domenica 10 febbraio 2019

Quando gli Etruschi inventarono l'arco a conci, in Sardegna lo avevano già dismesso.




Isomorfismo del sole,
una chiave di volta in volta diversa legge la luce dell'arco taurino1


di Sandro Angei
Sommario
Con questo studio si vuole retrodatare la tecnica costruttiva dell'arco a conci, che normalmente è attribuita agli Etruschi. Un reperto archeologico datato alla prima età del ferro dimostra che la civiltà nuragica conobbe la tecnica ancor prima degli Etruschi. Lo studio prosegue intravvedendo nell'elemento architettonico “arco” un simbolismo che dal lontanissimo passato arrivò indenne fino all'età nuragica.

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Di recente su questo blog è comparso un bell'articolo del Prof. Sanna a proposito di un concio della chiesetta campestre di San Nicola di Trullas di Semestene che reca incisa, in un affollamento di caratteri, una scritta a rebus che nessun dubbio e tanto meno curiosità ha destato nelle menti di studiosi che alla chiesa hanno dedicato pagine e pagine di studi.

Fig.1

Dal canto nostro, essendo piuttosto curiosi e forse anche un poco lungimiranti, nel senso che guardiamo lontano, abbiamo “rovistato" nel bel mezzo della folla di simboli di quel concio e ci siamo accorti della nascosta simbologia che dà lustro all'architettura di quei gentiluomini d'età nuragica; coloro che maneggiavano il sapere sotto mentite spoglie di apparente rozzezza.
Di certo la scritta di Semestene non può competere coi bei caratteri tutti ordinati e perfettini delle scritte classiche cui siamo abituati; quelle che rendono facile la lettura a tutti noi. Qui no. Qui la lettura è tutt'altro che gradevole e facile... è ostica quanto mai, ma nel suo complesso trasmette ad occhi che san vedere, tanto, anzi... tantissimo.
In particolare ci ha colpito ciò che in nota 4 del suo articolo, il Prof. Sanna a un certo punto scrive: “Rispetto alla parte sinistra quella a destra si trova, purtroppo, in parte compromessa, perché erosa, sulla zona alta tanto da dare la netta impressione che all’appello manchino diverse lettere. Quante siano è difficile dire anche se sembra logico dedurre sia dal detto ‘consonantismo’ delle due parti sia dallo stesso tenore della scritta (v. più avanti) che il secondo incipit è privo di almeno tre o quattro segni. Segni che stavano al di sopra o a fianco della protome taurina abbastanza visibile sulla destra in alto, collocata questa, forse in modo significativo, al di sopra dell’arco che è punto di forza. In questo settore di scrittura segnaliamo subito la difficoltà di lettura delle due lettere ‘b’ e ‘n’, riportanti la voce bn (figlio), voce ‘logica’ e sicuramente esistente (yaziz bn zzy) tra il nome ed il patronimico.” (mio il grassetto ndr).


Fig. 2

Il carattere dubitativo dell'affermazione del Prof. Sanna: quel “forse”, possiamo spazzarlo via d'un solo colpo dal momento che egli ha visto giusto nell'affermare che il toro è collocato in modo significativo sopra l'arco, proprio nel punto di forza dell'elemento architettonico, ossia la “chiave di volta”.

1. La chiave di volta: principe tra gli elementi architettonici
La chiave di volta è il punto in cui tutta l'energia “cosmica” (forza di gravità) si concentra, viene accolta e, distribuita equamente, scivola lungo i fianchi d'arco fin giù alla radice dei piedritti, lì dove madre terra l'accoglie. Chi si trova sotto la chiave di volta è al sicuro, perché l'arco per sua natura “sostiene” tutto ciò che grava su di esso.
A ben guardare gli elementi che formano il concio di Semestene: “arco” ed effige del “toro”, inseriti nel contesto della frase che inneggia alla forza della luce taurina, sembra che altro non siano che metafora del percorso celeste del sole dall'alba al tramonto2 (Fig.3).

Fig. 3
La figura allegorica appena richiamata rende l'arco strutturale, fantastica visione materiale dell'arco celeste descritto dal sole-toro che in cielo al mezzogiorno è “chiave di volta” appunto.
Potrebbe essere questo l'intimo sentore espressivo di quelle antiche genti.
Sembra che quel toro raffigurato sopra l'ideale chiave di volta del concio di Semestene, sia messo in quella posizione a bell'apposta, con cognizione di causa. In sostanza cercheremo di capire, sull'intuizione del Prof. Sanna, se in età nuragica si conoscesse il principio architettonico dell'arco.

2. Un po' di storia
Articoli e saggi di storia e archeologia ci raccontano che “l'arco a conci”, così come noi lo intendiamo, fu inventato dagli Etruschi (IV sec. a.C). Per tanto sarebbero essi i primi ad averlo realizzato nel bacino del Mediterraneo e lo lasciarono in “dote” ai Romani, che appresa la tecnica in modo magistrale, utilizzarono l'elemento architettonico nelle loro magnifiche costruzioni. Le emergenze archeologiche e relative datazioni vogliono l'arco a conci attestato anche nella Magna Grecia nella cosiddetta “Porta rosa” di Velia (in Comune di Ascea) risalente forse3 al IV sec. a.C.
La tecnica che sfrutta il principio statico dell'arco è comunque molto più antica, tanto da essere documentata nella necropoli di Abido (Egitto, circa 2300 a.C.), in una volta rudimentale costruita con conci di pietra alternati a mattoni crudi. C'è da dire però della grande differenza tra “arco a conci” e “volta a botte”, benché entrambe funzionino col medesimo principio statico e possano sembrare identiche dal punto di vista formale. La differenza stà nella loro funzione: la vota a botte è una struttura tridimensionale atta a coprire un ambiente, mentre l'arco è una struttura (al limite) bidimensionale che svolge la funzione di “sostenere” ciò che su esso grava.


Fig. 44
Arco Etrusco di Perugia III sec. a.C.

3. Cosa c'entrano i Nuragici?
Ercole Contu nel lontano 1997 (La Sardegna preistorica e nuragica – Ed. Chiarella) scriveva che i nuragici “non conobbero mai la vera tecnica dell'arco”. Non so se nel frattempo si ricredette, ma sicuramente, quale onesto studioso quale era, sarebbe stato pronto a far marcia in dietro su quell'affermazione, se ci fossero stati i presupposti.
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Ci son prove che dimostrano la conoscenza della tecnica dell'arco a conci da parte del popolo nuragico?
Sarebbe fin troppo facile portare come esempio i due archi monolitici della fonte sacra di Su Tempiesu (XIII sec. a.C), ma ci rendiamo conto che quelli, benché siano due archi, non svolgono alcuna funzione statica ma solo simbolica (Fig. 5). In sostanza non essendo composti da conci non provano alcunché sulla capacità delle genti nuragiche di sfruttare il principio statico insito nella vera struttura architettonica; tant'è che i due archi non reggono alcuno sforzo in chiave di volta ma, al contrario, sono soggetti a frattura allorché le forze trasmesse ai suo fianchi dalle murature, superassero un certo limite.
A guardar bene l'arco interno della fonte sacra di Su Tempiesu è fratturato a dimostrazione appunto che l'elemento non è strutturale.


Fig. 5
Su tempiesu - archi monolitici

Invece l'elemento che ci induce a pensare al popolo nuragico quale precursore di quello Etrusco nell'utilizzo dell'arco strutturale è un concio (Fig.6) che proviene dal pozzo sacro di Santu Antine di Genoni, lo stesso sito dal quale proviene il timpano triangolare con spirale (Fig. 7), che oltretutto fu realizzato con lo stesso materiale lapideo. Il reperto in questione è documentato nel Catalogo Generale dei Beni Culturali alla pagina 244, immagine n° 20 ed è definito quale “chiave di volta”. Nella scheda allegata è così descritto (estratto):
  • Definizione dell'oggetto: chiave di volta
  • Classe e produzione: Elementi strutturali
  • Denominazione dello scavo: Sardegna/NU/Genoni/ Santu Antine/ pozzo sacro (mio il sottolineato ndr)
  • Metodo: scavo stratigrafico
  • Fascia cronologica di riferimento: Età nuragica
  • Motivazione cronologica: bibliografia
  • Materia e tecnica: pietra - scalpellatura
  • Descrizione: Concio in pietra a sezione trapezoidale con una decorazione costituita da sei cerchielli concentrici incisi disposti in due file.


Fig.6


Fig.75
Ci sembra non ci siano dubbi sull'originalità del concio che, certificato dall'Istituto preposto a farlo, rende questo reperto di fondamentale importanza nel traslare indietro almeno di qualche secolo (se non mezzo millennio) l'uso dell'elemento architettonico “arco a conci” e non in Etruria (la volta della tomba di Charun presso Cerveteri é del IV secolo a.C.), ma in Sardegna (età nuragica - Prima età del Ferro: 900-500 a.C.). La qual cosa la dice lunga nel rapporto intercorrente tra Sardi ed Etruschi.
Con questa asserzione non vogliamo di certo rivendicare per la Sardegna la paternità dell'arco, ma di certo possiamo dire che quelle genti conoscevano la tecnica ben prima degli Etruschi. Ad ogni modo sarebbe stato del tutto strano che le genti nuragiche non conoscessero “l'arco a conci”, visto che la tecnica di costruzione della tholos delle torri nuragiche è assimilabile a quella di un arco a conci che lavora in orizzontale.6

4. Ancora alcune riflessioni sull'arco a conci
Quello che in un primo momento poteva sembrare un “collage” risulta, a questo punto della trattazione, un “puzzle” dal quale emerge da un lato il sospetto che la simbologia dell'arco sia stata usata in ambito scrittorio, dall'altra la prospettiva che in età nuragica fosse ben conosciuta la funzione e la caratteristica dell'arco a conci, e che questo elemento architettonico fu accantonato nella pratica ma non nella simbologia perché di difficile applicazione, perché richiedeva l'uso di un supporto (centina) per la sua corretta edificazione. Ma potrebbe esserci un secondo motivo di carattere tutto religioso e filosofico a riguardo del suo accantonamento.

5. L'arco a conci e la cupola svelano l'operato umano, la tholos, no!
I motivi possiamo solo ipotizzarli.
Dal punto di vista religioso possiamo pensare che l'uso della centina potesse rendere vana l'attribuzione della struttura ad opera divina, visto che la cupola o l'arco devono essere impostati su un “marchingegno” del tutto materiale (la centina appunto) che svela il segreto tutto umano di quel “miracolo” statico. Si ricorse perciò all'uso del principio statico usato nella tholos, che da un lato eliminava il “fastidio” pratico e la problematica legata alla costruzione di una centina (si immagini solo l'immane lavoro di predisporre migliaia di centine per migliaia di cupole classiche: anche due o tre per nuraghe se non pur 15, come nel caso del nuraghe Arrubiu di Orroli), dall'altra rendeva la costruzione ispirata o dettata da intervento “divino” (il mutuo contrasto tra i conci adiacenti di uno stesso anello della tholos che bilancia e di fatto annulla la forza trasmessa da ogni singolo concio a quelli attigui, ha del sopranaturale. Una “forza invisibile” che per essere percepita necessitava di un notevole sforzo intellettuale di immaginazione).
Ci sarebbe altro da dire sull'arco usato in epoca nuragica, ma non possiamo andare oltre vista l'impossibilità, almeno per ora, di provare in modo convincente l'uso della tecnica in piena età nuragica, ossia nella bella età dei nuraghi. Per tanto ci fermiamo qui e diamo spazio al secondo argomento: la simbologia dell'arco. Riprendiamo per tanto il filo del discorso accennato nel 1° capitolo.
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6. Il concio di Semestene e la alla chiave di volta di Genoni
Perché accostare il concio di Semestene alla chiave di volta di Genoni?
Il motivo non è certamente di carattere strutturale, in quanto il concio di Semestene reca un arco a tutto sesto che è più simile ai due archi della fonte sacra di Su Tempiesu che non ad un arco strutturale a conci; ma è dettato da tre motivi di carattere simbolico:
1° motivo: La protome taurina incisa nel concio monolitico della chiesetta di San Nicolò di Trullas, di fatto, ma in modo del tutto simbolico, sostituisce la chiave di volta (Fig.8). Come se il costruttore avesse voluto nascondere la chiave di volta e in definitiva “nascondere la chiave di lettura”. Questa particolarità è in accordo con l'intendimento scrittorio di quelle genti, che nascondevano il più possibile il messaggio inviato alla loro divinità ineffabile, resa ora “toro”, ora “organo virile”, ora “ierofania luminosa7.


Fig. 8
Le due linee rosse oblique rendono l'idea della chiave di volta che di fatto fisicamente non esiste se non in modo concettuale

2° motivo: La chiave di volta di Genoni è di sezione trapezoidale e benché si possa obiettare che tutte le chiavi di volta devono essere di forma trapezia per soddisfare la funzione statica a loro demandata (e ciò è sicuramente vero), non di meno la forma che la “natura” impone a questo particolare concio, può essere interpretata in ambito religioso quale elemento distintivo della divinità; non fosse altro se non per l'apparente “miracolo” di mantenere in piedi con un solo e speciale elemento (la chiave di volta appunto) una struttura così concepita, solo per mutuo contrasto (ossia senza elementi e/o materiali aggiuntivi che possano unire in modo tenace i singoli conci dell'arco stesso). Ma il vero motivo lo palesa la scritta di Semestene che abbiamo trattato al punto 1 ossia: gli elementi che formano il concio di Semestene: “arco” ed effige del “toro”, inseriti nel contesto della frase che inneggia alla forza della luce taurina, sembra che altro non siano che metafora del percorso celeste del sole dall'alba al tramonto.
In ragione di questo, la chiave di lettura della protome taurina di Semestene e della chiave di volta del concio di Genoni è, evidentemente, quella che l'antropologo Gilbert Durand definisce isomorfismo8.
Quello che descrive G. Durand è, però, un isomorfismo percettivo ossia, quel che vedo lo associo per forma e/o significato ad altra forma; esempio: il sole e la luna li percepisco come volatili in cielo ed andando oltre li percepisco muti alla stregua dei pesci, e in ragione di ciò il pesce “volante” è immagine isomorfa del sole e della luna9. Nel nostro caso, invece, trattiamo di un isomorfismo descrittivo ossia; un isomorfismo conseguente a quello percettivo. L'isomorfismo descrittivo esprime, descrivendolo appunto, attraverso i segni, un pensiero che dà vita ad una immagine che nel contempo ne evoca altre benché di diversa natura. Esempio: la chiave di volta di forma taurina di Genoni evoca il toro e da questo il sole nel quadro generale dell'arco a conci; nel contempo l'arco evoca le fasi giornaliere di alba, percorso celeste e tramonto del sole e della luna; mentre nell'arco monolitico di Semestene il toro, in posizione mediana dell'arco, evoca la chiave di volta ma anche il sole e di conseguenza l'arco evoca ancora una una volta il percorso giornaliero dall'alba al tramonto del sole e della luna.

Il 3° motivo è prettamente di carattere simbolico-epigrafico.
Di certo per asserire con tutta sicurezza che la chiave di volta è pure “toro” (almeno in ambito nuragico), non basta evocare il carattere formale del concio “taurino”, né indugiare troppo sull'isomorfismo; per tanto dobbiamo indagare per altre vie.
Ci ha incuriosito al proposito la serie di cerchielli concentrici che sono incisi all'intradosso della chiave di volta di Genoni; posizione, quella, scelta non a caso, visto che con ogni probabilità il motivo a cerchielli era in bella vista agli occhi di chi (forse)10 passava sotto quell'arco (Fig. 9). Per quale motivo furono incisi quei cerchielli?


Fig. 9
La simulazione in 3D mette in evidenza la posizione dei cerchielli così come poteva vederli un osservatore passando sotto l'arco.

5. Un lungo cammino della simbologia ancestrale
Con tutta evidenza la simbologia dei cerchielli rimanda al concetto universale di rinascita11, come afferma nei suoi studi M. Gimbutas che indagò per lungo tempo i segni provenienti dal lontano passato: sin dal paleolitico12.
Nel concio di Genoni i cerchielli sono reiterati in due file di tre, rimandando probabilmente al concetto di rinascita sia del sole che della luna,13 nel ripetersi continuo delle tre fasi che assumono i due astri nella sfera celeste: alba (alzarsi), percorso in cielo (distendersi), tramonto (calare). Gli stessi elementi che ritroviamo nella scrittura metagrafica Etrusca scoperta e documentata dal Prof. Gigi Sanna.14
Ma ancora non ci soddisfa la motivazione addotta; per rendere solida la tesi sono necessari altri elementi che suffraghino l'indizio del concio di Genoni, per tanto possiamo dire, ancora, che di certo i cerchielli concentrici possiamo attribuirli con estrema sicurezza alla simbologia nuragica, mutuata dalla assai più antica età neolitica15 sarda; e le belle immagini pubblicate dal Taramelli in “Scavi e Scoperte Vol. 3” ne sono un bell'esempio dimostrativo.


Fig.10

Nel capitolo dedicato al tempio nuragico di Sant'Anastasia di Sardara del suddetto Vol. 3°, vi sono dei reperti che recano incisi serie di cerchielli concentrici affiancati al motivo a zig zag; in altro frammento troviamo reiterazioni di motivi a chevron sovrapposti (Fig.10); il tutto naturalmente associabile al “Toro Solare”, visto il ritrovamento di una protome taurina (Fig.11), che il Taramelli, nell'ideale ricostruzione grafica, pone sopra il presunto architrave d'ingresso al tempio (Fig.12).
Di certo il Taramelli pose il toro in quella posizione quale “insegna” qualificante il tempio, non certo per collocare l'icona nella giusta posizione strutturale-ideografica e isomorfa, che ritroviamo a Semestene. Infatti il Taramelli pone la protome all'interno di un triangolo isoscele schiacciato ubicato proprio sulla verticale della porta d'ingresso. Triangolo isoscele che a ben vedere è, in quel contesto, un elemento strutturale robusto, capace di sostenere i carichi trasmessi dalla copertura sulle strutture sottostanti e in particolare sulla porta d'ingresso al tempio. Facendo ciò pose (sicuramente in modo inconscio) il toro in una sorta di chiave di volta.
Il cerchio si chiude, e benché non si possa con l'esempio portato, asserire che la protome taurina di Sant'Anastasia fosse sicuramente in chiave di volta, possiamo perlomeno attribuire i cerchielli concentrici, associati al motivo al zig zag e allo chevron16, sicuramente alla simbologia nuragica. Ed è proprio quella simbologia dei cerchielli concentrici che suggerisce nel concio di Genoni la natura taurina della chiave di volta per via della equivalenza: toro = sole.

Fig.11

Fig.12

11. L'arco monolitico simbologia di se stesso
Quando vidi per la prima volta la fonte sacra di Su Tempiesu pensai alla funzione di quei due archi, messi lì a reggere il nulla. Quale funzione hanno quei due archi, mi domandai. Alla domanda ha risposto M. Gimbutas con le sue ricerche che portarono allo sviluppo di una nuova disciplina: l'archeomitologia17.
Seguendo il pensiero e lo studio della Gimbutas sugli antichi popoli del paleolitico e del neolitico europeo si coglie, nelle figure catalogate e spiegate dalla studiosa, l'intima essenza religiosa di quelle popolazioni, per le quali, vita secolare e vita religiosa era un tutt'uno. Tutte le arti figurative di quei lontani periodi rispecchiano una simbologia espressa con disegni che vanno oltre il segno grafico ideografico, esprimendo un significato logografico. Illuminante è l'affermazione di M. Gimbuttas allorché scrive: Mentre la scrittura cuneiforme sumerica scaturì dai traffici commerciali, lo script dell'Europa antica, sviluppatosi duemila anni prima, probabilmente era servito soprattutto come strumento di comunicazione con le forze divine. Gli oggetti che recano segni scritti sono per esempio sigilli, vasi, pesi di telaio, statuette, fusaioli, collane o placchette, modellini di templi e miniature di coppe e piatti come ex voto. Tutti questi oggetti hanno un significato religioso e ricorrono in contesti religiosi.” Leggendo questo brano riusciamo a capire un po' più a fondo il sentimento religioso delle genti Sarde, e chiaro si intravvede l'anello di congiunzione che traghettò quel modo di percepire e colloquiare con la divinità dal neolitico al periodo nuragico attraverso la scrittura18. Periodo, quest'ultimo, durante il quale il sentimento religioso rimase in modo empatico saldamente legato a quelle convinzioni e quel sistema scrittorio mai abbandonato19.
In questo contesto, penso, sia da ricercare il simbolismo di quei due archi monolitici, che non sono di carattere decorativo come alcuni studiosi ritengono; ma hanno certamente un valore simbolico in un'architettura tanto complessa e raffinata, quale è la fonte sacra di Su Tempiesu. Quei due archi sembrano mimare la vera struttura ad arco con chiave di volta. Chiave di volta che di fatto non esiste in quell'opera d'arte (ma che suggerisco sia nascosta), alla stregua del concio di Semestene.20
Ma ancora una volta mi chiedo: cosa reggono quei due archi?
Le risposta più ovvia, visti i presupposti, è legata al tema della luce, quella del sole e della luna assieme, naturalmente.
Una simulazione in 3D del tempio dimostra che all'alba del solstizio d'estate, quando il sole spunta alle spalle del Monte Albo, la luce del sole invade il vestibolo illuminando l'intera parete frontale e l'intero arco anteriore, mentre quello posteriore rimane in ombra, oscurato dal primo. Dopo soli pochi minuti l'ombra inizia a oscurare pure l'arco anteriore, tant'è che quando scocca il mezzogiorno l'intero vestibolo è in ombra. E' il momento del declino21.
L'arco anteriore in questa scena è simbolo della potenza luminosa che però prelude al declino perché, raggiunto l'apogeo inizia il percorso che lo condurrà alla morte e successiva rinascita al solstizio d'inverno. L'arco posteriore che rimane sempre in ombra, a parte un parziale spiraglio di luce, potrebbe simboleggiare invece la luna e la sua luce più fioca ma sempre presente22. Come abbiamo avuto modo di scrivere in altre occasioni23, il solstizio d'inverno è momento di giubilo e festa per la rinascita del nuovo sole; il solstizio d'estate è momento di apprensione dettata dall'ineluttabile destino di morte di quel sole al culmine della sua potenza.
In questo contesto possiamo dire con certezza che il vestibolo della fonte sacra sia ricettacolo di luce, mentre l'arco monolitico possiamo ipotizzare, ma solo ipotizzare, sia emblema della potenza del toro solare. Quella luce che nel momento in cui illumina l'arco quale insegna di potenza divina, contemporaneamente entra all'interno della fonte e unendosi in un connubio fecondatore con l'acqua sorgiva, genera nuova vita. Per tanto l'arco di Su tempiesu, investito dalla radiazione solare, regge la luce. Il verbo reggere qui è inteso nel senso più ampio del termine e per tanto anche nel significato di ricevere un certo quid esterno; che sia esso un carico fisico o la sola luce, è indifferente.
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Su tempiesu e San Nicolò di Trullas: stessa simbologia
Secondo questa lettura (lo abbiamo già scritto) possiamo intendere similmente l'arco monolitico del concio di San Nicola di Trullas, dove tutta la scritta ruota attorno al simbolismo della luce: Lui immortale forza del toro della luce e forza di yaziz figlio del toro - toro forza della luce e forza di yaziz figlio di zzy’. In sostanza l'ineffabile yh è forza del sole (toro della luce) che si erge come un faro in chiave di volta; ed è forza del “personaggio” yaziz (evidentemente forza spirituale e morale ispirata da yh), ma anche forza spirituale e morale per discendenza terrena (figlio di zzy). Per tanto la forza è tutta di carattere metafisica, impalpabile, carismatica.

Fig. 1324
L'immagine di Fig.13 proposta dal Prof. Sanna nel suo articolo, dà ragione del significato isomorfo dei segni ancestrali, dal momento che l'arco assieme alla simbolica chiave di volta (protome taurina vedi Fig. 8) danno forma al percorso giornaliero del sole (dall'alba al tramonto passando per l'apogeo del mezzogiorno).
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L'arco o il quadrangolo, tra loro affini [omissis], sembrano raffigurare la volta celeste che delimita l'ambiente in cui vive l'uomo.” Sono parole tratte da “Il dio arcaico e la scrittura – un codice per le figure schematiche” di Angela Belmonte25, che nell'arco riconosce anche il significato di “terra”26; ma non solo perché nel medesimo volume la Belmonte, definendo il concetto di “pianta” associato a quello di “terra”, ci aiuta a leggere in differente modo l'arco e il toro di Semestene (si tenga bene in mente il significato del termine isomorfismo: nota 8). Nel volume I del citato libro di nota (25) a pag. 259 vi troviamo l'equivalenza tra “pianta” e “bastone”, inteso quest'ultimo come “il più rustico tra gli strumenti agricoli [omissis]. In America il bastone da scavo è tuttora impiegato dagli indios del Brasile meridionale e orientale, che l'utilizzano per interrare le sementi.” Da qui a intravvedere nel bastone=pianta il membro virile taurino inseminatore, il passo è breve. Tanto breve da poter individuare nella protome taurina del concio di Semestene quell'archetipo grafico, certamente trasformato e reso palese, di terra (arco) e pianta/bastone (toro). Non sorprenda la transizione perché il significato arcaico originario di “pianta” accomunata alla “terra” è proprio quello della procreazione. Lo stesso significato che ritroviamo nel concio di Semestene dal momento che dalla “pianta=bastone=toro” discende il figlio (yaziz) che è in “terra” e che nasce dalla “terra” (yaziz figlio si zzy). Ma non è tutto, visto che A. Belmonte ci spiega che a seconda della posizione della “pianta” rispetto al segno della “terra” il significato cambia. La studiosa a pag. 260 Vol.I scrive: “… quando la linea “pianta“ è all'interno del quadrangolo (o semicerchio) aperto in alto, la pianta è raffigurata nella parte esterna alla terra (parte aerea Fig. 14a). Se la linea è al di sotto, la pianta è rappresentata nella parte interna alla terra (radice Fig. 14b). Se la linea interseca la figura prolungandosi al di sopra e al di sotto, la pianta è definita nella sua interezza(Fig. 14c). Nel quadrangolo con l'apertura in basso, se la linea “pianta” è all'interno, essa è presente nella parte interna alla terra(radici Fig. 14d); se è esterna, rivolta in alto, la pianta è raffigurata all'esterno della terra( parte aerea Fig. 14e). Quando la linea interseca la figura prolungandosi all'interno e all'esterno, la pianta è presentata nelle due parti: quella sotto terra e quella visibile esternamente (Fig. 14f)” (mie le aggiunte tra parentesi e il sottolineato ndr).

Fig.14
Da questa spiegazione (solo tecnica) si capisce che la terra può essere indicata indifferentemente concava o convessa ed è la posizione della pianta=bastone=toro ad indicare che quando è sopra il quadrangolo (o semicerchio) con apertura in basso è esterna alla terra (Fig. 14e). Se a quella immagine (Fig. 14e) sostituiamo la protome taurina di Fig. 14g, il significato non cambia; per tanto trasponendo il significato nella figura nel concio di Semestene, risulta in modo chiaro il significato del toro che non a caso è “fuori” dall'arco, come a dire che esso è pianta che mette radici nella terra ma non è di questa terra27. A questo punto potremmo definire l'isomorfismo: isomorfismo plurimo28.
Ecco che si va delineando un significato complesso, certamente, ma stringente dal punto di vista semantico, visto che la frase del concio di Semestene si sviluppa in modo preciso con la divinità solare taurina al vertice e il suo figlio dalla doppia natura alla base dell'arco; la stessa conformazione che ritroviamo nei sigilli di Tzricottu. Anche qui sembra che il padre celeste sia inserito a bella posta in chiave di volta. Anche qui i tre segni puntiformi posti sopra il padre celeste, rispecchiano la simbologia del concio di Genoni coi tre (solare) più tre (lunare) cerchielli concentrici, e anche qui potrebbero intendersi quale percorso solare: alba (levarsi), percorso celeste (distendersi) e tramonto (calare), continuo e immortale.

Fig. 15

Tornando al concio di San Nicolò di Trullas: probabilmente non è casuale neanche la suddivisione a destra e sinistra del toro, delle due scritte; Scritte che definiscono la natura di yaziz, che sulla sinistra (all'alba) nasce quale figlio divino di yh e sulla destra (al tramonto) viene rimarcata la sua natura terrena e per tanto mortale. La qual cosa ci ricorda la doppia natura di Jesus. La storia si ripete, anzi sembra non sia mai terminata, ma si è evoluta a guadagno della prospettiva di vita eterna dell'uomo che ha bisogno di un personaggio (divinità umanizzata) che faccia da tramite tra Dio e l'uomo.
Secondo questa interpretazione, certamente piuttosto complessa, troviamo le vestigia di un lontano passato che mai si sopirono nella cultura di quelle genti, e le prove sono tutte sotto i nostri occhi. Basti dare uno sguardo a tutti i simboli di età nuragica che troviamo nelle ceramiche, nei modelli di nuraghe, “nella chiave di volta di Santu Antine di Genoni” e non ultime le statue di Monte prama, per renderci conto di quanto ciò sia vero.

Fig. 16

La complessità sta nel ritrovare in un unico elemento isomorfo (nel nostro caso la chiave di volta e l'arco) tutti i simbolismi di età arcaica descritti: toro in funzione di chiave di volta; toro che si muove in cielo dall'alba al tramonto; toro nella sua qualità di pianta=bastone che a contatto della terra la insemina.29

6. Comparazione di simboli
Se analizziamo i tre archi di Fig. 17: Semestene, Genoni e Su Tempiesu, possiamo notare la transizione avvenuta nel simbolismo ad essi legato, ma anche la presenza nei tre esempi dei medesimi simboli.
Nel concio di Semestene è raffigurato con tutta evidenza il toro in chiave di volta, mentre la luce è enfatizzata per due volte: in modo scritto con la parola NL sulla sinistra e in modo numerologico sulla destra.

Nell'arco di Su Tempiesu di Orune il toro è nascosto (l'ho voluto indicare in modo evanescente per il solo scopo dimostrativo), e la sua presenza sebbene fugace (appare in tutta la sua potenza luminosa solo all'alba del solstizio d'estate) è tradita dalla sua stessa luce30 che illumina l'arco nella sua interezza solo ed esclusivamente il giorno del solstizio d'estate. Anche qui la luce è enfatizzata per due volte per via dei due archi.

Dell'arco di Santu Antine di Genoni rimane la sola chiave di volta (ma ciò basta). Il concio apparentemente non reca alcun segno taurino, ma è lo stesso concio che restituisce quella immagine solare e divina. La luce è scritta in modo simbolico e anche qui per due volte, con quelle due serie di tre cerchielli concentrici.
Che dire di più!


Fig. 17

7. Cerchielli concentrici e zig zag: luce “in movimento”
Abbiamo detto che i cerchielli concentrici altro non sarebbero che l'ideogramma del cerchio soli-lunare inteso nella sua essenza primordiale di luce “celeste” universale che rinasce31. Rinascita scandita nel quotidiano levarsi, distendersi e calare quasi monotono del sole, se non fosse per la sua controparte: la Luna, che rende brioso e cadenzato dalle sue fasi cicliche a più corto respiro, quel grande percorso circolare che il Toro Solare descrive in un anno.
E' questo il punto di incontro delle due simbologie solare e lunare? E' probabile visto che dal punto di vista strettamente numerico il 12 è attinente alla sola luna e non al sole.

Fusione di simbologie
Il Sole appone nel suo cammino celeste quattro cippi cardinali: solstizi ed equinozi, che dettano le fasi riproduttive animali e vegetali nel ciclo annuale; mentre la Luna marca il tempo ancor più in dettaglio scandendo con le fasi lunari mensili la vita di tutti i giorni e in particolare quella della donna, alla quale è deputato il compito di dare la vita; quella vita per la quale la Luna somministra alla donna 12+1 occasioni all'anno per svilupparsi. Il connubio è stringente e inscindibile. L'uno non esclude l'altra, anzi si compensano e coadiuvano in un continuo moto oscillante, anche di reciproco (illusivo) allontanamento e avvicinamento, tanto da vedere in certi periodi entrambi gli astri viaggiare l'uno a breve distanza dall'altro.
La simbologia dello zig zag, proprio del moto del sole e della luna, con quel saliscendi ondulatorio costante e perpetuo32, allude al percorso dei due astri che muti volano nel cielo. Per tanto “cerchielli concentrici” e motivo a “zig zag” significherebbero rinascita continua del Sole e della Luna (o meglio: della luce).

Conclusioni
Le prove portate dimostrano in modo inequivocabile che le genti sarde conoscevano e adoperarono la tecnica dell'arco a conci. Non la usarono in modo sistematico perché di laboriosa edificazione. Lasciarono però traccia consapevole delle loro conoscenze in modo allusivo e il concio di Semestene ne è prova evidente.
Rimane solo una nota dolente al riguardo. La chiave di volta ritrovata nel sito nuragico di Santu Antine di Genoni è del tutto sconosciuta; e nella teca che la custodisce nel Museo G.A. Sanna di Sassari è posta in secondo piano, glissata com'è da un reperto più seducente. E' posta sotto il timpano trovato nello stesso sito, che indubbiamente riempie l'occhio del visitatore, con quella forma triangolare che racchiude la spirale di indubbio fascino; ma che dal punto di vista intellettivo è nulla in confronto allo sforzo richiesto nel concepire il principio statico insito in quella “chiave di volta”. Quel concio dovrebbe essere posto proprio “in chiave di volta” di quella teca; dovrebbe dar merito a quelle antiche genti dello sforzo intellettivo capace di un simile traguardo e invece no, solo una scarna descrizione didascalica recita: “MEMORIE DAL SOTTOSUOLO – Timpano in trachite – Chiave di volta – Calco del motivo decorativo della chiave di volta – Elemento architettonico decorativo con motivo a meandro – Prima Età del Ferro”. Ci piange il cuore! Altro che mitopoiesi!
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In seconda analisi possiamo dire di aver trovato, spero, una chiave di lettura efficace, che dimostra il lungo cammino intrapreso dai segni ancestrali descritti da M. Gimbutas e A. Belmonte, nonché da D. Orgiu, che ci forniscono, questi studiosi, una chiave di lettura efficace e del tutto semplice e naturale (come è giusto che sia) di quei segni. Lettura arricchita di significato da G. Durand che ci indica i meccanismi mentali che, ricorrendo all'allegoria, hanno tradotto i significati nei significanti nella mente di quelle antiche genti. Allegoria insita nel profondo dell'animo umano; quella che nasce già nel pensiero del bambino che vede un viso umano nelle finestre e nella porta circoscritte dalla facciata di una casa. Ma, se M. gimbutas, A. Belmonte e G. Durand ci hanno fornito le chiavi di lettura, il popolo sardo nuragico ci dice a chiare lettere che quei segni, partendo dal lontano paleolitico (forse), transitando per il neolitico, perdurarono indenni, incisi nella roccia, nelle ceramiche e nelle fattezze dei Giganti di Monte prama.


Note e riferimenti bibliografici

1 Il titolo è un esempio di rebus da sciogliere secondo livelli di lettura multipli. La soluzione sarà di certo più agevole dopo la lettura dell'intero studio. Buon divertimento.

2 Il toro è manifestazione della divinità luminosa ineffabile yh. Per tanto dire toro o dire sole è la stessa cosa.

6 F. Laner - L’arte del murare a secco Dove le pietre non dormono mai - http://collegio.geometri.bs.it/pdf/2010/6003_009.pdf

7 Si noti che tutte le ierofanie luminose, da quella del nuraghe Santa Barbara di Villanova Truschedu a quelle di Santa Cristina, Sant'Anastasia e Murru mannu, sono manifestazioni “fugaci” e in continuo movimento, ossia durano quel tanto che basta alla consumazione del rito; dopo di ché svaniscono e di loro non rimane alcuna traccia visibile.

8 L'antropologo Gilbert Durand utilizza il termine isomorfismo quale equivalenza morfologica, piuttosto che equivalenza funzionale per descrivere due o più concetti e/o immagini che sono in relazione biunivoca. Per esemplificare, in “Strutture antropologiche dell'immaginario. Introduzione all'archetipologia” scrive “Claudel ha messo in evidenza l'isomorfismo che unisce il ventre materno, la tomba, la cavità in generale e la dimora chiusa dal tetto” ed ancora “...il bambino riconosce nelle finestre gli occhi della casa e intuisce i visceri nella cantina e nei corridoi.” e ancora scrive disquisendo sul fuoco “Tale isomorfismo è altresì rafforzato dal fatto che per numerose tribù il fuoco è isomorfo dell'uccello.
L'isomorfismo è un concetto che nasce in ambito matematico, che lo descrive in maniera puntuale. Vediamo l'esempio:
Il numero di palline è isomorfo della cifra correlata e viceversa.

10 Non possiamo dare per scontato che l'arco fosse di passaggio pedonale.

11 M. Gimbutas ci avverte che gli ancestrali segni a V, chevron, zig zag, spirale, cerchi concentrici sono simboli di rinascita in tutte le culture e in particolare nel suo libro uscito postumo scrive: “Per le culture dell'Europa antica, il tempo procedeva in cicli, non secondo una linea verso la fine. Questo modo di considerare il mondo, era applicato tanto alla vita e alla morte, quanto alla semina e al raccolto: alla morte seguiva immediatamente la rigenerazione. La dea bianca rigida in particolare collegava la morte con la rigenerazione attraverso il suo esagerato triangolo pubico. Le proporzioni delle statuette si concentrano soprattutto sul grembo, il luogo della promessa di rigenerazione dal corpo della dea. Così l'inumazione rappresenta il ritorno simbolico nel corpo della dea, prodomo di un parto nuovo.” E ancora: ”La religione del neolitico era peculiarmente basata sull'idea di generazione spontanea della natura. Questo assillo generò un diluvio di immagini sacre antico-europee riguardanti il rinnovamento, la maggior parte dedicate a svariati animali: pesci, rane, cani, capre, porcospini, teste di toro, ognuna delle quali simboleggia in qualche modo l'utero. Alcune immagini riflettono il mondo naturale: semi, viticci, alberi, falli, germogli, colonne della vita. Ricorrono di frequente anche simboli astratti: spirali, uncini, triangoli e cerchi concentrici- Vedremo come tutti questi siano simboli di rigenerazione incarnino la vita nascente, pronta a sgorgare. Questi simboli spesso erano con-fusi con i simboli estremi della rigenerazione: il corpo della dea e gli organi della riproduzione.“ Tratto da M. Gimbutas – Le dee viventi – Ed. Medusa – pagg. 55 e 60.

12 Evidentemente il simbolo allude probabilmente ai due astri: sole e luna, che nel loro moto continuo e ripetitivo si rigenerano, nascendo e morendo, tutti i giorni. Rigenerazione che di fatto rispecchia il risultato dell'atto riproduttivo della natura in genere e dell'uomo in particolare. Tant'è che gli organi genitali maschili e femminili vengono chiamati “organi riproduttivi” ossia organi che “producono nuovamente” la vita. La parola “riproduttivo” la troviamo praticamente inalterata in quasi tutte le lingue europee. Le parole italiane: rigenerare, riprodurre, contenendo il prefisso di derivazione latina “re, ri” che indica il ripetersi di un'azione, di fatto recano nell'intimo significato il concetto di nascita, morte e risurrezione (sorgere nuovamente del sole e della luna, ma anche dell'uomo a nuova vita). Di certo queste similitudini furono innescate nel momento in cui l'uomo nel lontano passato fu cosciente di se stesso e in particolare dei propri organi riproduttivi, tant'è che questo aspetto è messo in evidenza, in buona sostanza, dagli studi di M. Gimbutas.

13 Di certo il sole e la luna fin dal passato più remoto furono segno di rinascita nel perpetuo sorgere, calare e risorgere , come appena detto in nota 12.

14 Il Prof. Sanna in modo del tutto filologico, interpreta i particolari di urne cinerarie, sarcofagi e quant'altro legato al rito funebre etrusco in funzione del sentimento religioso di quel popolo che invocava per i propri defunti l'auspicio di benevolenza di Tin e Uni le loro prerogative genitoriali di protezione, sicurezza e sostegno nel continuo rinnovarsi del ciclo della vita evocato dal sollevarsi, distendersi e curvare del sole e della luna. Evocazione che di per se rende l'idea dell'arco composto da tre conci.

15 Si fa strada l'idea (non da oggi) che i segni che troviamo nelle domus d Janas e nei reperti vascolari delle culture prenuragiche siano stati tutti adottati dalle genti nuragiche ed utilizzati nelle formule dedicatorie che troviamo nei monumenti di età nuragica. Formule che riportano come vediamo nelle immagini di Fig. 10 reiterazioni con evidente significato logografico di immortalità il segno a zig zag col significato logografico di continuità del muto volare nel cielo del Sole e della Luna col significato logografico di luce. Alla base di tutto ciò vi è l'espressione grafita del “logos” quale parola attribuita alla divinità e se tale espressione grafita, che poi possiamo ben chiamare “grafema”, ha potenzialità logografica, allora stiamo parlando di “scrittura”. Il sillogismo è semplice e chiaro, come tutti i sillogismi che investono la sfera dell'ancestrale.

16 Da Donatello Orgiu - I Segni a “V” e il simbolo di Tanit - in https://www.academia.edu/6303754/Il_segno_a_V_e_lorigine_del_simbolo_di_Tanit – Tratto da: D. Orgiu - La Dea Bipenne Dal segno all’idea – Ed. Tipografia 3 ESSE.

17 Fu M. Gimbutas a coniare la parola all'interno dei suoi studi pionieristici di archeologia e mitologia antica, divenuti pietra miliare di quel settore di studi.

18 Già G. Sanna e G. Atzori in “Omines – dal neolitico all'età nuragica” Ed. Castello, preannunciarono nel 1996 la relazione tra i segni neolitici e quelli nuragici.

19 Gli studi di archeomitologia avviati da M. Gimbutas rafforzano e non poco gli studi del Prof. Sanna; per contestare i quali è necessario, immancabilmente, contestare in modo efficace le affermazioni di Marija Gimbutas; ma anche quelli di Angela Belmonte e non ultimo quelli di D. Orgiu e di G. Durnd e di tutti quegli studiosi che vedono nei segni ancestrali più arcaici simbologie che rimandano inequivocabilmente a segni di scrittura logografica: un segno = una parola. Per fare ciò, però, è necessario un grande sforzo intellettuale da parte di chi contesta; non basta appellarsi alla sfera del materiale per giustificare o negare un dato: è troppo facile ed è sminuente nei confronti dell'intelligenza di quelle antiche genti. La scrittura, lo dimostra M. Gimbutas, non nasce in ambito palaziale e commerciale, ma in ambito religioso. Su questo aspetto della scrittura batte incessantemente da oltre vent'anni il Prof. Sanna e da vent'anni l'Accademia fa orecchio da mercante.

20 G. Lilliu propose per Su Tempiesu una soluzione architettonica del timpano che prevedeva un architrave con sovrastante finestrella di scarico proprio all'altezza dei due archi; architrave che di fatto impediva la vista ai due archi. - G. Lilliu – La civiltà dei Sardi – Ed. Il Maestrale 2003 – pag. 616 Fig. 204.
 Nel libro G. Lilliu dà per scontata la presenza sia dell'architrave che della finestrella di scarico (pag. 613-615). Questa ipotesi ricostruttiva è abbandonata da M.A. Fadda, che invece propone un timpano che lascia in vista i due archi monolitici. Che quella di G. Lilliu sia solo una ipotesi ricostruttiva lo afferma E. Contu (1999) in “Pozzi sacri: ipotesi ricostruttive. Sacer, Vol. 6 (6), p. 125-148” dove scrive “Unica differenza fra la ricostruzione del LILLIU, e mia, e quella della FADDA (fig. l,c) era l'assenza per quest'ultima di un architrave, con sovrastante finestrello di scarico, al centro del timpano; i quali elementi erano stati ipotizzati pur non restandone traccia in posto. Anzi ancora non mi abbandona il dubbio che essi in un primo tempo potessero esserci stati, in analogia a come l'architettura nuragica realizza, in casi numerosissimi, la copertura ad aggetto della luce di ingressi e nicchie. Nel punto infatti in cui ci si sarebbe aspettato tale architrave si affrontano ora, sue due lati del timpano, due conci di colore più chiaro, rispetto a quelli della restante struttura; tanto che forse potrebbero interpretarsi, come i resti, successivamente scalpellati in seguito a rottura, di un preesistente architrave. La grande onestà intellettuale di E. Contu tormenta l'animo dello studioso che vorrebbe abbracciare l'ipotesi ricostruttiva della Fadda, ma in cuor suo non abbandona definitivamente l'ipotesi ricostruttiva di Lilliu, e sua, come Lui stesso ammette.
G. Lilliu trova nei due archi monolitici della fonte sacra di Su Tempiesu il corrispettivo negli archi monolitici di due “tombe di giganti”, quelle di “Pedras doladas di Scanu Montiferro” e quella si “Sa sedda e sa Cadrèa di Sindia” (pag. 599 del citato libro) e così si esprime: “Il vestibolo, di m 1,55 x 1,07/1,30 con altezza di m 3,27, ha spalle convergenti verso il soffitto costituito da archi monolitici simili a quelli delle “tombe di giganti”. L'asserzione, erronea per quanto riguarda la descrizione del “soffitto”, che sembrerebbe realizzato con volta a botte costituita da archi monolitici, è pure erronea per quanto riguarda il campione di riferimento: le due tombe di giganti. Errore ammesso dallo stesso Lilliu nella nota 33 del suo saggio “Dal <betilo> aniconico alla staturaria nuragica” in “Le sculture di Mont'e Prama – La mostra “ - Cangemi Editore.
Si è voluto qui rimarcare l'errore segnalato (persistente ancora nella edizione del 2003 di “La civiltà dei Sardi”, non certo per squalificare il grande archeologo, che rispetto ora più che mai; ma solo per rimarcare le peculiarità di quei due archi monolitici, che ritengo abbiano un significato simbolico ben preciso in un contesto altrettanto preciso; e sgombrare il campo da qualsiasi dubbio che possa far intendere l'arco monolitico in questione quale elemento architettonico di largo e differenziato uso (tombe di giganti).

21 In un prossimo articolo vedremo più nel dettaglio il simbolismo della fonte de Su Tempiesu, che investe con ogni probabilità il Monte Albo, ma non solo.

22 L'arco posteriore non viene mai illuminato nella sua interezza in nessun momento dell'anno.

25 Angela Belmonte – Il dio arcaico e la scrittura – un codice per le figure schematiche – Vol I – MF Edizioni – pag.23

26 Idem - pag. 261. Non faccia specie il simbolismo duale, visto che l'arco sembra raffigurare la volta celeste che delimita l'ambiente in cui vive l'uomo; ambiente che è delimitato anche dalla terra.

27 La ulteriore lettura del concio di Semestene dettata dagli studi di A. Belmonte, benché evochi immagini diverse rispetto a quelle già viste: sole e percorso solare; si rivela tutt'altro che discorde rispetto al significato precipuo. Entrambe le immagini evocate: sole e percorso solare da una parte, bastone e terra dall'altra, recano il medesimo significato alludente la vita, ed entrambi possono, anzi devono, coesistere (vedi ancora nota 26). Esse (le immagini) coesistono nel momento in cui il Sole tutti i giorni irradia la Terra e la rende feconda. Quest'ultima asserzione non è di carattere allegorico ma, gli agricoltori lo sanno benissimo, è più che mai reale; infatti “La temperatura del suolo influenza la crescita della pianta principalmenteagendo sui seguenti parametri:
- Germinazione dei semi: la durata della fase di emergenza è influenzata da T e influenza la durata del ciclo.
- Asportazione degli elementi nutritivi: la permeabilità osmotica delle membrane radicali e le velocità di asportazione dipendono dalla temperatura.
- Distribuzione radicale: in un suolo freddo le radici si espandono lateralmente in superficie, mentre in un suolo caldo penetrano verticalmente in profondità, con vantaggi per le asportazioni idriche e minerali.
- Respirazione ed attività microbica del suolo: tutti i processi enzimatici dipendono dalla temperatura, pertanto la decomposizione dei residui organici è temperatura dipendente. tratto da: http://www2.unibas.it/perniola/attachments/article/4/3)%20agrometeorologia.pdf

28 Per isomorfismo plurimo possiamo intendere quello che in epigrafia è definita polisemia. E' possibile che la polisemia derivi direttamente dall'isomorfismo plurimo. Infatti A. Belmonte nel suo studio già citato scrive a proposito della scrittura sumerica (pag. 4 Vol. I): “Ogni segno della scrittura sumerica ha numerosi significati apparentati tra loro (polisemia) e non sempre a noi comprensibili nelle loro relazioni. La scrittura esprime infatti una cultura evoluta e complessa. Un termine inoltre può essere rappresentato da segni diversi.” Sembra che la Belmonte stia descrivendo la scrittura nuragica!
Per quanto riguarda la polisemia sumerica si veda anche “Pietro Mander - A. Il cuneiforme – La nascita della scrittura: il cuneiforme sumerico e assiro-babilonese. Caratteristiche, lingue e tradizioni scribali. B. Archivi e biblioteche in Mesopotamia del periodo pre-sargonico (Protodinastico I-III: III millennio a. C.) §1.3 - all'indirizzo: https://www.academia.edu/17076385/A._Il_cuneiforme_La_nascita_della_scrittura_il_cuneiforme_sumerico_e_assiro-babilonese._Caratteristiche_lingue_e_tradizioni_scribali._B._Archivi_e_biblioteche_in_Mesopotamia_del_periodo_pre-sargonico_Protodinastico_I-III_III_millennio_a._C._

29 Non paia strana e avventurosa l'interpretazione. Ancora nelle comunità sarde è uso comune indicare il ventre materno col termine allegorico di “terra”, tant'è che quando si vuol specificare che due fratelli sono unilaterali si dice che sono: “stessa terra e diverso seme” o “stesso seme e diversa terra”.

30 La frase necessita di una spiegazione. Con tutta evidenza gli archi di Su Tempiesu non recano alcun simbolo taurino ma questo si manifesta attraverso la ierofania che causa la illuminazione dell'arco stesso ossia; la luce del sole non può che provenire se non dal “toro solare”.

31 I cerchielli concentrici hanno anche valore di “occhio” come nelle statue di Monte Prama. E ancora una volta il tema rimanda alla luce.


6 commenti:

  1. Caro Direttore, nella mia pagina di facebook sono intervenuti l'ingegner Angelo Saba e il dottor Fracesco Maxia sulla questione dell'arco. Il primo ha detto (e c'è da credergliper il mestiere che fa ) che l'arco nuragico non è dell'età del ferro ma addirittura dell'età del medio bronzo. Bruscolini! Penso allora che tu debba invitare l'ingegner Saba a pronunciarsi qui perché il tuo blog con oltre un milione di ingressi può portare per il mondo una notizia sconvolgente sul piano della storia della architettura del Mediterraneo occidentale.

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  2. Caro Professore, ho letto sulla Sua pagina fecebook quanto asserito dall'Ing. Saba e volentieri accoglierei in questa sede i commenti di una persona competente quale egli è.
    Non vi è alcun dubbio che l'Ingegnere possa aiutarci a capire e magari anche correggere eventuali errori che si possono commettere. E' necessario un confronto per avanzare lasciando gli indugi alle spalle.

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  3. Vi è ancora tanto da dire dal punto di vista simbolico sulla chiave di volta: nuraghe Santa Barbara e il muro di Murru mannu in Tharros ne sono esempio. Bisogna però spogliare l'essenza della chiave di volta dal vestito “tecnico” che noi oggi gli abbiamo cucito addosso e guardarlo nella sua “nudità” di elemento che segna, insegna ed è insegna della potenza divina. Solo un gioco di parole?! Beh, stando in superficie certamente, ma andando oltre si capisce perché dopo millenni il Taramelli pose, ipoteticamente, il toro sopra l'ingresso del tempio di Sant'Anastasia. I meccanismi mentali sono sempre gli stessi. Il toro quale espressione di potenza è sempre in prima fila, a tirar l'aratro o il carro, oppure in alto, sopra un architrave a esprimere la potenza luminosa del mezzogiorno tutti i santi giorni; oppure discende dall'ingresso privilegiato del pozzo di Santa Cristina il 21 di giugno.

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  4. Credo che ci sia da fare chiarezza sul valore e sulla simbologia dei cerchielli o circoli concentrici che non significano davvero "rinascita del sole e della luna" ma sono semplicemente SEGNI D'ACQUA. ACQUA ELEMENTO NECESSARIO ALLA RINASCITA. Per avere la VITA c'è bisogno di SOLE e di ACQUA...e gli antichi, non solo i Sardi,l'avevano ben compreso per cui in tutto il mondo, in tante culture abbiamo il riscontro che i CERCHI CONCENTRICI SONO SEGNI D'ACQUA: rappresentano l'acqua! Purtroppo nemmeno la Grande Marija Gimbutas questo segno l'ha capito. Io credo di averlo ben spiegato ) ma ho anche altre prove) in questo mio studio: https://www.academia.edu/13959714/I_SEGNI_d_ACQUA_dalla_Preistoria_al_Medioevo_con_testimonianze_dalla_Lunigiana_

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  5. Con riferimento al mio commento precedente del 13 maggio ore 14.56 SUL VALORE DEI "Circoli concentrici" potete lascirmi ogni vostro commento e o informazione contattandomi all' email Barbieri.rino@virgilio.it e potete ancora leggere questo mio studio sullo stesso tema: https://www.academia.edu/30938018/IL_GUARDIANO_NURAGICO_DI_ABINI_e_il_suo_incompreso_messaggio

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  6. Quando si affrontano questi temi è difficile attribuire significati in senso assoluto e univoco. Proprio dal suo commento prendo spunto, dal momento che “Per avere la VITA c'è bisogno di SOLE e di ACQUA...” come lei ben dice; proprio la luce e l'acqua sono elementi enfatizzati dalla civiltà nuragica nei pozzi sacri. Per questo motivo non posso escludere una possibile correlazione dei cerchielli con l'acqua, ma sicuramente non posso eludere il significato lucifero che traspare dal cerchio. Quel che lei scrive nel suo articolo a proposito dei cerchi generati da “un corpo che cade nell'acqua stagnante “, definisce una forma indotta del cerchio ossia; deriva da una azione provocata da un entità esterna; è, per così dire: “una forma creata”. Il cerchio solare e lunare sono, invece, immagine della parte manifesta di quella entità (qualunque essa sia) ossia; il cerchio solare e quello lunare danno corpo alla divinità.
    Ma, a parte le considerazioni esposte nel mio articolo, che possono essere accettate o meno, propongo una obiezione al Signor Rino Barbieri (sempre e comunque in ambito nuragico): perché mai dovrebbero esserci due simboli (con valore logografico), con identico significato nel medesimo contesto segnico? In sostanza, se prendiamo i segni riportati nella figura 10 del mio articolo, dovremmo desumere, per quanto scrive nel suo articolo, che lì vi sia scritto “acqua” in forma di zig zag e ancora “acqua” in forma di cerchielli concentrici; e questo, nell'ambito della scrittura nuragica, per quanto ho potuto capire di essa, non è ammissibile perché in questa, la ripetizione logografica è ottenuta con la reiterazione del singolo segno.

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