fig.1
Tra i segni marcatamente pittografici (1) del
codice nuragico di ispirazione protocananaica spicca quello del pesciolino ‘dalet’
che si trova riportato nel 'brassard' di Is Locci Santus (2).
Completamente e clamorosamente travisato, insieme a tutti gli altri segni, dall'
Atzeni (3) quanto a significato, esso invece si rivela oggi in
tutto il suo significato grazie all'apporto, in termini di senso ideografico,
del pesce esaminato nell’articolo precedente.
Infatti l'espressione contenuta nella
bellissima bipenne o bidente in forma di ciondolo (v. tab.1 e trascrizione) per quanto provvista di senso
assoluto, come avevamo scritto nel 2004, riporta una seconda lettura un po'
difficile da individuare allora, senza
il sostegno di altri riscontri, con la presenza simultanea di logogrammi,
ideogrammi e segni ricavati per acrofonia. Con la presenza cioè degli aspetti
normativi di scrittura che, in quanto conosciuti e consolidati, garantiscono
che un certo senso ottenuto in un documento possa essere trasferito
tranquillamente in un altro.
Il
primo significato che avevamo dato alla scritta, riportata, non a caso, in un
supporto a bipenne, era questo:
BDNT (4) DH H NL S'AN 'AG 'AB
e cioè B(i)d(e)nt(e) di Lui luce santa (5) toro ’ab (padre).
Offriamo a
seguire una tabella per rendere più chiara la prima lettura e la prima interpretazione
della scritta:
tab.1 |
Ma il brassard, con ogni probabilità (6), contiene una seconda lettura (tab.2), non più basata
sul consonantismo semitico e sui segni acrofonici che risultano tutti di antica ispirazione
protosinaitica (dalet/pesce; nachash/ serpente; taw/segno, zayn/?), ma sul pittografico ideografico. La voce b(i)d(e)nt(e/i) viene così ad arte usata dallo
scriba sardo, attraverso i suoi significanti fonetici, per scrivere qualcosa
che aggiunge ulteriore senso (v. tab.2) all’idea bidente ma attinente sempre
alla divinità luminosa solare (7)
Mentre nel
primo caso (prima lettura) si dice e si scrive semplicemente (su di un supporto
a bipenne/bidente), di una bipenne appartenente ad una entità taurina
paterna (e materna?) luminosa e santa, nel secondo si dice in modo criptico e a rebus che
cosa provoca quell’arma quando si pesta, si ‘taglia’ la coda del muto serpente.
Guai alla reazione, al colpo mortale della divinità nascosta e silenziosa
quando essa viene provocata! Guai ai due
fori dei denti. Guai alla bidente
della divinità irata (8)!
Anche in
questo caso dunque, come in quello del bronzetto venduto all’asta, si ha il
motivo ideografico del pesce muto
riferito alla divinità luminosa taurina. Vedremo in altri saggi che seguiranno
tra breve come i nuragici sfrutteranno ancora il dato antonomastico del pesce e come e
quanto gli etruschi si serviranno di esso nella scrittura metagrafica degli
oggetti. In particolare di vasi e di piatti funerari (figg. 2 e 3) con strani mostri
uccelli -pesce o uomini - pesce.
Fig, 2. Hydria etrusca da Vulci
(museo americano di Toledo, OHIO). Particol. fig.3 Piatto funerario. Trieste, Museo civico)
Resta da dire però qualcosa di molto importante: che la
sequenza b dnt seguita dal dhe (cioè con tre chiare voci
dell’indoeruropeo) fa ipotizzare due possibilità: o che lo scriba abbia scritto
in mix linguistico (metà in 'sardo' e metà in semitico) oppure – cosa che riteniamo
più verosimile - che il pittografico - ideografico successivo a detta sequenza intenda
continuare con il lessico della lingua sarda arcaica. Il testo allora
suonerebbe, grosso modo, così (con una prima metà di cinque segni certa e con l’altra di quattro solo
ricavabile per ipotesi): b dnt dh issu santu
doxi (doighe) trau aba.
Ci rendiamo conto che l’esistenza di questa lettura ‘completa’ non
la possiamo dimostrare in assoluto ma, se le cose stessero effettivamente così,
risulterebbe pacifico l'affermare che siamo di fronte
al primo documento scritto in lingua sarda. I nuragici, come sappiamo, hanno
usato, qui e là (9), lessico del sardo
- latino arcaico, ma mai si è trovato un documento, né religioso né laico, del lungo periodo detto nuragico, interamente ‘sardo’ per lingua. Ognuno però, in ogni
caso, può capire quanta importanza abbia (dimidiata o non che sia la scritta in sardo) il
cosiddetto ‘brassard’ di Is locci santus
ai fini non solo epigrafici, religiosi, storici, ma anche linguistici . Ed è un
vero peccato che questo oggetto (sul quale contiamo di ritornare con un
apposito studio), che l’archeologo
Enrico Atzeni diceva essere custodito nel museo di Carbonia, sia stato,
come sembra, smarrito. In modo del tutto
misterioso. Infatti, nonostante le dichiarazioni dell’archeologo non risultava e non risulta ai
funzionari del museo che esso sia stato mai consegnato, inventariato e
collocato negli scaffali del medesimo museo.
Note ed indicazioni bibliografiche
1. Tali segni sono quattro: a partire dalla destra
un pesce, un orante, un disco luminoso con sette raggi, un toro.
2. Atzeni E., 1995, La cultura del vaso campaniforme nella necropoli di Locci - Santus (San Giovanni Suergiu); in Carbonia e il Sulcis. Archeologia del
territorio. S’Alvure ed. Oristano..
3. Sanna G., 2004, Sardōa Grammata. ’Ag ’ab sa’an Yhwh. Il dio unico del popolo nuragico.
S’Alvure ed. Oristano, 6. pp. 256 - 261
4. La voce allora ci sembrava incredibile perché dell’indoeuropeo; tanto più perché a sua volta seguita da un’altra (de/dhe) della stessa matrice linguistica. Le tavolette sigillo di Tzricotu di Cabras e altri documenti ancora, compresa la nota stele di Nora (Sanna G, 2009, La stele di Nora. Il dio, il dono, il santo. The God, the Gift, the Saint, PTM ed. Mogoro) confermano il dato che il ‘latino’ (la lingua parlata nell’antico Lazio ma anche in Sardegna) era il codice linguistico usato dalle popolazioni sarde nel secondo e primo millennio a.C. e quindi in periodo ‘nuragico’. Di ciò si è detto più volte da parte nostra a partire dal 2004. Vedi (riproposto) di recente, Sanna G., (II) Il sardo latino? Sì. ma 'romano' no. Parola di Documenti; in Maymoni blog (25 ottobre).
5. E’ più che verosimile che il ‘Lui santa luce’ corrisponda al singolarissimo detto, molto comune in area arborense, del sardo di oggi ‘SU (ISSU/IPSU) SANTU DOXI’ (il santo dodici; per il santo dodici!): v. Sanna G., 2006, Su santu doxi. I numeri perfetti o santi. Il sette e il dodici nella simbologia logo -pittografica, geometrico - numerica e nella scrittura lineare consonantica dei nuragici. Il ‘Santu doxi’ e il ‘Santu Yacu’ nella lingua popolare sarda; in Quaderni Oristanesi, PTM ed. Mogoro, aprile nn. 55/56, pp. 83 -102.
6. La maggiore conoscenza di oggi della scrittura a rebus nei documenti della religiosità, sia nuragica che etrusca , permette di parlare con maggiore tranquillità, perché con dati reali e non esito di elucubrazione, circa una lettura nascosta che segue spesso ad un’altra solo apparentemente esaustiva.
7. La divinità qui è chiamata ‘padre’ e quindi sembrerebbe
alludere solo al sole (la luce santa). Per i nuragici però la luce santa è sempre della doppia lampada (NR) ovvero sia
del padre (’ab) che della madre (’am). Quindi si potrebbe pensare allo ’ab riferito ad entrambi, alla divinità
androgina attraverso l’acrofonia della voce ’ab
che è composta da ‘beth’ (casa) + toro. La
sede della forza taurina (la casa del toro) della luce è di entrambi gli
astri e non di uno solo. Del resto la stessa resa grafica pittografica del
segno LUI (che può essere anche Lei) e del segno ‘Luce santa’, con le due
circolarità differenti per grandezza, sembrerebbero alludere alla doppia luce,
alle due fonti ‘maggiore e minore’ celesti. La bipenne (bidente) quindi sarebbe
‘arma’ bifida e taurina (del toro e del serpente) sia del Sole che della Luna.
O meglio, della divinità luminosa che si manifesta soprattutto attraverso le
loro luci.
Gigi, è un'ipotesi fantastica, non per dire fantasiosa, quella di rileggere i nove segni una seconda volta, ma cambiando il lessico. I due fori, da numero due, cioè Beth, della prima lettura, nella rilettura resterebbero due fori, il segno del morso del serpente sulla carne di chi lo ha ferito.
RispondiEliminaSe non ricordo male, il prof Enrico Atzeni trovò il cosiddetto "brassard" in mezzo a materiali databili non posteriormente al XII secolo a. C., con un range che poteva arrivare almeno al XIV secolo.
Se non erro, non ostante la datazione archeologica, tradussero i segni come protocristiani, col simbolo del pesce, i tre numeri romani, con gli altri di tipo pastorale, uno che cammina appresso alla pecora in una splendida mattina di sole. Ci mancò poco che non parlassero di presepe, ma solo perché mancava l'asino.
O forse c'era pure quello?
Per aver sostenuto in SAGRA quello che 'dovevo' sostenere mi feci un nemico mortale o quasi. Con tutti i discepoli (e parenti) nemici dell'archeologo. Allora (2004) i segni del nuragico non erano ancora noti e quindi non sorprendeva che avessero preso fischi per fiaschi (i protosinaitici per segni ...protocristiani).E quanto ricammo' qualcuno su quei buchi come lettera 'b'! Ma allora non sorprendeva perché nessuno sapeva il modo originale in cui i nuragici facevano la 'beth'. Io capivo e - cosa potevo fare? - mi rassegnavo aspettando ovviamente altri documenti (che poi sono venuti in quantità) che confermassero quelle lettere ed un certo tipo di scrittura. Oggi negare nel 'brassard' quel protosinaitico e quell'ideografia con la luce e sette come voce della 'santità' non è più possibile. Si può essere cocciuti e anche cocciuti cattivi quanto supponenti, ma il brassard sembra essere proprio in indoeuropeo (il latino -sardo indoeuropeo). Questo vuol dire una cosa sola: che aveva ragione l'Angius, che ha ragione l'Alinei e ha ragione anche Sergio Frau (buon ultimo)nel sostenere che il sardo esisteva da sempre e non era esito della colonizzazione romana. E avevo ragione anch'io nel 2004, ma una ragione per così dire 'più forte'. Perché le mie non erano elucubrazioni ma prove documentarie. Naturalmente mi sono fatto subito nemici altrettanto mortali nel campo della linguistica (il testa il defunto catalano). Ora non solo parlo di voci indoeuropee sarde ma addirittura di un documento completo in lingua sarda indoeuropea. Affermo che i sardi semitici (i sacerdoti scribi che in semitico scrivevano tutto o quasi tutto) hanno( XII secolo a.C.? Non so e molto difficile dire) scritto un testo su pietra quasi 'sperimentando' il sardo ind. con i segni normalmente usati per le formule religiose del semitico. Ora tutto questo che dico i soliti 'noti' possono anche contestarlo ma sarebbe bene che non lo facessero perché diventano ulteriormente ridicoli. Le prove sono prove e la scienza, fino a prova contraria, è scienza (cioè sapere certo) solo in base ad esse. C'è da gioire per quel bellissimo documento! C'è da studiarlo ancora di più! C'è da prenderlo come dato fondamentale per ogni nuova ricerca linguistica. Ma la contentezza si trasforma in tristezza al solo pensare che l'oggetto è sparito. Non si sa dove sia (colpevole l'Atzeni o altri archeologi, mica Gesù Bambino. Una tristezza che si somma a tutte le altre circa la scomparsa di documenti scritti( primi tra tutti quelli in sughero di Barumini e quello in ceramica di Sa serra 'e sa fruca, con l'ugaritico, scoperto dal prof. Pettinato).
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