di gigi sanna
Caro Sergio, dopo la lettura del tuo ponderoso volume ti prego di
leggere (ora) i due piccoli miei
interventi pubblicati nel blog di Gianfranco
Pintore (1) nel 2010 sulla questione della lingua ‘sarda latina’ sia sulla scorta del saggio di Mario Alinei sia
sulla base dei documenti nuragici rinvenuti prima del 2004 (anno di pubblicazione di Sardōa Grammata) e successivamente. Troverai, tra l’altro, che in essi è citato il (fondamentale) saggio di Vittorio Angius, lo studioso sardo dell’Ottocento precursore
della teoria del latino ‘autoctono’ e per nulla figlio del romano. Credo che ti
avrebbe fatto immensamente piacere leggerlo e collezionarlo dato quello che
affermi circa la teoria di un sardo di cui gli etruschi sarebbero figli e i
romani, addirittura, nipoti (2).
Gianfranco
Pintore blog
10 Ottobre 2010
La TdC di Mario Alinei in
Sardegna? L'ha avanzata per primo Vittorio Angius
di gigi sanna
Gli studi sulla cosiddetta TdC di Mario Alinei di cui tanto si discute
da tempo, tra detrattori (anche aspri,
come il glottologo Paolo Ramat: L'Indice, febbraio 1997. V.
anche, in risposta alla critica, Alinei 2000, Origine delle lingue
d'Europa. II. Continuità dal Mesolitico
all'età del ferro nelle principali aree etnolinguistiche. Postfazione pp.
993 - 996) ed estimatori, sono stati, in 'qualche modo', preceduti due secoli
fa, dallo studioso Vittorio Angius (1797 - 1862). Nessuno credo possa negare
questo fatto, data l'evidenza documentaria (v. più avanti). Il suo contributo,
in termini di analisi sull'origine del linguaggio dei Sardi (Lingua antica
de' sardi; in Casalis, 1851, vol. XVIII, 2, pp. 527 -529) naturalmente è
quello che è, ovvero quello di un docente
di retorica dell'Ateneo Turritano della prima metà dell'Ottocento, di un non 'specialista'
linguista; ma pur sempre quello di un uomo coltissimo ed intelligentissimo,
impegnato in ricerche di numerose discipline (etnologia, storia, geografia,
scienze naturali, economia, letteratura, ecc.), di uno studioso che comunque,
'a suo modo' (cioè con la scienza del tempo), nega, con tanto di
argomentazione, il fatto che la lingua sarda arcaica possa essere di
derivazione romana.
Tanto dotto l'Angius e studioso
universalmente apprezzato, che gli venne affidato il compito di
collaborare, per la la voce Sardegna, al famoso ' Dizionario geografico
- storico - statistico - commerciale degli Stati di S.M il Re di Sardegna
'. Opera ancora oggi di fondamentale
importanza per gli studi storici, geografici, antropologici, toponomastici,
naturalistici, ecc. della Sardegna.
Il suo enorme contributo in termini scientifici
sulle informazioni dell'Isola fu però 'macchiato' (si veda anche l'esordio
delle pagine che presentiamo più avanti), come del resto quello di numerosi studiosi del
tempo, sardi e non, dal credere alla fasulla 'documentazione' delle cosiddette
'Carte d' Arborea', falsificazione posta in essere dall' archivista cagliaritano Ignazio Pillitto. Colpa questa che è,
presumibilmente, alle origini della 'dimenticanza' (diciamo così) dell' Alinei
che mai (non fosse per altro per la corrispondenza della 'tesi' continuista in
generale), neppure di 'striscio' – per così dire - lo cita nella sua opera.
Ora, come anticipazione del fatto che intendo addurre con un prossimo
articolo le prove documentarie (in una
certa misura l'ho fatto nel e con il mio intervento, oggi scaricabile in
Internet, durante la Conferenza Internazionale di Sassari del 28 Ottobre del
2006) che sia l' Angius (antepongo il nome perché è sempre bene dare giusto rilievo alla storia e alla
cronologia delle ipotesi e delle idee) che l'Alinei , avevano piena ragione.
Propongo alcuni brani tratti dagli scritti dell'uno e dell'altro, con l'invito
esplicito ad intervenire ed entrare nel
merito (nel 'merito' dico e ripeto) di quanto in entrambi si afferma.
Noto che nel Blog di Mauro Peppino Zedda ('Archeologia Nuragica') il
dibattito è stato ed è pressoché nullo e nessuno sinora, purtroppo, è
intervenuto sull'argomento TdC, tranne l' Areddu, il sottoscritto e un anonimo ('non
anonimo' per molti). Forse perché il Blog è gestito da un 'non specialista'
linguista, da un detestato (almeno in certi ambienti) studioso di archeoastronomia? Forse che nel
dibattito, lunghissimo dibattito, sull'archeologia e l'epigrafia nuragica e
sulla lingua sarda ( in tutto quasi 600
articoli!), non sono intervenuti e non intervengono archeologi e linguisti di
professione? Mi chiedo quando si cesserà con certi sciocchi atteggiamenti e
pregiudizi, per vantaggio universale!
Perché sono molte le persone che in ambito
non specialistico, cioè all'interno di una discussione più accessibile perché
'colloquiale' ( il che non vuol dire, ripetiamo ancora una volta, che si debba
trascurare un certo linguaggio, anche tecnico) vorrebbero sapere di più su di
uno studio che, se è vero che ha molti detrattori, come si è detto, ha anche
molti estimatori. E mica non specialisti!
In tutto il mondo. Come si sa.
Inizia il sottoscritto a dire qualcosa (per motivi che si comprenderanno
con un mio successivo intervento nel Blog di Gianfranco) con questa
osservazione, che è poi quella che ha già fatto un critico 'aperto' come Lorenzo Renzi (RID, XXI, 1997) , alla TdC: se
fosse vero quello che sostengono Angius e Alinei, sul sardo non romano e sul cosiddetto 'italide', quella che si
troverebbe più in 'difficoltà' non sarebbe l'indoeuropeistica ma la romanistica.
O non è così? E aggiungo: e se le prove
delle voci, quelle del lessico 'indoeuropeo latino' dell'età del bronzo sarda,
aumentassero e non fossero solo quelle ricavate indirettamente, soprattutto
dialettali della lingua orale, ma anche quelle scritte documentarie?
Scrive Mario Alinei (2000 , II, 16, La Sardegna pp. 662 -664):
''Vengo
ora al punto che mi interessa di più.
Come abbiamo visto, i sardi che si rifugiano sulle montagne per difendere la
loro libertà, sono spesso invocati per spiegare la maggiore “sardità”
linguistica dell’area montana: è qui, infatti che si sono mantenute la /k/ e
/g/ velari latine (cioè italidi), è qui che si parla il Sardo più vicino al
Latino (leggi: Italide) in tanti aspetti, formali e semantici. Tuttavia, vi è
un “piccolo” problema in questa visione. Nella teoria tradizionale, accettata
da Lilliu, la lingua che i sardi del Centro montano continuano a parlare, non è
- né può essere – quella latina o sua affine. Lilliu, che attinge alla
linguistica degli anni Cinquanta (in mancanza di meglio, come lui stesso ci ha
detto), afferma infatti che la lingua dei Sardi della montagna doveva avere «un
fondamento comune libio-ibero-ligure (o mediterraneo occidentale)
Ora, è curioso che nessuno studioso abbia
finora notato la stridente contraddizione inerente a questa tesi. Se i Sardi
nuragici non erano italidi, ma di ceppo etnico e linguistico anIE, quelli fra
loro che si erano rifugiati sulle montagne avrebbero dovuto conservare meglio
le caratteristiche linguistiche originarie del loro sostrato, e quindi
avrebbero dovuto allontanarsi maggiormente dal latino o da una lingua affine. Proprio perché la conservatività del Sardo
montano e l’innovatività del Sardo della pianura risultano da un confronto
fatto rispetto al latino, esse sono inconciliabili con la tesi tradizionale.
Diventano al contrario del tutto comprensibili e prevedibili se la lingua dei
Sardi nuragici, all’epoca della ritirata sulle montagne, fosse stata italide,
cioè una variante del Latino! In altri termini è l’Italide dei Sardi
fuggiti in montagna che si è conservato meglio, così come è l’Italide dei
Sardi “mescidati” delle pianure, che ha subito l’influsso di lingue non italidi
e ha innovato. Occorre rovesciare completamente l’assunto tradizionale per
dargli un senso e una logica.
Le prove di continuità culturale, così evidenti nell’isola anche nel periodo di decadenza e di fine della civiltà dei nuraghi (500-238), portano gli studiosi che assumono l’assunto tradizionale a una conclusione obbligatoria, che Lilliu esprime così: «la romanizzazione delle genti del centro «fu […] un fatto di lingua e non di cultura». Ora nell’ambito di una visione antropologica della linguistica, questo sviluppo sarebbe un unicum assolutamente sbalorditivo. Lingua e cultura non possono essere separati in questa misura. Non sono la stessa cosa, ovviamente, ma sono avviluppati in un reticolo di rapporti talmente complesso da rendere impossibile un cambiamento dell’una senza conseguenze per l’altra. Non a caso gli Indiani d'America - che Lilliu paragona volentieri ai Sardi – hanno perso l loro lingua solo quando si sono fatti assorbire e integrare culturalmente, mentre quelli che si sono ribellati, quelli delle 'riserve' menzionate da Lilliu , proprio in quanto hanno salvato qualcosa della loro cultura , sono riusciti a conservare anche la loro lingua. Anche l'esempio della religione cristiana , che dovette fare larga concessione alla spiritualità caratteristica dei sardi parla più in favore della mia tesi che di quella tradizionale . Dimostra infatti che persino di fronte alla seconda ondata innovatrice , quella cristiana dopo quella romana , i sardi continuarono a resistere con la 'loro' cultura e la 'loro' lingua . La lingua dei Sardi non sarebbe mai rimasta quella che è, in tanti dettagli che la avvicinano a un tipo italide arcaico, e la differenziano da tutte le altre parlate neolatine, se la continuità culturale e materiale così tipica dei Sardi tradizionali non fosse sempre stata associata, dal neolitico all’epoca nuragica, e da questa fino all’occupazione romana e alla cristianizzazione a una certa etnia.
Le prove di continuità culturale, così evidenti nell’isola anche nel periodo di decadenza e di fine della civiltà dei nuraghi (500-238), portano gli studiosi che assumono l’assunto tradizionale a una conclusione obbligatoria, che Lilliu esprime così: «la romanizzazione delle genti del centro «fu […] un fatto di lingua e non di cultura». Ora nell’ambito di una visione antropologica della linguistica, questo sviluppo sarebbe un unicum assolutamente sbalorditivo. Lingua e cultura non possono essere separati in questa misura. Non sono la stessa cosa, ovviamente, ma sono avviluppati in un reticolo di rapporti talmente complesso da rendere impossibile un cambiamento dell’una senza conseguenze per l’altra. Non a caso gli Indiani d'America - che Lilliu paragona volentieri ai Sardi – hanno perso l loro lingua solo quando si sono fatti assorbire e integrare culturalmente, mentre quelli che si sono ribellati, quelli delle 'riserve' menzionate da Lilliu , proprio in quanto hanno salvato qualcosa della loro cultura , sono riusciti a conservare anche la loro lingua. Anche l'esempio della religione cristiana , che dovette fare larga concessione alla spiritualità caratteristica dei sardi parla più in favore della mia tesi che di quella tradizionale . Dimostra infatti che persino di fronte alla seconda ondata innovatrice , quella cristiana dopo quella romana , i sardi continuarono a resistere con la 'loro' cultura e la 'loro' lingua . La lingua dei Sardi non sarebbe mai rimasta quella che è, in tanti dettagli che la avvicinano a un tipo italide arcaico, e la differenziano da tutte le altre parlate neolatine, se la continuità culturale e materiale così tipica dei Sardi tradizionali non fosse sempre stata associata, dal neolitico all’epoca nuragica, e da questa fino all’occupazione romana e alla cristianizzazione a una certa etnia.
E
in ‘conclusione’ (p.664)
''Scopo di questa illustrazione era di mostrare
come lo sviluppo culturale della Sardegna preistorica, dalla Ceramica
Impressa/Cardiale fino alla civiltà nuragica, possa essere interpretato come
affermazione originalissima da parte di un gruppo italide, parallelo ma
indipendente sia da quello appenninico italico, che da quello
medio-italiano latino e da quello franco-iberico. Il problema di fondo per
la Sardegna, forse più ancora che per la Corsica, resta quello degli apporti
anIE e di altri gruppi IE, da quello di eventuali adstrati peri-IE risalenti al
Mesolitico se non a prima, al superstrato “orientale” dei coltivatori immigrati
dalla mezzaluna Fertile, a quello celtico introdotto dal Megalitismo e dal
Campaniforme, a quello greco e fenicio''. [la sottolineatura dei
brani è nostra; così come quella del brano successivo dell'Angius].
Ma il canonico Vittorio Angius
molto prima, quasi duecento anni fa (1838: Biblioteca
Sarda: si veda Lingua antica dei Sardi,
in Casalis, 1851, vol. XVIII, 2, pp. 527 -529) anticipava da un pulpito di
enorme prestigio culturale e quindi anche linguistico quale era il Dizionario
del Casalis :
Conosciamo la lingua de' sardi nel
secolo VIII simile, fuori alcune lievi differenze, a quella che essi parlano
nel secolo XII, e nessuno dubita che fosse pure quasi simile a quella che
usavano al tempo di Augusto.Ma era simile a questa, quella
che parlavano avanti la dominazione romana? Negano tutti, perché credono che la lingua sarda, tanto affine
alla latina quanto tutti sanno, sia stata introdotta da' Romani; ed io come ho
già negato questo fatto contro l'opinione universale che credo un errore
universale, lo negherò anche adesso.
Diceva nella Biblioteca Sarda
(p. 312) in una notazione all'articolo
letterario Su gli improvvisatori sardi:
‘’Qui (in Sardegna) stanziarono alcuni secoli i saraceni e non
alterarono la lingua nazionale; appena hanno in essa intruso alcune parole;
dominarono per quattro secoli i penisolani dell'Iberia, ragonesi, catalani,
valenzani, castigliani, e se non fosse stata piantata la colonia algherese non
resterebbe di quelle lingue più che alcune parole; esiste per più di 130 anni
una continua pratica coi piemontesi e non so quante parole si siano prese da
essi.
Che si fa da questo? Che si possono
alterare le opinioni, i costumi, le leggi e tutt'altro, di una nazione, quando
viene in comunicazione strettissima con un'altra nazione di differenti
opinioni,costumi, leggi, non mai la lingua''.
Soggiungeva poi: '' In Sardegna gli algheresi parlano catalano. Or
tra essi intrometti mille che parlino il sardo, e pensa che avverrà nelle due
lingue. Certamente i settemila algheresi non lasceranno il loro linguaggio
nativo per parlare il sardo, né dissuaderanno i vocaboli della loro lingua
della pluralità. Se essi nol facciano lo faranno senza dubbio i loro figli. Sia
un'altra supposizione. Mischia alla popolazione algherese altrettanti sardi; ed
avverrà che si abbandoni né l'uno né l'altro linguaggio, e dalla confusione ne
nasca un terzo. Una terza supposizione, i settemila algheresi si fondano in quarantamila
sardi, ed il catalano in breve cesserà''. Di che si ha una prova nella colonia
straniera che abitava il castello di Cagliari, la quale come si confuse con gli
abitatori de' quartieri bassi in breve dimenticò la lingua avita. Una
dimostrazione di maggior evidenza ne abbiamo nell'Italia. In essa invasero
cento orde di barbari ed alcune vi stabilirono la stanza; ma perchè il loro
numero era non più che il ventessimo o trentesimo della popolazione italiana,
non poterono mutare la lingua che vi si parlava, affine, come quella dei sardi,
alla latina, e solo le aggiunsero alcuni vocaboli e forme, che oramai tutti
rigettano come barbarismi di vero nome.
Dunque se i saraceni, i goti, i vandali furono pochissimi verso la popolazione sarda, non potevano cagionare nessuna alterazione nella lingua degli isolani; quindi si potrà dire in buona logica, che se i romani non mandarono più milioni d'uomini ben parlanti la lingua del Lazio, la lingua della Sardegna non poté latinizzarsi, se non lo era.
Si dirà: che i sardi dovettero latinizzare quando Roma comandò che si parlasse nelle provincie la lingua latina. Ma può alcuno persuadersi che siasi potuto per un decreto ottenere,che in tutte le provincie gli uomini illetterati parlassero una lingua, cui non conoscevano, e lasciassero e lasciassero la lingua patria nelle cose domestiche e private? Del resto è certo che l'uso della lingua de' dominatori fu obbligatorio solamente negli atti pubblici.
Dunque se i saraceni, i goti, i vandali furono pochissimi verso la popolazione sarda, non potevano cagionare nessuna alterazione nella lingua degli isolani; quindi si potrà dire in buona logica, che se i romani non mandarono più milioni d'uomini ben parlanti la lingua del Lazio, la lingua della Sardegna non poté latinizzarsi, se non lo era.
Si dirà: che i sardi dovettero latinizzare quando Roma comandò che si parlasse nelle provincie la lingua latina. Ma può alcuno persuadersi che siasi potuto per un decreto ottenere,che in tutte le provincie gli uomini illetterati parlassero una lingua, cui non conoscevano, e lasciassero e lasciassero la lingua patria nelle cose domestiche e private? Del resto è certo che l'uso della lingua de' dominatori fu obbligatorio solamente negli atti pubblici.
(continua)
Note
- Nel blog di Gianfranco Pintore, dopo la sua scomparsa, purtroppo si possono vedere solo piccola o minima parte degli articoli pubblicati e i commenti. Una perdita dolorosa data la caratura del Blog del notissimo giornalista sardo.
- 2. Omphalos. Il primo centro centro del mondo. Il Paradiso che divenne inferno…Un’inchiesta, La Moderna Roma, 2017, p. 968.
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