giovedì 5 gennaio 2017

Muttettus, cantadoris e sa Regula

Francu Pilloni


In piazza per la gara poetica (da www.sardegnacultura.it)
Poco meno di cent'anni fa, diciamo intorno agli anni Venti del secolo scorso, riprendeva la vita normale dopo la fine della Grande Guerra (novembre 1918) e, di conseguenza, anche le sagre paesane riprendevano quota, ivi comprese le gare poetiche dal palco, con is cantadoris che si esibivano a trivas, principalmente con is muttettus in Campidano, con is ottavas in Cabesusu, mentre nell'Oristanese non si disdegnava un altro genere di cantada, formata da un'ottantina di versi, e chiamata a sa repentina che ebbe un brillante protagonista in Peppino Ghiani di Terralba.


Di questo si parlerà un'altra volta, perché oggi parliamo della concorrenza, specialmente nel Campidano di Cagliari, fra is cantadoris dato che, per essere invitati a salire sul palco, si percepiva una borsa non trascurabile, forse più cospicua di quella riservata a un pugile di media bravura.
Fu allora che i tre cantadoris allora più in voga decisero di contrastare i meno bravi imponendo sa Regula. Efisio Loni, Francesco Farci di Cagliari e Pasquale Loddo, imposero dall'alto dell'autorità della loro provata e indiscussa bravura, che su muttettu doveva avere almeno otto versi settenari (peis o cambas) in sa sterrida, i quali dovessero rimare a schina de pisci, vale a dire che i versi dispari (1, 3, 5, 7, …) trovassero sa crosa nelle parole del secondo verso de sa torrada, mentre i versi pari con quelli del primo verso de sa torrada, naturalmente ripresi nell'ordine in cui erano stati cantati in sa sterrida.
Per farla breve, si può dire che sa cantada, costretta in quei termini, non è affatto agevole e, proprio per questo, tagliava fuori chi non era davvero bravo, o solamente giovane alle prime armi.
Siccome siamo ancora in tempo festivo, ne porgo uno che parla dei tempi attuali: lo si prenda come esempio e, in zona Befana, se del caso il carbone lo farete trovare nella mia calza.

Sterrida:                          Annu nasciu assustrau         1
                                       bombas zaccant in terra,      2
                                       celu de luxi tintu                   3
                                       fraria ferit is ogus:               4
                                      fest’ ‘e civilidadi                   5
                                     chi sene una pregonta            6
                                     bittid’ ‘e genti aresti               7
                                     in mes’ ‘e nos est frorida.      8

Ripresa del verso 1:      Annu nasciu assustrau.
Torrada:                        Sa vida contat giogus de gherra       A
                                     Ma chin’ hat bintu no s’est sarvau.   B

Dopo di che iniziava sa retroga: si riprendeva il verso 2 e si adattava sa torrada perché si avesse la rima col verso A, ma anche il verso B veniva adattato perché potesse rimare col prossimo verso 3. Si andava avanti e si va ancora oggi nel modo seguente:

Ripresa del verso 2:     bombas zaccant in terra,
                                     no s’est sarvau chin’ hat bintu
                                     sa vida contat giogus de gherra.

Ripresa del verso 3:     celu de luxi tintu.
                                     Sa vida contat de gherra giogus
                                     No s’est sarvau chin’ hat bintu.

Ripresa del verso 4:     fraria ferit is ogus.
                                    No s’est sarvau chi’ bintu hadi
                                    de gherra sa vida contat giogus.

Ripresa del verso 5:    fest’ ‘e civilidadi.
                                   Giogus de gherra sa vida contat
                                   No s’est sarvau chi’ bintu hadi

Ripresa del verso 6:   chi sene una pregonta.
                                  Chi’ bintu hadi sarvau no s’esti
                                  De gherra giogus sa vida contat

Ripresa del verso 7:   bittid’ ‘e genti aresti.
                                   Contat giogus de gherra sa vida
                                   Chin’ hat bintu sarvau no s’esti

Ripresa del verso 8:    in mes’ ‘e nos est frorida.
                                    Chin’ hat bintu no s’est sarvau
                                    Contat giogus de gherra sa vida

Chiusura come al verso 1:    Annu nasciu assustrau
                                             Contat contus de gherra sa vida
                                             Ma chin’ hat bintu no s’est sarvau.

Spesso si può incontrare una variante allo schema proposto in quanto nella retroga vengono ripresi due versi consecutivi, quello che avrà la rima e il susseguente che avrà la rima al passaggio successivo, ciò che costringe a una diversa manipolazione de sa retroga per non avere due rime.
Come è noto a tutti, su muttettu è composto da due parti: la prima, sa sterrida, che generalmente è descrittiva e può diversificare il contenuto dalla storia, alla religione e ai fatti della vita umana e naturale; la seconda, sa torrada, in cui è contenuto il messaggio vero e proprio.
Quel ripetere per tante volte sa torrada, se pure scomposta e ricomposta nei suoi sintagmi, dà forza al messaggio stesso. Si comprende pure come si abbia bisogno di grandi facoltà mnemoniche per arretrogai senza errori sa torrada così come è stata esposta.

A seconda dello stile del cantadori, più andante o più solenne nel canto, per portare a termine un solo muttettu occorrono dai sei ai dieci minuti. Capita perciò che, se alla prima retroga si prova piacere alla comprensione del messaggio, è vero anche che la sua ripetizione per così tante volte induce alla distrazione il pubblico astante. Questo significa che in una gara con tre soli cantadoris che duri due ore, mediamente si ascolteranno dai 12 a 21 muttettus, vale a dire dai 4 ai 7 per ciascuno.
Se la ripetizione multipla dei versi appare oggi ed è effettivamente un limite, nel senso di appesantimento dello svolgimento della gara, essa è stata, in tempi meno tecnologici di questi odierni, un punto di forza perché permetteva agli appassionati di mandarli a memoria o anche di scriverli.

Dimenticavo: is cantadoris avevano un seguito strumentale che dava la nota iniziale e la melodia. Poteva essere rappresentato dalle launeddas oppure dalla fisarmonica. Ancora oggi, però, è presente la vocalità di un coro minimale, rappresentato storicamente da due voci che cantano contemporaneamente, distinte in basciu e contras.



8 commenti:

  1. Bellissima lezione Francu, è talmente difficile e complesso questo modo di cantare che ci si perde solo dietro al ragionamento; figuriamoci a cimentarsi in questa antica arte.
    Pensavo che il massimo delle prestazioni miracolose fosse suonare le launeddas, respirando e soffiando nel contempo, qui si va oltre perché il cervello deve girare a mille.
    Posso pensare che l'assuefazione al continuo esercizio faccia agire il cervello in automatico, però ce ne vuole!

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  2. Sono invenzioni (trovate poetiche) uniche al mondo, credo. Ma non siamo stati in grado neanche di imporci nella poesia (l'atto del 'POIEIN') perché la si è giudicata (come tutte le cose sarde d'altronde) con metodi e categorie improprie. Cioè con quelli dell'arte poetica italiana ed occidentale in genere che nulla ha a che fare con l'elaborazione tecnico - formale e musicale della poesia sarda ( che sia il muttetu, Sa repentina o S'Ottava. La bravura artistica era nel 'comporre' e nella memoria non comune dei cantadoris/es che rendeva possibile quella TECNE. Quanto al 'ripetitivo', caro Franco, esso come concetto dell'arte si perde nella notte dei tempi. Tutta l'arte sarda è ripetitiva, ossessiva nel 'prendere' e 'riprendere'. E' 'il concetto di 'variatio' di cui ho parlato non poche volte trattando della stessa scrittura nuragica. Le regole restano uguali ma ogni prodotto 'artistico' vuol essere una 'variazione' sul tema obbligato. Il canto e la musica (in origine religiosi) hanno la loro 'estetica' nella 'forma' e non nei contenuti. Quando questi ci sono colpiscono chi ascolta per l'arguzia e la trovata con cui sono stati raggiunti, non per la profondità (o altro che si voglia trovare). I bronzetti -spero che mi ascolti Angelo Ledda - non contano per l'arte in sé, se non per la sagacia della differenziazione nel ripetitivo e nel realizzativo formale. Io credo che un filo rosso ' estetico' (nel senso proposto) corra tra i primi prodotti delle variazioni ossessive formali dei nuragici e i prodotti della musica e della poesia odierni. Quasi che noi ormai lo possedessimo nel sangue.

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  3. Il 'virtuosismo' di questo tuo brano, caro Franco, merita tutto il 'carbone' ovvero tutto il pane quasi secolare di tutti i minatori del Sulcis. E quindi tutto il plauso da parte mia. E la spiegazione pure. Che bella che sarebbe stata una scuola che avesse fatto comprendere, come hai fatto tu, ai giovanissimi e ai giovani su quali 'incredibili' e originalissime regole si basa il canto poetico sardo. Dove lo trovi in Italia? Dove in Europa? Dove nel mondo? Eppure è lì umiliato e magari respinto dalla stessa accademia sarda che è in prima fila per far studiare la metrica 'italiana' (sempre che esista una metrica italiana) per 'capire' Carducci, Pascoli e via via i minori e i minimi di una produzione 'spazzatura' . Persino il nostro Sebastiano Satta gode del privilegio della metrica ovvero della produzione formale in lingua italiana. Tanto che si trova nelle antologie come 'poeta'. E la poesia 'cantata' sarda? E chi se ne frega? A parte il disprezzo della lingua sarda (i quello che hanno insistito sino alla morte per chiamare 'dialetto), la 'liquidano' così: è monotona, è ripetitiva, meccanica, superficiale, senza consapevolezza del bello e del sublime. E a corredo tutto il 'bla, bla, bla' di 'poesia' e 'non poesia' elucubrato da Benedetto Croce che domina ancora nell'estetica italiana nonostante l'opposizione dello 'storicismo' della seconda metà del secolo scorso. Vedi Franco, una volta scrissi ad Aba losi una lunga lettera (che credo che conservi) sull'indipendentismo sardo e cosa io intendessi per 'indipendentismo'. Per capirlo mi affidai al paragone ( necessario ma impreciso come tutti i paragoni) di Malta. Quest'isola giudicata italiana sino a non molto tempo fa ordina così le cose, con le giuste priorità etnico-storiche: prima la lingua maltese(con le profonde radici semitiche), poi l'inglese e quindi l'italiano. Cioè prima c'è la lingua e la cultura delle origini, poi la lingua e la cultura della comunità maltese governata dagli inglesi e infine quella italiana. Pensa tu ad una Sardegna di questo tipo. Cosa avrebbe apportato? Certamente ad uno studio doverosamente approfondito della letteratura comunicativa ed espressiva in lingua sarda a partire dalle origini. Oggi quella 'letteratura' dovrebbe iniziare (come iniziano tutte le letterature) dai documenti nuragici in semitico, documenti che precedono l'etrusco e il latino romano. Ce lo vedi tu un testo scolastico dove l'Italia mononazionalistica e giacobina, mette al primo posto nella civiltà della comunicazione e dell'espressione per 'segni' fonetici, la Sardegna? Hai scritto una bella cosa Franco e tante di belle ne hanno cantate e scritte is cantadoris mannus mannus del Sud Sardegna. Ma è ciarpame per la politica della nostr (si fa per dire)cultura. E' il nulla che non esiste. E come sempre ti faranno e ci faranno 'cantare'. ''Canta che ti passa! Ti stancherai prima tu nel cantare che noi nel dire che quel canto, in quanto 'non poesia', non fa parte della nobiltà della cultura nazionale italiana''. Viva i 'nipotini' di 'padre' Croce.

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  4. Ringrazio Francu per questo post su un argomento che non conosco. Mi ha colpito molto la questione de "sa regula", sottolineata anche da Prof.Sanna che certamente ascolto, anche a proposito dei bronzetti e del rapporto con l'arte. In particolare questa relazione tra la regola e la sua "variatio".
    Mi viene in mente una citazione dal film "la leggenda del pianista sull'oceano", quando Novecento in risposta a chi gli chiede di scendere dalla nave dice:

    "Tu pensa a un pianoforte. I tasti iniziano? I tasti finiscono! Tu lo sai che sono 88 e su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti loro. Tu sei infinito. E dentro quegli 88 tasti, la musica che puoi fare è infinita. Questo a me piace. In questo posso vivere. Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti... Milioni e miliardi di tasti che non finiscono mai... E questa è la verità... che non finiscono mai. Quella tastiera è infinita. Ma se quella tastiera è infinita allora su quella tastiera non c'è musica che puoi suonare. E sei seduto sul seggiolino sbagliato"

    L'arte non sfugge alle regole - nemmeno quella 'classica' (pensiamo agli innumerevoli trattati di architettura, pittura e così via, fino al rinascimento e oltre). L'arte si nutre di questo scambio tra la regola e la sua distruzione...ed io non penso che i sardi nuragici facessero "arte per l'arte", se non altro perché questo è un concetto moderno.
    Il problema casomai è interrogarci su cosa intendiamo per arte, sul rapporto tra oggettività e soggettività per esempio, per il semplice fatto che una definizione univoca non può esistere. È già il porci la domanda anzi il vero problema.

    Una definizione di arte, forse l'unica possibile, per quanto appaia banale e disarmante, è quella che recita che per arte si deve intendere "ciò che gli uomini chiamano arte". E su questo tema non possiamo dunque sfuggire alla costante analisi storico-critica.

    Probabilmente abbiamo una idea differente su cosa si possa intendere per "arte". Nel mondo antico la costruzione di "immagini" aveva uno scopo funzionale, non nasceva forse con un intento "soggettivo" ma collettivo, non esisteva la sua specializzazione, ma quelle opere restano conecepite con un intento comunicativo e quindi espressivo. E come in ogni lingua o linguaggio, si può comunicare bene oppure male, si può dire molto con poco e poco con molto.
    Se la domanda però è, esiste un "contenuto poetico" nei bronzi sardi? la mia risposta é sì...ma anche qui, se intendiamo per poesia il valore di "creare, fare, produrre" nel senso più ampio. Ritengo che attraverso queste opere (non necessariamente tutte) sia stata costruita la visione del mondo di quel popolo e queste opere tale visione la 'custodiscono'.
    Quello che non è invece scontato che siamo in grado di coglierla o di saperla leggere. E per farlo occorre uno sforzo interpretativo (e tutto ciò per me contempla la scrittura metagrafica senza contraddizione).

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  5. Signor Francu lei è una memoria storica incredibile,complimenti davvero.

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  6. Sono contento che si sia colta l'essenza di quella voglia di "crosai", di mettere sempre e tutto in poesia e la poesia in canto, voglia che nasce (o nasceva) in ogni sardo insieme all'apprendimento stesso della comunicazione verbale.
    Si cerca la rima nel testo del canto, nelle preghiere e nelle giaculatorie, nel pianto per i morti con s'attitidu, e persino nelle imprecazioni e nel turpiloquio. O nella parlata comune quotidiana che, specialmente nelle donne, era piena di "sentenze", quali apprezzamenti tesi a minimizzare, prima di tutti se stessi, per vera o falsa modestia.
    C'era al mio paese - e forse ne è rimasta ancora traccia - un modo surreale di crosai che veniva indicato come rima a sa casparrina, visto che il maggior cultore era appunto un contadino a nome Casparru. Una sua tipica uscita era questa: "No inci arrenesciu, ca no seu intelligenti". L'aggiunta minimale allusiva doveva rimare appunto con "intelligenti", ma lui seguitava con "quattru peis che su cuaddu", chiaramente errato, salvo che spettava a te capire che aveva pensato di dire non "cuddu", ma "molenti", che ha esso pure quattro zampe, lasciando a te di scoprire il suo pensiero nascosto. Sa rima a sa casparrina, appunto.

    Per tornare a su muttettu a schina de pisci, sicuramente è difficile da comporre lì per lì, pronto a rispondere a tono all'eventuale provocazione del cantadori che ha appena finito di cantare oppure, come accade più spesso, a quello che aveva cantato ancora prima.
    C'è da dire che gli otto versi de sa sterrida sono il minimo sindacale, perché poi se ne possono usare anche dieci o più, salvo che poi i versi de sa torrada diventano troppo lunghi, visto che devono contenere almeno cinque, e non più quattro, sintagmi atti a rimare.
    Una volta conclusa sa sterrida e sa torrada, non è agevole ricordare per bene nell'ordine esatto ciascun verso de sa sterrida, per il quale si era preparato l'aggiustamento del verso de sa torrada. E gli antichi ascoltatori - e meglio sarebbe chiamarli cultori, basta vedere come sono seduti nella foto d'annata e come appaiono attenti - non gliela lasciavano passare liscia se il cantadori aveva una titubanza o una confusione momentanea, generalmente subito corretta.

    E a questo proposito avete ben ragione di dire quello che avete detto, andando in profondità in una espressione culturale che può facilmente essere confusa con un fenomeno che provoca più curiosità che riflessione.
    E allora, ricordando come il messaggio sta nella torrada, il fatto che sia riportata per una decina di volte, sempre diversa nell'esposizione, ma sempre uguale nel significato, fa davvero il paio con le scritte nuragiche che, lette da destra a sinistra o da sinistra a destra o in altri modi che più volte sono stati detti e ripresi nel blog, in fondo sono lì per acclarare sempre la medesima verità.
    L'insofferenza oggi spesso dimostrata nelle piazze per la "lungaggine" de sa retroga è l'indice inconfutabile di come si stia perdendo il significato culturale profondo de sa cantada campidanesa.

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  7. Hai fatto bene a porre l'accento sulla folla degli 'iscurtantis'. Erano dei veri e propri intenditori. E oggi dove sono? Che 'schifo' quella cultura 'nazional - popolare! Meglio che i nostri giovani non la coltivino. Che crepi, come tutto ciò che è sardo. Tranne la pecora, che dà il pecorino romano.

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  8. Sembra che ascoltino la predica delle Quarantore. Si evitava anche di tossire. E non dimentichiamo che, più anticamente, is cantadoris avevano la libertà di trovarsi un tema a loro piacimento. Si mettevano d'accordo tra di loro, prima di iniziare. E non è detto che rimanessero proprio sulla vita e sui miracoli del Santo. in occasione della festa del quale si celebrava la gara.
    Oppure si parlava di storia, di religione, di lavoro, di famiglia, di giustizia (che non c'era). Risultavano vere e proprie lectio magistralis.
    Per l'altro sì, salviamo la pecora. Essa è tra l'unica protagonista che continua a interpretare imperturbabile il proprio ruolo: mangia l'erba sia fresca che secca, beve solamente acqua, si fa crescere la lana, partorisce uno o due agnelli per anno, produce il latte, sempre uguale. E bela. Bela sempre, questosì!

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