sono messi ragionevolmente a caso, l’uno dietro l’altro. Vi potrei citare alcuni titoli, ma so che non vi direbbero niente. Per esempio: Zia Cera, cosa vi dice?
Ecco, ve lo voglio anticipare in fondo, neanche tutto, o forse sì, giusto per farvi un’idea.
L’ho detto che si acquista da Amazon?
ZIA1 CERA
Che io ricordi, tutti l’avevano sempre chiamata zia Cera o zia Gera, difficile da distinguere per quella particolarità fonetica della nostra parlata grazie alla quale la C iniziale si addolcisce in G, non gutturale, ma strascicata un po’ come la J francese.
Anche chi era più vecchio di lei la chiamava zia Cera.
Piccola di statura, curva e mal ridotta, caracollava penosamente per strada quasi addossata al muro.
Viveva in una sorta di ampio monovano, molto più lungo che largo, con un finestrino triangolare senza imposte, situato tre metri in alto a metà della lunghezza.
Quel locale poteva essere stato un pagliaio, ma poi fu per tutti la casa di zia Cera.
Che si chiamasse Olimpia lo scoprii il giorno del suo funerale. Il prete infatti si riferì più volte alla defunta chiamandola “nostra sorella Olimpia” e, dunque, non potevo dubitarne. Sino a che età abbia vissuto non posso dirlo: fu seppellita nella nuda terra argillosa di Mreviani in una mattina fredda di gennaio; sul tumulo fu infissa una croce sgangherata di legno di ricupero, senza il nome, né le date.
Non ho idea di come fosse sistemata la sua abitazione monocamera perché non vi entrai mai, neppure in occasione della benedizione delle case, quando accompagnavo il prete.
Ricordo che in qualche abitazione, don Setzu intimava a noi chierichetti di aspettare fuori e quindi entrava da solo, turbobenediceva con abbondante acqua santa e retrocedeva a passi svelti.
Mi sembra ancora di vederlo come, tornato in strada, sventolasse con violenza i lembi inferiori della sua veste talare, con l’intento dichiarato di indurre a firmare un atto di rinuncia territoriale alle eventuali pulci che gli fossero saltate addosso nella rapida visitazione dell’interno dell’abitazione appena benedetta.
Nella casa di zia Cera invece don Setzu si affacciava sulla porta che non era mai chiusa, almeno mai col chiavistello, che fosse presente la titolare o in sua assenza poco importava, lanciava tre scrosci di acquasanta nell’ambiente buio, terminava la preghiera velocemente e faceva retromarcia.
Morta l’abitatrice, non so per opera di chi a quella porta fu apposto un lucchetto che impedì di soddisfare la curiosità mia e degli altri ragazzi.
Ma chi era zia Cera e perché la chiamavano così?
Cera è notoriamente un cognome, ma non era il suo. Si chiamava Olimpia Manca. Non aveva parenti in paese, nessuno ne vide alcuno arrivare quando era in vita e tanto meno alla sua morte.
Un po’ la prendevano in giro perché si atteggiava a centrale di rilevamento per le previsioni meteorologiche, sia per la pioggia e i temporali, che per i venti, specialmente per su Bentu de soli, il Vento di sole, vale a dire lo Scirocco e anche un po’ per il Libeccio, visto che ambedue prendono d’infilata la valle tra la Giara e il Monte Arci e vengono costretti a procedere nella direzione identica, da Sud a Nord.
Ho supposto, ma molto più tardi, che quel “zia Cera” fosse un nomignolo, il riferimento esplicito a Ceravallu, o Geravalliu, la pubblicazione annuale che veniva venduta quasi porta a porta nei mesi estivi da un forestiero di poche parole, di cui non si sapeva il nome, né la provenienza, anche se qualcuno aveva giurato di avergli sentito dire che viveva a Santu Sparau. Ai bambini sembrò una battuta spiritosa, perché sparau significa tanto “asparago”, quanto “fucilato”.
E in chi non susciterebbe il riso un Sant’Asparago o un San Fucilato?
Invece quel paese è San Sperate, allora sconosciuto e molto fuori mano, tanto da apparire inventato.
E sì, perché il Cerevallu era un lunario, un almanacco nel quale l’anno contemplato non era quello solare, bensì quello agrario, con mese iniziale a Settembre che, non per nulla, in sardo è Cabudanni, come il latino Caput anni, cioè Inizio d’anno.
Si diceva che su quella pubblicazione erano previsti in modo esemplarmente preciso i Noviluni e le Lune piene e i Quarti di Luna, anche graficamente rappresentati, come in modo spudoratamente casuale invece erano preannunciati gli eventi meteorologici di pioggia e di sereno, susseguentesi per cicli settimanali, pari a ciascuna fase lunare, in cui era scansionato l’anno.
Né mancavano i suggerimenti per la semina, per le coltivazioni dell’orto, dei fiori, per il travaso dei vini, e quant’altro potesse orientare il lavoro dei contadini e delle casalinghe, come pure non difettavano gli apprezzatissimi spunti di sagacia antica, quali i proverbi e i modi di dire.
Contrariamente a quanto si potesse prevedere, in paese erano i pastori a comperarlo e non i contadini. Sì, i pastori perché, se pure in massima parte analfabeti, erano convinti di trarre un vantaggio nella considerazione sociale solamente per il fatto di averlo acquistato, di possederlo e di mostrarlo all’occorrenza. Mostrarlo dico, non prestarlo: ne erano gelosi quanto di nessun’altra cosa mai; lo tiravano fuori dalla tasca interna del corpetto, ma non lo facevano sfogliare a nessuno.
Quando con l’esperienza maturata non si era in grado di intuire in quale verso volgesse il tempo, ci si affidava al Ceravallu come ultima risorsa, consultandolo in privato all’interno della propria famiglia.
So che l’attaccamento così spropositato a un semplice manuale da parte dei pastori appaia come una forzatura, un’esagerazione grossolana. È utile, al contrario, ricordare le condizioni dei borghi sardi nei primi anni del secondo dopoguerra: da noi, per esempio, non c’era la corrente elettrica - dunque si eliminino tutti i congegni che funzionano con essa, compreso un semplice apparecchio radio -, neppure per la pubblica illuminazione delle vie (si faceva tesoro dei pleniluni!); mancava la rete idrica per l’acqua potabile e si ricorreva ai pozzi; nessuno acquistava un quotidiano o un periodico, né c’era chi li vendeva; si apprendevano le “ultime” notizie dal mondo grazie al quotidiano del Vaticano che arrivava per posta al prete con tre-quattro giorni di ritardo.
Alla luce di quelle situazioni, dunque, la rivalutazione di un semplice Geraralliu non appare più tanto stravagante.
A me, che pure ero tenuto in primaria considerazione quanto ad affidabilità per incarichi di lettura della corrispondenza di alcuni pastori – e si badi bene che non erano miei parenti -, mai capitò di averne uno fra le mani. Neanche quando, ad agosto, qualche pastore doveva fare i conti delle pasture e mi affidava l’incarico di redigere il rendiconto dell’annata, prima calcolando la somma delle spese, poi dividendola per capo di bestiame e quindi desumendo la quota di spesa spettante a ciascun proprietario di bestiame, che risultava dalla differenza fra la spesa per i suoi capi e l’apporto di quanto aveva contribuito in pasture.
Senza contare che, quando vendevano la lana o il formaggio, ero proprio io il fiduciario addetto alla lettura della bilancia, a registrare ogni pesata, a sommarle e a realizzare numericamente il profitto moltiplicando l’entità peso per il prezzo di vendita. E non finiva là: dovevo anche controllare l’assegno con cui il commerciante pagava, verificandone l’esatta compilazione e la firma. Il tutto dietro compenso di una forma di formaggio che però non mi veniva consegnata al momento, ma recapitata a casa il giorno dopo perché si doveva ringraziare mia madre a cui avevano chiesto il favore di mettere quel suo figlio a disposizione.
Con tutto ciò, un Ceravallu non lo sfogliai mai, neppure quello dell’anno prima. Al più lo intravvidi di sguincio.
Si sa che le previsioni meteorologiche anche oggi hanno un margine d’incertezza pur se riferite a uno o due giorni solamente; figuriamoci quelle fatte mesi prima o addirittura un anno prima dato che, per essere venduto a luglio-agosto, doveva essere innanzi tutto stampato e prima ancora compilato e scritto. Ciò non ostante, le probabilità che ci azzeccasse restavano prossime al 50%, perché così è tra nuvoloso e sereno. E se il manuale aveva previsto pioggia, ma poi si erano viste solamente poche nuvole, il pastore trovava in sé un ragionamento atto a non sconfessare il proprio Ceravallu, per non sminuire così clamorosamente il valore dell’investimento: ipotizzava che, se nel nostro paese certamente non era piovuto, altrove invece forse - metti Tuili, metti Laconi, metti Mandas, Mogoro o Uras - la pioggia c’era stata eccome! Poteva sempre affermare di aver sentito il brontolio lontano del tuono.
Ciò gli permetteva di concludere, con uno scatto di logica stringente, che era ragionevole pensare che il Geravalliu non era stato compilato tenendo conto del nostro villaggio solamente!
Le previsioni di zia Cera, al contrario, erano di gran lunga più attendibili, seppure nessuno abbia mai saputo in virtù di quale indolenzimento interiore venissero elaborate. E che avesse dolori e formicolii vari si sapeva.
Si presentava con le mani storte, incapace di manovrarle per un lavoro che richiedesse un minimo di precisione; zoppicava vistosamente da una gamba e arrancava reggendosi a un bastone di sambuco. Chiaramente impedita a ogni proficuo lavoro, Dio solo sa di che cosa vivesse, visto che non esistevano sussidi pubblici per situazioni simili. O, se c’erano, lei non ne godeva. Si può supporre comunque che non ne avesse mai fatto richiesta.
Ripeto che Dio certamente sapeva, ma anche le vicine di casa e qualcun’altra di diverso vicinato non ne erano del tutto all’oscuro, dato che le portavano una lada2 o unu civraxeddu3, nel giorno in cui cuocevano il pane per la settimana. E quando ammazzavano il maiale casalingo, un pezzo di lardo glielo mandavano in molte, in un pacco che poi chiamavano mesu mandau (mezzo mandato), essendo su mandau pieno quel dono di lardo, fegato, polpa, sanguinaccio, ecc. che veniva “mandato” appunto ai parenti e agli amici di famiglia i quali, a loro volta, ricambiavano nella stessa misura, quando avessero essi fatto sa mungia de su porcu, intendendo per mungia tutte le incombenze che richiedeva la trasformazione del porco da animale vivo in pezzi di lardo, in salsicce, in ossa salate e negli altri sottoprodotti che se ne ricavavano.
Seppure a fatica, zia Cera girava per la campagna in cerca dei prodotti di stagione, fossero gli asparagi o le favette, le lumache o i funghi, le erbe di campo o di fiume, o le diverse qualità di frutta che man mano arrivavano a maturazione. Nessuno mai le rimproverò ciò che, come fattispecie, si concretizzava come un furto, anche perché zia Cera non esagerava nel prendere, le bastava quanto soddisfaceva il bisogno di quel giorno. Nessuna delle vicine le negava un uovo per fare la frittata.
Di lei si diceva che cucinasse inopinatamente bene le lumache coi pomodori freschi e il coniglio selvatico a succhittu, vale a dire in casseruola con cipolla, aglio, prezzemolo e olive in salamoia. Ci metteva una foglia di alloro, una goccia d’aceto e sa pilarda, i pomodori spaccati a metà, salati e lasciati seccare al sole, poi imbottiti di basilico.
Era notorio che il coniglio non lo consumasse mai da sola, ma con chi glielo aveva procurato, visto che per lei sarebbe stato ben difficile catturarne uno vivo. Dopo cena, dicevano le male lingue, mentre quelle buone si astenevano in un silenzio significativo, zia Cera si concedeva volentieri a chi gliel’avesse chiesto, senza farsi pregare.
Morì e fu dimenticata in fretta.
Mi appare davvero come una stranezza che zia Cera mi sia tornata in mente oggi, all’improvviso, e non riesco a trovare un legame associativo, visto l’enormità del tempo trascorso, settant’anni contati, e che ora io viva in altro contesto, cento chilometri lontano.
Si spiega debolmente con la continuità del desiderio intenso di capire le cose umane che mi è stato connaturale sin da bambino, nella seduzione che subivo per pormi nei panni degli altri allo scopo di afferrarne i pensieri e gli stati d’animo.
Un’inclinazione che spesso si è tramutata in un sentimento di pietà per i vinti, per chi si è arreso, una sorta di simpatia per gli ultimi con i quali avrei voluto dividere l’aspirazione a vedere compiute le cose più giuste, che fa il pari con quello grumo di emozioni e di sdegno che mi pervase quando, in occasione della visita ai morti del novembre di quello stesso anno, mi resi conto che il cumulo di terra sopra zia Cera non era più contrassegnato dalla pur raccogliticcia croce anonima, ma veniva calpestato impunemente da tutti, ragazzini, donne e adulti compresi.
A me era sembrata una vecchia, ma si sa che ai bambini può sembrare vecchia anche una donna di quarant’anni, specialmente se mostra qualche ciocca bianca, un viso non proprio levigato e più che un’ombra di baffo. Quest’impressione veniva rafforzata dal fatto che la donna fiutava tabacco, al pari di alcuni vecchi del villaggio, ai quali ne chiedeva un pizzico per una estemporanea sniffata, visto che le monete per acquistarlo neanche sporadicamente transitavano tra le sue mani.
Seppi, qualche anno dopo la sua morte, che era figlia unica di un pastore forestiero al servizio del più ricco del paese.
Un giorno, quando la ragazza aveva sì e no tredici anni, ma pare che ne dimostrasse di più grazie al seno esuberante, fosse stata scoperta dal padre in località Pranu, all’ombra di un ciliegio, in pose compromettenti, sopraffatta da un giovane di dieci anni più vecchio di lei.
Il padre, che si chiamava Giuanni (Giovanni), si mise a urlare appena intravvide la scena per lui sconvolgente e si precipitò furioso contro i mascalzoni. Il giovane, certo Venanzio Serra, ebbe gioco facile a rialzarsi di scatto e a scappare tenendo su i pantaloni con una mano, mentre la poveretta rimase a gambe all’aria e a pancia scoperta. Il padre scagliò sa mazzocca4 contro il fuggitivo, soltanto che questa colpì in pieno il tronco del ciliegio e gli ritornò indietro.
Fu con quella che massacrò la figlia, la quale tentò di difendersi dai colpi parandoli con le mani, con le braccia e con le gambe. Esaurita la furia, il padre la lasciò distesa, ancora con la pancia scoperta ma ora insanguinata, convinto di averla ammazzata. Invece la ragazza si riprese, cercò di mettersi seduta aiutandosi con i gomiti, non riuscendo a tirarsi in piedi a causa della rotula e della tibia destra spezzate. Né poteva aiutarsi con le mani, dato che aveva ambedue i polsi fracassati.
Chiamò aiuto a lungo; qualcuno infine la sentì e la riportò in paese, reggendola in braccio.
Data la morigeratezza imperante in quei tempi e la voglia di riservatezza della famiglia, che non voleva propagandare i particolari della circostanza, nessuno fece nulla e passò la finta voce che si fosse ferita cadendo da un albero. Una volta arrivata a casa, fu abbandonata a se stessa sopra una stuoia di erba palustre: che morisse pure, ché le conveniva; che guarisse, se le riusciva; che vivesse, se trovava il coraggio.
Quel giovane audace invece, da par suo scappò senza voltarsi, non rientrò neppure a casa, ma si rifugiò a Figu, nascondendosi presso una zia.
Un cugino fece da ambasciatore presso il padre del ragazzo con l’incombenza di raccoglierne gli effetti personali, metterli in un sacco e portarli al fuggitivo.
Insieme ai vestiti, gli fu consegnata una somma di denaro in contanti, quello che si riuscì a racimolare in tutta fretta.
La mattina dopo, con circospezione assoluta, Venanzio Serra salì sul treno alla fermata di Figu e viaggiò sino a Villamar; da lì a Sanluri Stato e a Cagliari. Questo si dà per certo. Si dice che in seguito abbia preso un piroscafo per Napoli, per poi imbarcarsi per Buenos Aires, dove Giuanni Manca non l’avrebbe mai raggiunto.
Ma questa parve a tutti una bugia, atta solo a scoraggiare chi avesse avuto l’intenzione di cercarlo per mettere in atto l’eventuale vendetta.
Per dare un finale a questa storia, che non è esaltante e a rammentarla mi ha provocato il malumore, riferisco quello che ho sentito raccontare da mia nonna.
La madre di zia Cera non arrivò a Santa ‘Ruxi, Santa Croce, la fiera oristanese del quattordici settembre, che segnava la fine dell’anno agrario e dei patti fra padroni e servitù: si lasciò morire di fame, si spense di sfinimento per la vergogna e per il dolore, visto che il marito aveva fatto ricadere la colpa dell’accaduto su di lei.
Quanto al padre, corse voce che si fosse suicidato il vespro di Ognissanti: si era buttato o era scivolato nel fiume in piena.
Il cadavere fu rinvenuto da un pescatore di anguille dopo una settimana in un’ansa del fiume, incastrato tra le canne.
Ancora oggi quel tratto di fiume è chiamato Su carropu de Giuanni Manca, la piscina di Giovanni Manca, benché veramente in pochi ormai conoscano le ragioni di quella denominazione.
La ragazza, rimasta sola, fu tollerata per qualche settimana nell’alloggio riservato al pastore nella grande casa del datore di lavoro del padre, poi le fu trovato un rifugio, come già descritto, dove sopravvisse grazie alle continue elemosine di tanta brava gente - che qui è rimasta senza nome e senza gloria -, cucinò di tanto in tanto coniglio selvatico a succhittu e annusò saltuariamente tabacco da naso. Sempre a scrocca, a sbafo, s’intende.
A questo punto, mancano solamente le notizie relative al baldanzoso giovane che scappò tirandosi su i pantaloni con una mano. Il quale, valutato l’evolversi della situazione, avrebbe potuto rientrare senza pericolo già dopo un anno. Invece non lo fece; forse non dipese dalla sua volontà.
Si fecero tante ipotesi; le chiacchiere furono tante e ricorrenti.
In verità, mai ho subito la tentazione di immedesimarmi in lui per intuirne i pensieri e le emozioni.
Sarà proprio per questo che non ricordo proprio nulla di ciò che di lui fu detto?
1 – zia, in sardo si pronuncia con la zeta dura;
2 – lada, un pane a ciambella di circa mezzo chilo o anche più;
3– civraxeddu, diminutivo di civraxu che è un pane tondo detto anche “pane di Sanluri”, che può raggiungere e superare i due chili;
4 – mazzocca, tipico bastone del pastore, spesso di olivastro, con una testa sferica pronunciata.
Perdona Francu, nas chi "zia" si leghet cun sa "z dura", o tosta, o "surda" cumente nan sos linguistas, chi presentan custu sonu cun "ts" e cancunu cun "tz". Totu zustu. Tocat a narrer però ite est cust'allega, ite cheret narrer, ca iscritu goi balet po "tsia" (sonu surdu o tostu) cumente nas tue e est "signora" in talianu, e si nat a una emina manna. Si lu leghes "dzia" (sonoru o sonante o debbile) tanto est in talianu e no in sardu, e est "sorre de babbu o de mama", chi in bidda mea namus "thia", cun sa limba astrinta in mesu 'e dentes; no isco in campidanesu.
RispondiEliminaZia - sempri zeta dura - est sa sorri de sa mamma o de su babbu ma, po rispettu, totus is feminas de una certa edadi in susu. Sa propria cosa, gualis gualis, po ziu.
RispondiEliminaCandu fui piticu, depia zerriai ziu o zia a chini, mascu o femina, mi bincessit in edadi prus de dex'annus. Pustis custu costumu est arrutu in disgrazia, tantu chi a mimi mai nemus m'hat zerriau ziu Francu. E seu cuntentu aici puru.
A bortas cumbinàt de nai "hapu biu una zia (strangia) in giru po sa bidda" o "unu ziu (strangiu) est intrau a cresia", po nai "una persona de una certa edadi no connota".
Candu sa persona est connota, ma bollu cuai su nomini, hap' a nai "hapu biu a fulana ... o a fulanu ... intrendu a cresia".
Ma hat a essi aicetotu a is partis tuas puru.
Perdonamì ca no seu linguista, ma m'est benida sa duda chi, si hessi scrittu "zeta surda" - sigumenti surdu est su chi no intendit - chini liggit is contus mius, ca linguistas no funti, hessit cumprendiu chi sa zeta in prus che surda hessit muda puru e liggessit "Ia Cera".
Pigadda cun alligria.
Ziu Francu, è meglio essere chiamati "ziu" da tutti coloro che "vinciamo" di almeno dieci anni, che essere ritenuti vecchi di 40 anni come tempo fa sentii affermare in ritagli di dialogo tra due ragazzini. Meglio, molto meglio, dato che si entra nella nobile qualifica di "ziu" nel momento in cui il primo infante che apre bocca possa esser istigato a dar dello "ziu" a un dodicenne.
RispondiEliminaEra così, or non è più.
RispondiEliminaAllora in sardo c'erano sette pronomi personali: deu, tui, issu/issa, nosu, bosu, issus/issas, oltre a un Vustei o Fustei o Vusteti che era il pronome rispettoso di riserva, dedicato al padre e alla madre, ai nonni, zii e quant'altri, oltre che a quelli chiamati ziu o zia, senza essere parenti.
Oggi in Sardegna e nel mondo che chiamiamo evoluto e occidentale, i pronomi sono sempre sette: Io, Io, Io, Tu, qualche Noi e pochi Voi. Il settimo, Esso/a ed Essi/e è riservato per indicare gli Altri, in special modo quelli che rompono le scatole venendo nuoto da spiagge lontane e tutti quelli che presumono di aver diritto a tutti i diritti di cui godo Io.
Ti dico queste cose perché mi sto preparando un sentierino per salire in Paradiso.
Nessuna propaganda elettorale, non voglio essere sindaco neppure di me stesso.