Francu Pilloni
Dubito molto che,
chi abbinò una lente a un foro sul lato di una scatola, si sia
inventato pure il nome: obbiettivo.
Eppure si chiama
proprio così, ancora così, nella macchina fotografica, sia che si
tratti di una semplice lente piano convessa o di uno stuolo di lenti
concave o convesse o piane o biconcave o biconvesse, che solo il
computer che ne ha calcolato gli effetti può darne ragione.
Sempre che una
ragione ci sia, dato che certe realtà sono così come sono, senza se
e senza ma.
Prima di avanzare di
un'altra riga, a chi si è chiesto il motivo per il quale io scrivo
obbiettivo e non obiettivo – sarebbe più corretto, insistono
tutti, più rispondente al sostrato latino da cui proviene –
confesso che lo faccio per non smentirmi come sardo parlante, in
considerazione del fatto che io di B, di T, di tante altre
consonanti, ne metto in pronuncia più spesso due, anche se ne
servirebbe solamente una. Insomma, non mi ci vedo, anzi non mi ci sento,
a pronunciare
obiettivo!
Obbiettivo è un
sostantivo che l'inventore della macchina fotografica rubò ai
generali, agli uomini di guerra, perché obbiettivo era, e purtroppo
ancora è, tutto ciò che si sono proposti di colpire per
danneggiarlo; obbiettivo – della vita, della campagna
pubblicitaria, … - è invece lo scopo, la meta, il traguardo da
raggiungere tramite una serie di azioni adatte e coordinate.
Ma obbiettivo è
anche un aggettivo sostanziosamente adoperato per indicare che un
discorso, un articolo di giornale, un referto, è privo di pregiudizi
e riflette la realtà delle cose.
Fu questa forma
aggettivale del vocabolo che indusse l'inventore (ma chi sarà mai?)
a dare quel nome, perché l'obbiettivo traduce in immagine, anche se
capovolta, ciò che gli si para davanti, niente di più, niente di
meno?
Fu certamente un
ottimista, diciamo pure di manica larga, perché in principio, non
l'obbiettivo, ma ciò che si produceva, trascurava in toto il colore,
armeggiando solamente con dei grigi più o meno decisi.
E ancora, mettendo
da parte quest'ultima considerazione che pure non è di poco conto,
le immagini restituite non sempre aderivano alla realtà che si era
sommariamente messa in posa.
Per dirne una, e mi
scuso per l'uso del mio personale background, ho da dire di una foto
che mi fu scattata in piena estate quando non avevo che cinque anni.
Vestivo una camicia bianca a maniche corte e calzoncini corti di tela
azzurra. Il fotografo mi dispose di fronte a un muro che era in
ombra, un muro di quel colore di cantoniera che una volta imperava,
mi fotografò col sole alle mie spalle: era il 1947 e stavo con i
miei genitori nella piazza della cantina di Ingurtosu, in un giorno
di paga.
Il fotografo, che di
foto se ne intendeva certo più di mia madre, mi consigliò di
mettere le mani dietro la schiena, per non lasciarle penzoloni. Un
po' come un soldato nella posa del riposo.
La settimana dopo, o
forse il giorno dell'anticipo di paga, a metà mese, il fotografo
produsse il suo lavoro in triplice copia: si vedevano i miei capelli
neri lucenti, nel viso spiccava soprattutto o quasi esclusivamente il
bianco degli occhi, bellissima la camicia bianca a maniche corte,
notevoli anche i pantaloncini blu, con le bretelle in evidenza sul
bianco della camicia. Quel che nessuno si aspettava, e tanto meno mia
madre, fu che le braccia e le gambe, come tonalità di grigio, erano
perfettamente coerenti con la tonalità del muro retrostante con la
disperante conseguenza che non mi si vedevano le braccia e ancor meno
le gambe.
- Dio me lo ha dato
sano e voi me lo storpiate? - chiese, (ma diciamo pure denunciò) mia
madre al fotografo, diventato triste pure lui all'improvviso.
L'artista avrà pensato che mia madre non avrebbe saldato il conto:
si sbagliava, perché pagò subito il dovuto, prese le foto e le fece
in cento pezzettini subito, sul posto, così che mio padre non le
potesse vedere.
Allora ero ancora
figlio unico e si comprende ogni eccesso genitoriale nell'affetto e
nelle paure.
Per dire che,
qualche volta e quella in particolare, l'obbiettivo non si è
dimostrato molto obbiettivo.
Quando ci ripenso,
come oggi, mi viene il malumore: quel fotografo era davvero un
artista perché, senza Photoshop, aggiunse e tolse all'immagine del
mio corpo, traducendola in una figura drammaticamente surreale, come
e più di quelle dei bambini dei Mondi poveri per i quali le Ong
chiedono carità continuativa o rateale.
(fine prima
parte)
Dal termine"obbiettivo" signor Francu,lei è riuscito,da bravo scrittore ,a raccontare una storia piena di umanità e dignità "sarda",con sua madre che paga il fotografo pur essendo dispiaciuta del risultato.
RispondiElimina